Europa e credibilità dell’Italia
La scelta di aderire all’Euro è stata lungimirante. Quando è stato firmato il trattato di Maastricht, l’Italia viveva in pieno un periodo di grande turbolenza, in cui era vittima sistematica di attacchi speculativi contro la propria moneta ed era costretta a svalutare periodicamente la lira. Ci ricordiamo l’ultima, drammatica svalutazione del settembre 1992, con i rendimenti sui titoli di Stato al 12,5 per cento, ciononostante i 3.300 miliardi di lire di Bot invenduti all’asta di agosto, l’Italia sull’orlo della bancarotta?
La svalutazione, se da una parte ridava competitività alle imprese italiane, obbligava dall’altra a manovre “lacrime e sangue” per mantenere i conti pubblici sotto controllo.
Dopo l’adesione all’Euro, l’Italia ha vissuto un lungo periodo di stabilità finanziaria, con tassi d’interesse sui titoli di Stato bassissimi, perché allineati sui tassi tedeschi, mai conosciuti in precedenza. Purtroppo non siamo riusciti a mettere a frutto di questo periodo di stabilità e di bassi tassi d’interesse per ridurre in modo sostanziale il nostro enorme debito pubblico, che pesa come un fardello sulle spalle degli italiani, presenti e futuri.
La fragilità della zona euro
Con la crisi finanziaria del 2007, sono emerse le fragilità della zona euro, e sono ripresi gli attacchi alle economie più fragili, tra cui l’Italia a causa appunto del nostro gigantesco debito pubblico. È emerso, soprattutto, che se la gamba monetaria dell’Uem (unione economica e monetaria) funzionava, sotto il controllo di istituzioni comuni come la Banca centrale europea, la gamba economica era praticamente inesistente (da qui l’espressione di “zoppìa” coniata da Ciampi).
In pratica, sul versante economico non governavano regole e istituzioni sovranazionali (operanti cioè secondo il “metodo comunitario”, che dà una voce ad ogni Stato membro dell’Ue), ma ogni Paese faceva in pratica ciò che voleva. In questa specie di giungla, vigeva quindi la legge del più forte. E chi era lo stato più forte dell’Unione monetaria? La Germania.
Germania che, avendo fatto, nei primi anni 2000, riforme lacrime e sangue (le famose riforme Schröder, che gli sono costate il posto di cancelliere, ma hanno permesso di dimezzare la disoccupazione in un anno e far ripartire la crescita economica), quella ricetta conosceva e quella ricetta, avendo il potere di farlo, ha imposto agli Stati più deboli della zona euro: l’austerità.
Anche perché, sul piano niente affatto secondario della psicologia collettiva, era risentita per l’atteggiamento della Grecia che aveva barato sui conti pubblici e timorosa di doversi accollare il debito che i Paesi del Sud dell’Europa avevano allegramente contratto, mentre i cittadini tedeschi tiravano la cinghia.
Le riforme imposte dalla Merkel, in una fase di crisi economica acuta, hanno avuto un effetto depressivo. Questo però passava il convento, in assenza di regole e istituzioni comuni per gestire la gamba economica dell’Uem.
Ora, nel recente vertice di Meseberg, vicino a Berlino, la Merkel ha accettato la proposta di Macron di dotare l’Uem di un proprio bilancio. Macron sognerebbe un ministro delle finanze della zona euro, ma per i tedeschi questa è una linea del Piave invalicabile.
Sovranità dell’Italia
L’Italia ha rinunciato a una porzione di sovranità aderendo all’Euro? Certo. In cambio, però ha avuto la stabilità e i bassi tassi d’interesse (e un rapporto di cambio euro-marco tedesco, al momento dell’adesione, molto favorevole). E, non dimentichiamolo, lo ha fatto liberamente, rispettando il dettato costituzionale.
L’Italia ha soprattutto patito, da un lato, l’assenza di regole comuni (che cominciano ad essere adottate, si pensi all’unione bancaria) e di istituzioni comuni (tuttora assenti) e, dall’altro, la propria endemica debolezza di fronte ai partner europei, Germania in primis.
Questo significa che dovremmo uscire dall’euro? A parte il fatto che una tale uscita non è prevista dai trattati Ue (si può solo lasciare l’Ue, non la zona euro), personalmente penso che i mercati punirebbero severamente una tale ipotetica scelta. Possiamo decidere di ignorarli e di lasciare (se fosse possibile) l’euro, con il probabile risultato di impoverire l’Italia e tornare a un periodo di turbolenze e attacchi speculativi.
L’Ue è attraversata da tensioni come forse mai prima d’ora. Un enorme problema, come quello delle migrazioni, che dovrebbe spingerci a trovare soluzioni condivise, genera invece fratture profonde e fa emergere egoismi nazionali preoccupanti.
Dopo la Brexit
L’Ue non ha una voce unica e autorevole sulla scena mondiale. Dopo la Brexit, la Francia sarà, in modo del tutto anacronistico, l’unico Paese Ue a sedere in modo permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu e a disporre della bomba atomica e continuerà ad esercitare tale potere in modo autonomo, come se non facesse parte di un più vasto complesso, l’Ue, che ha interessi strategici comuni, primo tra cui non essere solo il più grande mercato mondiale, ma giocare un ruolo forte e autonomo negli affari mondiali.
Sul piano economico, la Germania fa il bello e il cattivo tempo, con un surplus commerciale che crea le premesse di una nuova crisi, come quella che la Germania ha attraversato negli anni 2000. La Brexit avrà conseguenze imprevedibili non solo per il Regno Unito, che probabilmente pagherà un prezzo molto alto in termini economici e finanziari, ma anche per i 27.
L’Ue, anche dopo l’uscita del Regno Unito che non si è mai veramente integrato con il blocco continentale, sarà più eterogenea che mai. Gli interessi strategici del gruppo di Visegrad non coincidono con quelli dei Paesi più occidentali.
Molti Paesi, tra cui Germania e Francia, tradizionale motore politico dell’Ue, sono attraversati da tensioni populiste, nazionaliste, di ripiegamento sui propri interessi, che potrebbero portare, dopo le elezioni del 2019, ad un parlamento europeo bloccato da un forte gruppo euroscettico. Questo impatterebbe negativamente la capacità decisionale dell’Ue, che deve poter decidere bene, ed in tempi ragionevoli, per rispendere alle sfide che aleggiano (immigrazione, cambiamento climatico, terrorismo, rapporti con potenze vicine, come la Russia e, storicamente, gli Usa, e lontane, come la Cina, …). Queste sfide non sparirebbero per incanto con governi di natura più populista, e non potrebbero certo essere risolte con le politiche, puramente nazionali, che tali governi sostengono e sosterranno.
Occorrerebbe una grande mobilitazione dei cittadini europei, di fronte a queste sfide, che possa superare gli egoismi nazionali, che paiono trionfare.
Ridiscutere i trattati?
Tutto si può discutere con i partner europei, nel rispetto dei trattati, che fissano innanzitutto le materie di competenza dell’Ue (non tutto è attribuibile all’Ue, anche se spesso essa è un comodo capro espiatorio per i governi nazionali). Però bisogna averne la forza.
Alcune regole sono fissate nei trattati, che si modificano solo all’unanimità e con tempi lunghissimi.
Su altre questioni, come la riforma di Dublino, l’Italia può fare delle proposte. Ma occorre credibilità. Il nostro ministro degli interni Salvini è noto in Europa per il suo assenteismo quando era deputato europeo. Le riforme non si fanno con i proclami, ma con una presenza al tavolo del Consiglio dei ministri e con un lavoro capillare a livello diplomatico.
Macron è da quando è stato eletto che invoca un bilancio comune della zona euro e un ministro delle finanze per l’Uem. A forza di insistere, ed avendo un grande Paese alle spalle ed una buona dose di credibilità personale, qualche risultato lo sta ottenendo.
L’Italia parte svantaggiata. La situazione delle nostre finanze pubbliche ci rende un partner inaffidabile e le prime mosse del nuovo governo stanno creando scompiglio. Una scossa magari salutare, ma che non ci agevola sul piano della credibilità, senza la quale in Europa non si conta nulla. I nostri partner devono poter essere sicuri che possono fidarsi di noi.
C’è strada da fare.