Euro 2016 primi verdetti: tra sconosciuti e squadre operaie
Il Girone dei superbi
Emblematica e perfetta quest’espressione del capo servizio di Avvenire, il collega Massimiliano Castellani, per definire passi e passaggi di alcune “sedicenti leggende” del torneo. Se mister “sono bello, forte e ricco” Cristiano Ronaldo ha dato dei “catenacciari” e dei poveri “anti-football” ai “piccoli” islandesi, salvo meravigliarsi amaramente di non essere riuscito ad andare oltre l’1-1 con il suo Portogallo contro gli isolani sbeffeggiati. Per un superbo Cristiano da Madeira che deve ricredersi, c’è anche un astro nascente del centrocampo francese, Paul Pogba, che il suo agente Mino Raiola definisce più costoso di cento milioni di euro, che viene sostituito alla prima gara, quindi relegato in panchina nella seconda.
Per non parlare dei boriosi belgi che, anche tramite la pubblicità di una nota birra locale, avevano esordito con un ambizioso “gli italiani parlano con le mani, noi con i piedi”, salvo poi dover fare mestamente tacere sia le bocche che tutti gli arti, dato il netto 2-0 inflitto loro dalla nazionale operaia di Conte: umile ed efficacissima, fondata sul “ministero juventino” in difesa che ha visto i “pentacampioni” della Serie A, Buffon, Barzagli, Bonucci e Chiellini proteggere alla grande le speranze della nostra speranzosa spedizione, la nostra nazionale, guidata dalla consueta rabbia agonistica e sagacia tattica di Antonio Conte ci ha inorgoglito sfoderando anche la combattività dei “soldatini che non t’aspetti” Giaccherini, Parolo e Candreva. Una lezione di umiltà che il nostro undici nazionale ha dato anche all’autoproclamato «leggenda» Zlatan Ibrahimovic attraverso il match tra Italia e Svezia, ora a un passo dall’andare superbamente e leggendariamente… a casa.
Gli illustri sconosciuti
A battezzare questi europei la bella favola di “Monsieur Payet”, nato in mezzo all’Oceano Indiano in un’isola che evoca storie di navigatori e pirati: la Reunion, fazzoletto di terra abitato da etnie di almeno tre continenti, tra europei, africani e asiatici. Cresciuto in Francia, tre figli, a quasi 29 anni, è stato lui a segnare il primo gol decisivo dell’Europeo francese: un sinistro formidabile e questo centrocampista del West Ham, conosciuto soprattutto dagli appassionati della Premier League, è ora famoso in ogni angolo del pianeta, simbolo ideale del cosmopolitismo in un’Europa dove circolano preoccupanti venti di divisione e si costruiscono muri di esclusione.
Così come era sconosciuta ai più la laboriosità del gruppo albanese assemblato in giro per l’Europa dal nostro tecnico Gigi De Biasi, divenuto cittadino albanese “per meriti sportivi” che ha di fatto già vinto: fin dal suo arrivo, sancito il 14 dicembre 2011, il lavoro di ricostruzione psicologica e tecnica della nazionale delle aquile è stato evidente e testimoniato da una magnifica qualificazione. L’Albania vista finora non ha affatto sfigurato: ha perso la prima gara contro la Svizzera su un calcio d’angolo, ha ceduto contro i padroni di casa della Francia solo ad un minuto dalla fine, nella seconda gara, ma ha vinto la terza ed ora spera nel ripescaggio per gli ottavi.
Verso l’Eldorado
Se i favoriti francesi hanno espresso un gioco tutt’altro che irresistibile ed evidenziato come previsto qualche lacuna in retroguardia, la Germania campione del mondo ancora detta gioco e classifica del suo girone, ma non spaventa troppo: non vi sono campioni, sebbene non vi sia un giocatore che non appaia comunque sopra la media per tecnica e preparazione fisica.
La Spagna sembra avere restaurato lo spettacolo del “tiki taka” che l’ha portata sul tetto d’Europa in occasione degli ultimi due Europei di calcio (2008 e 2012), con un mondiale 2010 vinto in mezzo: quella sua insistita e sfiancante rete di passaggi capace di irretire le velleità avversarie può ancora dettare legge fino alla fine. E noi? La nostra squadra operaia non vanta fuoriclasse né prime donne, ma farci gol sarà dura per tutti, lo abbiamo già appurato e si sa, nel calcio una rete può scapparci in qualunque modo o momento. Guai a darci per finiti: siamo l’Italia, sempre clamorosamente sorprendente nei suoi momenti più bui.