Eugenio Scalfari, che voleva essere un papa laico
Ha fatto la storia del giornalismo italiano, Eugenio Scalfari, morto a 98 anni nel suo attico sulla Nomentana. Un uomo che ha attraversato il secolo scorso con un percorso di vita assai accidentato, spesso contraddittorio, con l’unica costante dell’amore per il giornalismo. Nato a Civitavecchia nel 1924, mentre frequentava il liceo Mamiani si trasferì a Sanremo, dove il padre aveva assunto il ruolo di direttore artistico del locale casinò. Ebbe come compagno di banco Italo Calvino, con cui strinse una vera amicizia. Sin da giovane volle essere giornalista, carriera che cominciò collaborando con diversi organi di stampa fascisti. Nel 1942 divenne addirittura caporedattore di Roma fascista. Ma già nel 1943 cominciò a prendere le distanze dal regime mussoliniano, con alcuni articoli abbastanza generici e anonimi di accusa verso alcuni gerarchi fascisti impegnati nella costruzione dell’Eur. Fu perciò espulso dal partito del fascio.
Dopo la guerra, esaurita una breve carriera bancaria durante la quale ebbe modo però di conoscere a fondo il sistema finanziario italiano, collaborò nello stesso tempo con il Mondo di Mario Pannunzio e l’Europeo di Arrigo Benedetti. Nel 1955 fu tra i soci fondatori del Partito radicale e del settimanale l’Espresso, di cui fu direttore amministrativo e poi direttore responsabile. Boom: in 5 anni arrivò al milione di copie. Ma proprio in quel 1967 venne condannato assieme a Lino Jannuzzi per la torbida questione Sifar, ma riuscì a evitare il carcere perché eletto deputato nel Partito socialista di Mancini.
Giocava col fuoco, Scalfari, se è vero che nel 1971 scrisse una lettera aperta a l’Espresso contro il commissario Luigi Calabresi, indagato per la morte dell’anarchico Pinelli, mentre svolgeva inchieste pericolose sull’eversione di estrema sinistra, commissario che un anno dopo fu ucciso da Lotta Continua. Solo nel 2017 ammise la sua colpa. Si incaponì poi contro Eugenio Cefis, presidente Eni e poi Montedison, per questioni di gruppi di potere concorrenti. Razza padrona, scritto con Giuseppe Turani nel 1974, ne fu la sintesi. Finché nel 1976 fondò la Repubblica, dopo un tentativo fallito in connubio con Indro Montanelli. Creò il quotidiano romano grazie a una joint venture del Gruppo l’Espresso e di Mondadori, poi sostituita da De Benedetti, dopo una lotta senza esclusione di colpi con Berlusconi, terminata col famoso Lodo Mondadori. Nel 2018 romperà anche con Carlo De Benedetti. Il quotidiano la Repubblica fu effettivamente una grande novità nello stantio panorama editoriale italiano, per il suo formato, per l’approccio alle notizie più “leggero”, per l’impaginazione minimalista, per il fatto di voler raggruppare una comunità attorno al suo pensiero.
Fin qui la carriera fra comunicazione mediatica e impegno politico di Scalfari. Tre aspetti di tale percorso vanno sottolineati, anche se qualcuno rimarrà sorpreso perché non viene elevato un peana a Scalfari: in primo luogo, tutta la sua lunga attività giornalistica è stata guidata da una ambizione assai sviluppata e dal fiuto del potere, e dal tentativo, talvolta riuscito, di far parte delle cordate vincenti, mutando di registro e talvolta anche di casacca. In fondo, Scalfari fu un opportunista del potere. In secondo luogo, bisogna sottolineare le sue qualità giornalistiche, la predisposizione al giornalismo d’inchiesta, senza però aver mai adottato l’a priori di origine anglosassone di scrivere solo se totalmente estraneo ai giochi di potere di cui trattava. Scalfari era un giocatore, prima di essere un testimone. Aveva una certa verve giornalistica, senza però essere né un virtuoso né un artista della penna. Inoltre, va detto, planano non pochi dubbi sulla sua deontologia professionale, come ha dimostrato fino agli ultimi anni, quando con eccessiva leggerezza ha trasformato i colloqui amichevoli con Bergoglio (che pur lo annoverava tra i suoi amici) in interviste vere e proprie, in realtà mai concordate e, soprattutto, mai registrate. Attribuì così a Francesco dichiarazioni probabilmente mai pronunciate, o perlomeno frutto di interpretazione pilotate dai suoi interessi particolari.
Infine, proprio questi colloqui col Papa argentino sono testimoni di un suo crescente interesse per il mondo della fede, in particolare del cattolicesimo, interesse legato a una sua più volte confessata paura della morte. I suoi lunghissimi e talvolta ostici articoli degli ultimi vent’anni su la Repubblica, ogni sabato, hanno via via abbandonato l’agone politico ed economico per concentrarsi su temi più etici, filosofici o addirittura religiosi, mostrando spesso e volentieri un uomo alla spasmodica ricerca della verità. Luci e ombre, dunque, forse più ombre che luci; ma con un finale “illuminato”.
__
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it