Ettore Mo testimone credibile
Chi l’ha conosciuto ha voluto descrivere gli inizi di una carriera che non ha seguito la consueta trafila: la passione per la professione, università, scuola di giornalismo, praticantato, tutti i gradini ascendenti in redazione. Ettore Mo aveva un’idea fissa in testa: raccontare il mondo, niente meno, ovunque e comunque. Per lui non c’erano compartimenti stagni: il mondo potevi scriverlo sia che ti occupassi di cinema, di cronaca o di esteri.
L’importante, per Mo, era quel cognome così corto da sembrare un trucco da marketing: Mo’, alla romana, cioè adesso, tutto e subito, basta avere carta e penna, basta spalancare i cinque sensi e l’intelligenza alla ricerca di un brandello di realtà, se possibile di verità. Con un po’ di quella sfrontatezza che serve quando la propria passione, quasi una vocazione, chiede di trovar sfogo, si era proposto a mostri sacri com’erano Ottone e Spadolini, e l’aveva spuntata, senza nessun appoggio, senza raccomandazioni, scrivendo per anni di qualsiasi cosa senza potersi firmare, di tutto e di più. Finì grand reporter.
Biografia tascabile. Mo era nato nel 1932. Nel 1962 si presenta al corrispondente da Londra, Piero Ottone, per ottenere un posto come giornalista al Corriere della sera e viene assunto. Aveva girato il mondo come sguattero e cameriere, barista, bibliotecario, insegnante di francese, infermiere in un ospedale per incurabili e infine steward sulle navi. Si occupa di musica e teatro, ma nel 1979 ottiene il primo incarico come inviato speciale, nell’Iran di Khomeini, appena tornato in patria. Poi il primo viaggio in Afghanistan e la conoscenza col “Leone del Panshir”. È morto a 91 anni, nella serata del 9 ottobre scorso.
Disse della sua professione di corrispondente di guerra: «È una malattia: se hai avuto la fortuna di essere testimone dei più grandi avvenimenti non riesci più a farne a meno». Tra i suoi libri, che sostanzialmente erano raccolte di reportage, ricordo per Hoepli, nel 1989, La peste, la fame, la guerra. Afghanistan Kurdistan Iran Iraq Medio Oriente Cambogia India Centro America; Sporche guerre. Dall’Afghanistan ai Balcani le avventure e gli incontri di un grande inviato, per Rizzoli nel 1999. E per lo stesso editore Gulag e altri inferni. Un grande viaggiatore tra le rovine della Storia, due anni più tardi, e ancora: I dimenticati. Un grande cronista nei mondi al margine della globalizzazione, nel 2003, forse il suo libro più toccante.
Ettore Mo è stato un grande del giornalismo almeno per tre motivi: innanzitutto, perché ha saputo rispondere di sì alla sua chiamata personale civile, per riprodurre brani di realtà, cercando ovviamente nella vita professionale di raccontare la realtà più reale, selezionando via via i campi più interessanti, quelli che avvicinavano alla concretezza. Forse sporca, imperfetta, bastarda pure, ma col timbro della verità. Finì, com’è ovvio, col raccontare la guerra – e in seconda battuta la pace. I suoi reportage dall’Afghanistan, in particolare i colloqui col comandante Massoud, hanno fatto scuola. Dirà di lui: «Era un amico. Lo uccisero due giorni prima dell’attacco alle Twin Towers. I suoi amici mi raccontarono che la sera prima di morire aveva parlato loro di Dante e Hugo. Aveva insegnato loro la guerra, ma anche la poesia».
La guerra, dunque. Ma c’è un secondo motivo che, mi sembra, propone Ettore Mo per l’iscrizione nell’albo dei migliori: quando si è accorto che la battaglia armata lo attirava in modo forse imperioso, che l’adrenalina l’aveva reso dipendente dai campi di battaglia e dai racconti a chiare tinte, o piuttosto scurissime, resosi conto insomma della sua dipendenza, che confessava a tutti, seppe però guardare sotto la guerra, non tanto alle contabilità militari o all’esposizione di emoglobina, ma alla ricerca dell’obiettività, della realtà dei fatti, della veridicità e della sincerità, toccando vertici che pochi hanno saputo raggiungere.
Infine, credo che nella sua parabola esistenziale professionale Mo abbia alla fine capito, come pochi altri – Tiziano Terzani e Oriana Fallaci tra i nostri, Ryszard Kapuściński e Svetlana Aleksievič tra i non italiani –, che per far buon giornalismo serve sì la chiarezza, la testimonianza diretta (guai se si proponeva una versione di seconda mano, meno che meno seduti in redazione), ma privilegiando i racconti della sofferenza innocente, degli sconfitti, delle vittime, dei giusti. Anche di Massoud.
Chissà cosa avrebbe detto dell’attuale guerra in Ucraina, oppure di quella che oppone Hamas a Israele. Ma, soprattutto, chissà se nell’Aldilà l’adrenalina funziona, chissà… Ora potrà darne testimonianza diretta.
_