Essi sono nel mondo
Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini. Il nome, presso gli Ebrei, significava la persona. Si indica qui la Persona stessa del Padre, rivelato ai discepoli. Che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. Quattro titoli positivi, in questo versetto, vengono attribuiti ai discepoli, titoli che dimostrano ciò che essi sono davanti al Padre: a) l’essere stati tolti dal mondo, con una scelta assolutamente libera; b) erano del Padre, sia perché il Padre ha un dominio assoluto su tutti gli uomini, sia perché, più probabilmente, si vuole indicare che erano membri buoni del popolo eletto, speciale dominio di Dio; c) il Padre li ha dati al Figlio perché fossero con lui durante la sua vita terrena, e per proseguire poi la sua opera; d) infine, è indicata la docilità e la fedeltà dei discepoli alla parola: essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te. A tutte le cose che mi hai dato si aggiunge vengono da te. Può sembrare una ripetizione, ma in realtà non lo è. Il Padre avrebbe potuto dare a Gesù qualcosa che venisse da un altro. Il vengono da te, perciò, ritorna sul mistero della Trinità: tutto quello che è nel Figlio è del Padre. In questo breve versetto si possono distinguere quattro elementi: 1) le prerogative di Cristo: tutte le cose; 2) la loro origine divina: che mi hai dato vengono da te; 3) la conoscenza del mistero da parte dei discepoli: essi sanno; 4) il fatto tutto recente di questa conoscenza, nonostante la predicazione precedente: è ora che essi sanno. Perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Le parole di Gesù non sono solo espressioni verbali. In Gv 6, 63, era stato scritto: Le parole che vi ho detto sono spirito e vita, sono una irradiazione della vita divina della Trinità. In tre modi si sottolinea l’accoglimento da parte dei discepoli: a) essi le hanno accolte; b) essi sanno che sono uscito veramente da te; c) essi hanno creduto che tu mi hai mandato. A prima vista sembrerebbe che al sapere corrisponda la conoscenza della nascita eterna del Verbo (è detto infatti: sanno veramente che sono uscito da te); e al credere la missione temporale, l’incarnazione (infatti è detto: e hanno creduto che tu mi hai mandato). In realtà, in san Giovanni spesso sapere e credere non sono che due aspetti dello stesso atto di fede. La sostituzione dei verbi cre- dere e sapere, o il loro accoppiamento, che si ha anche in altri passi, è la prova che un atto di fede è l’assenso cosciente dell’intelligenza e non un cieco istinto del sentimento. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. Sicuramente, Gesù prega per i discepoli che ha intorno a sé, cioè per gli apostoli. Essi, infatti, vanno distinti da coloro che crederanno in lui per la loro parola (v. 20). C’è da domandarsi se Gesù in quel momento pregasse anche per gli altri discepoli, sparsi in Gerusalemme e fuori, che già avevano creduto in lui. Dal contesto sembrerebbe di no. In quel momento egli prega in special modo per gli apostoli, che erano con lui dopo l’ultima cena. Non prego per il mondo. E una opposizione alla preghiera fatta per i discepoli. Di per sé non vuoi dire che il mondo resti escluso dalla preghiera di Gesù, e nemmeno vuoi essere un’esortazione a non pregare per il mondo. Tuttavia, pur con queste attenuazioni, è innegabile che c’è una linea di separazione tra i suoi e il mondo, almeno fintanto che il mondo rimane tale. La parola kosmos (mondo) ricorre cento volte nel vangelo di Giovanni e nelle sue lettere, e può significare sia la realtà creata in genere, compreso l’uomo, sia l’ambiente terreno in cui si svolge la storia umana, sia, infine, tutte le forze e le volontà, umane e angeliche, ostili al disegno di Dio. È in quest’ultima accezione che Giovanni adopera più spesso la parola mondo. Per esempio: II mondo non lo riconobbe (Gv 1, 10); oppure: tutto il mondo giace sotto il potere del maligno (1 Gv 5, 19). Il mondo, per Giovanni, è ostile a Cristo perché è dominato dal demonio. In questo senso possiamo dire che nella sua preghiera sacerdotale Gesù non prega per il mondo perché esso è un male da vincere e debellare; l’unica preghiera da fare è che il mondo cessi di essere mondo; pregare per il kosmos sarebbe un’assurdità, poiché l’unica speranza di salvezza per il kosmos è proprio che esso non sia più kosmos. Perché sono tuoi, li Padre li ha dati al Figlio, il Figlio aveva detto: erano tuoi e li hai dati a me. Adesso egli riafferma che sono del Padre; e questa volta non soltanto in virtù del supremo dominio di Creatore ma perché è Padre ed essi sono suoi come figli. E la prima ragione che Gesù porta, perché venga esaudita la preghiera: io prego per loro. Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Tutte le cose tue sono mie e tutte le cose mie sono tue. È un’espressione quanto mai semplice, che Gesù ripete, ma che contiene la sostanza del mistero trinitario. È infatti mirabile che quanto è del Figlio sia del Padre, e ancora mirabile il contrario, che tutto ciò che è del Padre sia del Figlio. Se il Padre è Dio, Dio è il Figlio. Si ripete quanto detto in precedenza: tutto quello che il Padre possiede è mio (16,15). E io sono glorificato in loro. Abbiamo visto che la parola gloria ha un duplice significato; così pure è per il verbo essere glorificato . Il primo senso, più comune, significa: essere lodato, e potrebbe conciliarsi con il contesto dei vv. 7-8; nel secondo senso, essere glorificato vuoi dire: essere rivestito di splendore. Al nostro caso si addicono entrambi i sensi; non è scritto, infatti, io sono glorificato per mezzo di loro, ma in loro. Per meglio comprendere la profondità di questo secondo significato bisogna tener presente quanto dice Paolo, per illustrare la gloria del ministero apostolico: Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria dei Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore (2 Cor 3, 18). Gli apostoli sono, con un’espressione dello stesso Paolo, gloria di Cristo (2 Cor 8, 23). Questa è la seconda ragione per la quale Gesù prega per i suoi. La terza ragione, è quella detta nel versetto seguente: la desolazione nella quale rimarranno. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Notiamo qui come il Signore parla non come se fosse alla vigilia della sua dipartita ma come se fosse già glorificato. Dice infatti: io non sono più nel mondo. Per questo motivo alcuni esegeti hanno pensato di mettere questa preghiera sulla bocca del Signore già risorto; ma ciò non è necessario. L’estasi profonda nella quale è stata pronunciata questa preghiera, e l’imminenza della risurrezione, fanno pensare che Gesù si considera già fuori del mondo, mentre sta per ritornare al Padre. Ma c’è una situazione che lo preoccupa: i discepoli rimarranno soli. Per questo avranno bisogno di uno speciale aiuto del Padre, cui li affida con una cura speciale. E non solo per l’aspetto negativo, il pericolo di un risucchio da parte del mondo, ma anche per un aspetto: positivo, l’irraggiamento del regno di Dio, della gloria di Cristo, che essi dovranno portare con l’aiuto del Padre. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro (oppure: che) mi hai dato, perché siano una sola cosa come noi. Padre santo. Presso i semiti, e in particolare negli scritti dell’Antico Testamento, la santità è soprattutto la separazione da ciò che è profano; ma, come dice Lagrange, come attributo divino essa non può essere che positiva, indicando la purezza nella sua più alta perfezione. Custodisci. Questa parola comprende tre elementi strettamente connessi tra loro: 1) l’attenzione del Padre nel custodirli; 2) la conservazione nel bene in cui adesso si trovano; 3) la preservazione dai mali che li minacciano. Nel tuo nome. È un’espressione semitica, che significa: in virtù di ciò che sei. Come abbiamo già notato nel testo, vi sono due letture possibili: custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, oppure custodisci nel tuo nome che mi hai dato. La prima lettura è la meno riportata dai manoscritti, ma è accettata dalla Volgata e da altri; essa sottolinea l’idea che il Padre da al Figlio i discepoli, idea che è costantemente ripetuta in Giovanni nel capitolo 17 (cf. vv. 2, 6, 9, 10, 24) e in altri passi del quarto vangelo: Tutto ciò che il Padre mi da, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò (6, 37); E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (6, 39); Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano (10, 28). È una lettura semplice e naturale, che rispetta il valore e il senso normale della parola. Molti altri preferiscono invece leggere: nel tuo nome che mi hai dato, affermando che l’altra variante è stata preferita per rendere più scorrevole il testo. Il senso, in questo caso, è molto più profondo. Che cos’è il nome che mi hai dato? Sarebbe la stessa natura divina che il Figlio riceve eternamente dal Padre. Già al v. 6 Gesù aveva detto: Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini, manifestando soprattutto se stesso come Figlio. Possiamo allora intuire la profondità dell’intero v. 11 b: Custodisci nell’interno del tuo essere divino, che è dato anche a me, gli apostoli, affinché siano una cosa sola come noi. hi questa seconda lettura appare più evidente il legame tra l’essere una sola cosa, divinamente, dei discepoli e il modello trinitario; e soprattutto la causa di questa unità, che è il nome del Padre dato al Figlio: esso non solo salva i discepoli ma è anche l’ambiente vitale in cui la creatura salvata viene a vivere. Dell’unità si parlerà ancora a lungo nella preghiera, essa ne è l’oggetto principale. Il modello portato è molto esigente. I cristiani devono essere un cuor solo e un’anima sola ad immagine della perfetta unità esistente tra Gesù e il Padre. Dice san Tommaso: Ora in Dio l’unità è duplice: quella della natura divina e quella dell’Amore che è lo Spirito. Noi dobbiamo riprodurre quella che esiste in Dio. Quindi, non basta che abbiamo tutti, mediante la grazia, la medesima vita divina, la quale ci rende partecipi della natura di Dio, ma occorre essere uniti con Dio e fra noi mediante l’amore nell’Amore personale che è lo Spirito Santo (Gv 17,26). E ancora: L’unità è la condizione stessa per cui la chiesa può continuare a esistere . Per il fatto della sua unità, ogni cosa è conservata nell’essere, e appena è divisa cessa di esistere; Ogni regno discorde cade in rovina, nessuna città o famiglia discorde può reggersi (Mt 12,25). Sappiamo quanto san Paolo abbia raccomandato l’unità: …cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti (Ef 4, 3- 6); Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di intenti (1 Cor 1, 10); …perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi, se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui (1 Cor 12,25-26). Gli uomini possono essere uniti tra loro poiché, avendo acquistato un unico Padre e un unico Fratello, il Figlio unigenito di Dio, sono diventati fratelli in senso stretto, adelfòi, cioè secondo il senso della parola greca: associati nel medesimo grembo materno . Tutti i fedeli sono ora adelfòi, perché spiritualmente portati ora nel seno della Madre Chiesa e nel cuore di Maria. La Vergine diventa così vincolo di unità in quanto madre nostra. Quando ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro (oppure: che) mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. Preferiamo la lettura: coloro che mi hai dato, perché è la più attestata dai manoscritti. Quando ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato. Parole piene di delicatezza e di soavità! Quando ero con loro. Nel tempo in cui il Signore ogni giorno era stato a contatto coi discepoli, aveva insegnato loro con la vita e con le parole i misteri del regno dei cieli, conservandoli così nel nome del Padre, uniti alla Persona del Padre; li aveva custoditi, come il buon pastore della parabola, dai lupi rapaci; li aveva custoditi dal male che era dentro di loro, quel male che faceva sorgere le dispute ambiziose sulle precedenze; li aveva custoditi dall’odio dei farisei. Li ho custoditi e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione. E un’espressione ebraica, quest’ultima, che indica l’uomo ostinatamente perverso. Così viene pure chiamato l’Anticristo da san Paolo. Non bisogna pensare quindi a una predestinazione, né tanto meno che uno sia spinto al male dalla volontà di Dio. Secondo tutta la dottrina ebraica e cristiana si è figli del regno o figli della geenna per libera scelta e non già per natura. Del resto, il v. 12 non dice che Gesù non abbia custodito Giuda, ma che questi si è perduto perché si adempisse la Scrittura. Behler si domanda se, chiamando Giuda figlio della perdizione, Gesti abbia voluto affermare la certa condanna di lui all’inferno. Vi sono due pareri. Alcuni, riferendosi alla frase riportata da Matteo: Guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo che non fosse mai nato (Mt 26, 24), ritengono che la condanna di Giuda è sicura. Altri, come Behler, vedono, nel figlio della perdizione, un’allocuzione proverbiale, la quale conterrebbe non tanto una predizione quanto un ultimo sforzo per condurre l’infelice al ravvedimento; per questo preferiscono pensare che l’estrema discrezione del Signore non avrebbe permesso di rilevare una qualunque cosa sulla sorte definitiva del traditore.