Essere testimoni di speranza con la carità
Suor Adelfio, come è nata la sua vocazione?
Per anni ho lottato per non rispondere al Signore. Per sentirmi a posto facevo volontariato, catechismo e altro. Nella mia parrocchia era ed è tuttora presente una comunità delle Piccole Suore Missionarie della Carità fondate da san Luigi Orione. A quel tempo avevano un istituto per minori, e con alcuni amici, andavamo per aiutarli nello studio, per stare e giocare con loro. Una volta le suore ci hanno invitato a un campo servizio estivo con ragazze disabili. Trovandomi a contatto con loro, ho iniziato a interrogarmi seriamente sulla mia vocazione.
Perché ha scelto proprio il carisma di don Orione?
A quel campo mi hanno regalato una biografia di don Orione dove erano inseriti alcuni suoi pensieri. Leggendo pensavo: «Questo la pensa come me!». Lì ho capito che il carisma è un dono che si ha già in germe nel cuore. Avevo conosciuto le suore di Madre Teresa di Calcutta facendo volontariato; esse mi attiravano soprattutto per il IV voto di carità che professavano, ma ero in continua ricerca. Poi, con stupore, ho scoperto che, scrivendo le prime costituzioni delle suore, don Orione aveva contemplato il 4° voto di carità che doveva caratterizzarle: «Consacrare la nostra vita per portare alla conoscenza e all’amore di Gesù Cristo e del suo Vicario, il Romano Pontefice, e della Santa Chiesa, i piccoli figli del popolo e i poveri più lontani da Dio e più abbandonati, mediante le opere evangeliche della Carità corporali e spirituali» (don Orione 1935).
La bellezza del nostro carisma è questa apertura grande che i tempi e le circostanze, attraverso la Chiesa, propongono senza rigidità di forme o di servizi, a volte stagnanti, perché sollecita ad andare ed essere aperte ad ogni necessità dei fratelli. Comprendo che il nostro IV voto dà luce alla mia maternità: accompagnare e far crescere nell’amore aprendo il cuore all’accoglienza «non chiedendo a chi si incontra la nazionalità o il suo credo, ma solo se ha un dolore» (cf. don Orione).
Può raccontarci qualcosa delle sue esperienze di missione?
Fin da piccola volevo andare in missione tra i lebbrosi, e nella giornata dell’infanzia missionaria, donavo i miei piccoli risparmi per destinarli ai bambini dell’Africa. Ho speso la maggior parte della mia vita “apostolica” in Italia. Spesso ho chiesto a Dio perché mi aveva posto nel cuore il desiderio missionario se poi non mi «lasciava partire». La mia prima missione all’estero è stata in Romania dove ho conosciuto la realtà della Chiesa ortodossa e dove spesso incontravo alcune monache. Quando le visitavo, ci si confrontava, anche con un po’ di curiosità, sul reciproco modo di vivere la preghiera, i voti, la vita apostolica, ridendo a volte delle diversità che invece di dividerci portavano a fare ulteriori domande. Era un ecumenismo non da cattedra, ma molto “casareccio”, dove si guardava ciò che ci unisce: Gesù, e non ciò che divide.
Da poco è tornata dalla missione nelle Filippine…
Nel 2018 mi è stata chiesta la disponibilità di andare nelle Filippine. Ho accolto questa proposta come risposta alle mie preghiere. Sono rimasta lì fino al dicembre 2023, quando sono rientrata in Italia. È stata un’esperienza che porterò sempre nel cuore perché mi ha dato modo di essere strumento della Provvidenza e di accogliere la Provvidenza in una nazione dove la maggioranza della popolazione può essere considerata povera. Negli ultimi 3 anni, sono stata al Cottolengo Filippino dei Figli della Divina Provvidenza (don Orione) dove noi suore collaboriamo con loro, una struttura che ospita 35 giovani e bambini. Molti di loro sono stati abbandonati in ospedale, non tanto perché rifiutati per la loro disabilità, ma perché i costi delle le cure mediche e i vari controlli periodici di cui avevano bisogno per poter vivere con serenità, sono insostenibili per le famiglie con poco reddito; altri sono stati lasciati alla porta del Cottolengo senza documenti, così abbiamo bambini che abbiamo dovuto registrare all’anagrafe dando loro nome e cognome. Come cognome abbiamo scelto Orione.
Come ha vissuto questa esperienza?
Al Cottolengo si vive di Provvidenza, perché trattandosi di ragazzi abbandonati non hanno nessuno che possa pagare una retta. Inoltre, trattandosi di disabilità più o meno importanti, c’è la prospettiva che rimangano con noi per sempre. Il Comune dà un piccolissimo aiuto, il resto viene dai benefattori, in forma di soldi, o più spesso di forniture di materiali o cibo, o qualsiasi altra cosa di cui si ha bisogno. Vivere in missione, in una realtà povera di mezzi ma ricca di sorrisi, attenta alle cose semplici come un saluto anche per quelli che non ti conoscono, stare al servizio di questi fratelli, mi ha permesso di sperimentare ciò che ho coltivato nel cuore da sempre: vivere tra i poveri più poveri, quelli che nessuno vuole perché sono “scomodi”. Ho poi capito che la vita spirituale è superiore a tutto il resto. Quante volte nei momenti duri che la vita mi ha offerto mi sono ritrovata con qualcuno che mi ha detto: «Suora, ho pregato per te!». Gesù mi ha evangelizzato tramite loro. Il rapporto allora è stato di reciprocità: io ho cercato di servire in loro Gesù e Gesù in loro mi ha riportato a Lui.
Papa Francesco, nella sua omelia del 2 febbraio, ha esortato a «non mandare in pensione» la speranza. In che modo le persone consacrate possano essere testimoni di speranza oggi?
Credo che il nostro contributo per l’anno giubilare sia quello di vivere e affrontare gli eventi della vita, soprattutto quelli più dolorosi, con la serenità che nasce dal credere che Gesù è sulla nostra barca. Molti enti, sfruttando i media lanciano messaggi negativi, invitano alla paura, alla violenza, alla lotta per la sopravvivenza. Noi, con la nostra carità e la fede dobbiamo farci portatori di un messaggio di speranza. Don Orione diceva che solo la carità salverà il mondo. Dio non ci abbandona e noi dobbiamo farlo capire a chi ci incontra.