Essere musulmani al tempo dell’Isis

La paura e l’odio hanno cancellato il Dna accogliente degli italiani? Le moschee sono un covo di terroristi? A Loppianolab ci si interroga su un Paese già multietnico e multireligioso, ma che fatica a ritrovarsi in questa nuova identità mentre le migrazioni pongono nuove sfide
Laboratorio di LoppianoLab

«Cristiani e musulmani vivono insieme ma c’è come un vetro che li separa: si vedono, camminano fianco a fianco, studiano e lavorano insieme, ma quel vetro trasparente resta perché non si conoscono». L’esordio di Cenap Aydin, turco, direttore dell’istituto Tevere di Roma entra subito nel vivo del laboratorio di Loppianolab “Dialogo con i musulmani. Utopia o realtà al tempo dell’Isis e del terrorismo?”.

Come ci si conosce in profondità oltre gli stereotipi? Come convivere con un’immagine di Islam violento e intollerante? Il dna accogliente dell’Italia si sta esaurendo? La paura governa i nostri incontri con i non italiani? E le mosche sono davvero culle del terrorismo?

Domande dirette, provocazioni, risposte asciutte che provano a scalfire il muro del pregiudizio e riportare con numeri, testimonianze e azioni della società civile il reale apporto dell’Islam all’Italia.

«Il dialogo con il mondo islamico è definito da un documento del Concilio Vaticano, la Nostra Aetate e offre quattro campi di azione: pace, libertà, valori morali e giustizia sociale. Queste parole richiedono il coraggio dell’azione, come fa papa Francesco, il coraggio di andare oltre il pregiudizio», continua Aydin, che interpellando i presenti sulla conoscenza del documento, scopre solo due mani alzate.

«L’ignoranza è un problema trasversale all’Islam e al Cristianesimo», si commenta sottovoce in sala.

Mustafà Baztami, imam a Teramo invita ad aprire le porte delle moschee per rendere questo dialogo ancora più trasparente e concreto. In Italia non si sono mai ravvisate cellule terroristiche legate ai luoghi di culto, semmai è internet, il grande reclutatore di insoddisfatti. Il segreto dell’interazione per Batzami parte dalla lingua: «I sermoni vanno fatti in italiano, perché anche l’arabo ha tante varianti linguistiche e io non le conosco tutte e poi i cristiani, gli italiani devono sapere cosa diciamo e quali riflessioni facciamo. I problemi della famiglia, dell’ambiente e della solidarietà discussi poi assieme ai cristiani hanno aperto piste di scambio e ci hanno aiutati seriamente a capire il Paese e noi stessi. Il ruolo dell’Imam resta fondamentale nella guida di una comunità».

Massimo Toschi, consigliere del presidente della Regione Toscana per la pace e grande viaggiatore per il dialogo, provoca la platea sottolineando il silenzio di troppi intellettuali musulmani di fronte agli abomini dell’Isis ma mette in guardia i presenti sulla “paura che diventa odio e semina altro sangue”. E racconta di quanto la cultura del perdono non è mai un atto scontato. «Sono stato ad Erbil qualche mese fa per portare farmaci per le famiglie iraqene, scampate agli assalti dell’Isis. I cristiani, inizialmente non volevano dare le medicine ai musulmani perché li ritenevano colpevoli delle loro persecuzioni e del silenzio che aveva accompagnato la loro fuga. Davanti a questi fatti si ergeva la sfida del perdono e dopo lunghe discussioni si è giunti alla decisione di condividere. La strada della pace va continuamente appianata e costruita con tutti».

La sfida del perdono ad Erbil diventa sfida dell’accoglienza a Catania dove lavora Flavia Cerino, avvocato dei minori non accompagnati che sbarcano sull’isola dopo la traversata del Mediterraneo. I numeri desunti dai documenti ufficiali del governo smentiscono ancora una volta l’invasione, «sottolineata dai media a più riprese senza che spiegare che la mobilità appartiene alla condizione umana e che nel mondo si muovono 59 milioni di persone, di cui appena il tre per cento tocca le coste italiane». L’avvocato Cerino spiega che quando si avvia il meccanismo di accoglienza «non ci si chiede mai che fede abbia. Noi constatiamo che è nello spirito dell’Italia accogliere, è il nostro Dna anche se in alcune regioni è stato minato. Spesso ci chiediamo cosa possiamo fare di fronte a tutti questi migranti. Aiutiamoli ad esplorare il sistema Italia, non aspettiamoci che lo faccia solo l’organizzazione statale. Cerchiamo di capire quale è il loro progetto migratorio, le aspirazioni e diffidiamo quando le discussioni si limitano all’avere diritto e a non averlo: la storia ci pone sfide che richiedono soluzioni oltre la semplice giustizia».

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