Essere in relazione con l’altro
La psicologia, e in particolare la psicoterapia, sottolineano di sovente l’importanza del “sentimento comunitario”, cioè dell’essere in relazione con gli altri, dell’essere “uno” con gli altri.
Si definisce “farsi uno” l’abilità di instaurare una connessione con gli altri tale da creare un clima di fiducia e di reciproca comprensione, ma anche l’abilità di apprezzare l’uno il punto di vista dell’altro (il che non significa necessariamente condividerlo), di essere cioè sulla stessa lunghezza d’onda e di comprendere e accettare il sentire altrui.
Alcune persone tentavano disperatamente di salvare un uomo caduto nel lago.
«Dammi la mano!», gridava un giovanotto allo sventurato in procinto di annegare.
Nasreddin si fece largo tra la piccola folla e domandò: «Chi è che rischia di affogare?».
«È Yusuf, l’uomo più ricco e taccagno di Aksehir. Se ci porgesse la mano potrebbe salvarsi».
«Lo conosco bene, so io come salvarlo», esclamò Nasreddin.
Si spinse sulla battigia, allungò la mano verso l’uomo e gridò: «Yusuf, vieni a prendere la mia mano!».
Il poveretto fece uno sforzo terribile, afferrò la mano e raggiunse la riva salvo.
«Visto? – commentò Nasreddin – Non siete davvero esperti. Quando gli dicevate “dacci la mano” egli si rifiutava di farlo; ma quando gli ho detto “prendi la mia mano”, grazie alla sua indole, si è affrettato a farlo».
Gandhi, il profeta della “non-violenza”, visse il “farsi uno” sempre, assunse la posizione dell’altro per tutta la sua vita.
Un giorno, mentre il suo treno lasciava la stazione, gli si sfilò un sandalo che andò a cadere sui binari. Gandhi si tolse immediatamente anche l’altro sandalo e lo lanciò in modo che andasse a finire accanto al primo: così chiunque li avesse trovati avrebbe potuto utilizzarli.
Anche nelle sue lotte per l’indipendenza dell’India assunse la posizione dell’altro. Imitava spesso la postura e i movimenti dei governatori britannici per scoprire quale fosse la loro esperienza, allo scopo di comprenderla meglio e utilizzarla in favore del suo obiettivo.
Diceva Confucio: «Dite agli altri ciò che vorreste che gli altri dicessero a voi». Tutti i rapporti con gli altri, secondo il grande saggio cinese, andrebbero filtrati attraverso la realtà della “cortesia”: «La cortesia delle parole crea confidenza, la cortesia del pensiero crea profondità, la cortesia nel donare crea l’amore».
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Il “farsi uno” è essenziale in qualsiasi forma di comunicazione. Il grande psichiatra e filosofo tedesco Karl Jaspers diceva: «Io sono soltanto attraverso la comunicazione con gli altri».
Che cosa ha da dire lo psicoterapeuta a chi ha difficoltà ad aprirsi agli altri? Che cosa direbbe a chi sente di essere insicuro e poco disinvolto, ma desidera essere aperto e sciolto per entrare in contatto con gli altri?
Per rispondere, rispolvero un episodio personale accaduto quando ero studente delle scuole superiori.
È la storia di Roberto, che frequentava una sezione diversa dalla mia e portava un’ondata di vitalità ed energia ovunque andasse. Dedicava tutta la sua attenzione a chi gli stava parlando, facendolo sentire estremamente importante.
Tutti gli volevano bene.
Un caldo giorno d’autunno, Roberto e io stavamo studiando in biblioteca. Stavo guardando fuori dalla finestra quando vidi uno dei miei professori che attraversava il parcheggio. «Non ho voglia di incontrarlo», dissi tra me a voce alta.
«Perché no?», chiese Roberto. Gli spiegai che l’anno precedente il professore ed io avevamo avuto un alterco. Mi ero offeso per alcune osservazioni che aveva fatto sul mio conto e per ripicca avevo deciso di togliergli il saluto. «Inoltre – dissi –, non gli piaccio».
Roberto guardò la figura che passava per il posteggio. «Forse lo hai affrontato nella maniera sbagliata – disse –, forse sei tu che lo rifiuti, e lo fai perché hai paura. Probabilmente lui pensa di non piacerti, e quindi non si comporta in maniera amichevole nei tuoi confronti. La gente ama chi li ama. Se tu ti occupi di lui, lui si occuperà di te. Va’ a parlargli».
Le parole di Roberto mi colpirono. Decisi di scendere dalle scale e di avviarmi verso il parcheggio. Salutai calorosamente il professore e gli chiesi come avesse trascorso l’estate. Lui mi guardò, sinceramente sorpreso. Ci incamminammo e chiacchierammo, e intanto immaginavo lo sguardo compiaciuto di Roberto che ci stava osservando dalla finestra della biblioteca.
Roberto mi aveva spiegato un concetto molto semplice, così semplice che non potevo credere di non esserci arrivato da solo. Come molti adolescenti, mi sentivo insicuro e quando affrontavo gli altri avevo paura di come mi avrebbero giudicato, mentre, in effetti, gli altri erano preoccupati di come io potessi giudicare loro. Da quel giorno, invece di cercare il giudizio negli occhi degli altri, vi leggo solo il bisogno che hanno di comunicare e di raccontare qualcosa di loro stessi.
In questo modo ho scoperto un mondo fatto dei vissuti delle persone che incontro, un mondo che altrimenti rimarrebbe a me sconosciuto.
Ho imparato una lezione che non ho mai più dimenticato: la lezione di come gestire al meglio l’amicizia, una lezione che in seguito ho spiegato più volte ai miei pazienti.
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