L'esperto risponde / Società, Educazione

Ivan di Marco

Psicoterapeuta in formazione presso il Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) di Roma, iscritto all’Ordine degli Psicologi del Lazio. Lettore appassionato, mi piace scrivere e condividere le mie riflessioni in ambito letterario e psicologico.

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Genitori e figli

Adolescenti e comportamenti a rischio: che devo fare?

Mi chiamo *** e sono un genitore preoccupato. Da quando mio figlio ha cambiato scuola non è più lo stesso. All’inizio ero contento che uscisse con la sua nuova comitiva, ma ora vivo con apprensione l’arrivo del fine settimana. La scorsa domenica si è barricato in camera sua, ha perfino saltato il pranzo. Nel pomeriggio ha parlato di problema intestinale, ma non vorrei che si fosse ubriacato o peggio. Ho anche paura a chiedere: e se mi mentisse? Mi ha sempre raccontato tutto, non vorrei rovinare un così bel rapporto. Che devo fare?

È la domanda che si pone ogni adulto alle prese con la crescita dei figli. Specie quando ci si imbatte in qualcosa di anomalo, sospetto e potenzialmente pericoloso — come l’alcol, per esempio. Porsi la domanda è lecito, ma darsi una risposta è un obbligo: meglio farlo con cognizione di causa allora.

Meglio chiedere all’esperto…

Peccato che ogni esperto filtri la realtà attraverso le lenti del proprio ambito di appartenenza. Chiedete a un sommelier cosa ne pensa dell’alcol. Poi chiedetelo a un barman, al proprietario di una vigna o di una cantina. E ancora: al medico, alla stradale, al SerD, ai media. Insomma, chiedetelo a chi vi pare e avrete tante risposte quante sono le anime su questa terra. C’è un solo fatto su cui tutti — tranne i filosofi — possono concordare: l’alcol esiste.

Carl Gustav Jung diceva che bisogna partire dai fatti prima di correre a fare teorie. E c’è un secondo fatto che può interessare il genitore preoccupato: dove ci sono persone, c’è alcol. Basta gettare uno sguardo alle vetrine dei locali, fuori dai bar o, più semplicemente, su una tavola imbandita. Fin qui, nulla di strano, giusto?

Eppure, è in uno di questi scenari che si sarà trovato il figlio del genitore preoccupato…

Anzi, è molto probabile che sia così: «Nel 2021 7,7 milioni di italiani di età superiore a 11 anni (pari al 20% degli uomini e all’8,7% delle donne) hanno bevuto quantità di alcol tali da esporre la propria salute a rischio»1. D’accordo, parlare di alcol e rischio per la salute non dice molto. Ma forse un padre e una madre in apprensione avranno fatto caso a un certo dato: 11 anni

Avete idea di come eravate a undici anni?

Nemmeno io, ma per fortuna siamo circondati da adolescenti che possono aiutarci a ricordare, ragazzi e ragazze che escono il sabato sera e si mettono in gioco fuori dal recinto sacro della scuola e della famiglia. E un brindisi aiuta, perché l’alcol mette euforia, abbassa i freni inibitori, ti fa stare bene. Certo, all’inizio. Poi vengono il calo di riflessi, la sonnolenza, gli sbalzi d’umore — e questo solo in acuto: inutile elencare le innumerevoli condizioni organiche cui l’uso abituale di alcol è correlato.

Ma questo gli adolescenti lo sanno! Perché, contrariamente a quanto credono molti genitori, i giovani sono svegli — spesso anche più degli adulti. Hanno fame di vita, di nuove esperienze e sanno che c’è tutto un mondo da scoprire. Qualcosa che genitori sempre più anziani non comprendono più, convinti che tutto ciò che manca ai figli non sia altro che un po’ di sale in zucca. Quindi si domandano:

Che devo fare?

Ho un’altra domanda: per questo figlio, che senso ha bere?

Trovare il senso di un comportamento in famiglia è difficile, d’accordo. Ma diventa anche peggio quando si scambia un viscerale, ma vago, senso di familiarità con la consapevolezza di chi è l’altro. Finché non si entra nell’ottica di non sapere, di non conoscere, allora chiedersi che devo fare? sarà del tutto inutile. Per capire l’altro, bisogna prima ammettere che è altro da noi — anche quando è sangue del nostro sangue.

«L’ha fatto per imitare i suoi amici».

«Quindi se loro si buttano da un ponte…».

Classico.

Eppure, questi adolescenti non sono fessi, è bene ripeterlo. Ubbidire al mandato genitoriale, all’etica propria o altrui, non è questione d’intelligenza. Non ci si prende una sbronza per ignoranza né per mancanza di carattere né per scemenza: è un fatto d’identità.

L’adolescenza, con la scoperta della mortalità — propria e altrui — e dell’amore — sentimentale e sessuale —, è il momento in cui le domande su sé stessi e sul mondo iniziano ad affiorare. Il dogmatico ma sicuro mondo dell’infanzia va incontro alla disillusione dell’età adulta. È il momento della sperimentazione, bisogna scontrarsi con la realtà, quella “vera”, per cominciare a costruire un’esperienza che sia propria — non quella dei perché sì e perché no: servono risposte. Ma prima bisogna imparare a porsi le domande. Domande che risultano sconcertanti se cozzano con una visione del mondo semplicistica e semplificata.

Un esempio? L’alcol fa male. In un film i protagonisti danno una festa: brindano. Ci saranno multe più salate per guida in stato di ebbrezza. Al supermercato le birre sono in offerta. Il messaggio è chiaro: il mondo è pieno di contraddizioni.

Comprendere questo significa darsi la possibilità di affrontare senza pregiudizi il fisiologico smarrimento della genitorialità. Comprendere che quel figlio che ci fa preoccupare non è di certo un estraneo né la nostra copia spiccicata: è un individuo che si interroga e ci interroga su una realtà che qualcuno ha costruito prima di lui. Qualcosa che per gli adulti è un dato di fatto, quasi scontato, ma per i giovani è ancora in cerca di senso.

Certo, interrogare il fondo di un boccale è un rischio. E di comportamenti a rischio gli adolescenti sono cintura nera — lo sono sempre stati. Forse, non è un caso che ogni forma di progresso, di rottura costruttiva col passato, abbia un che di adolescenziale: quel misto di energia grezza, ancora infantile, ma anche matura, dell’adulto che verrà. Tuttavia, come in ogni sperimentazione, affinché ci sia vera esperienza, anche il rischio deve essere reale: crescere è una partita rischiosa, ma è l’unica che possiamo giocare.

E allora che devo fare?! Stare a guardare mentre questi si giocano i neuroni uno shot alla volta?

Un buon inizio potrebbe essere provare a conoscere i vostri ragazzi e ragazze. Che musica ascoltano, cosa guardano, a chi vogliono somigliare, di cosa hanno paura. Solo uscendo da una visione stereotipata le deviazioni dalla ‘strada maestra’ diventeranno opportunità di un nuovo sviluppo. Ma se non si accetta il rischio di rovinare un così bel rapporto, il dialogo con l’esperienza non inizierà mai. L’alcol resterà solo una sostanza cattiva e il bere un non-senso da demonizzare, quando porta problemi — mentre magari va benissimo se fatto sistematicamente, purché non lasci segni visibili…

Perciò, genitore preoccupato della mia fantasia, non avere paura: ci sei passato anche tu. E se non tu, tuo padre o tua madre, un fratello o una sorella, un nonno o una nonna. Quell’adolescente sei tu in cerca di risposte, risposte importanti che continuano a sfuggire. Avere qualcuno accanto, nell’angoscia della ricerca, è tutto ciò che può aiutare, tutto quel che si può fare: insieme, se ne verrà a capo.

1 https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/dal-governo/2023-04-18/iss-77-milioni-italiani-rischio-eccessivo-consumo-alcol-preoccupano-giovani-e-donne-134721.php?uuid=AE6VyqID&refresh_ce=1

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L'esperto risponde

Disturbi della psiche… niente panico

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Mi chiamo *** e ho appena iniziato l’università. Con l’avvicinarsi degli esami mi sentivo sempre più agitata, anche se non ero preoccupata per la sessione: ho studiato fin dai primi giorni e in più a scuola ho sempre avuto bei voti. Poi però è arrivato l’orale e sono crollata. Ho detto ai miei di aver sostenuto l’esame, che era anche andato bene ho perfino inventato il voto! La verità è che mi sono dovuta fermare al bar della stazione dopo quello che il mio medico di famiglia ha definito un attacco di panico. È stato orribile: come se il nervosismo dei mesi precedenti si fosse concentrato qua, all’altezza del cuore, per esplodere tutto insieme. Nei giorni successivi sono tornata dalla dottoressa per farmi prescrivere qualcosa in vista del prossimo esame. Mi ha detto di provare con la valeriana e mi ha preparato una ricetta per una visita psichiatrica: «Se vuole stare tranquilla, serve una specialista». Ho preso le compresse con la scusa che in quei giorni dormivo male per il cambio di stagione, ma ho nascosto la ricetta: come la racconto ai miei una visita dallo psichiatra!? E se poi mi diagnosticano un disturbo? Mica sono matta…


Diagnosifobia!” grideranno gli amanti delle classificazioni. Quel che si dice iniziare col piede sbagliato con una giovane che si sta approcciando al mondo ancora sconosciuto dell’università. Un mondo fatto di numeri di matricola, e-mail ai docenti, app per la prenotazione degli esami e tante altre incognite: un mondo nuovo rispetto a quello familiare della scuola. Tuttavia, insieme al timore dell’ignoto, si affaccia una paura innescata proprio dal tentativo di far fronte a questo smarrimento: La paura di definizione. Venire catalogati da una figura di autorità, anche quando l’intenzione è quella di aiutare, suona sempre un po’ come un giudizio. Come se nella dicitura “Disturbo da attacchi di panico” o “Sindrome ansioso-depressiva” ci sia anche una velata nota di biasimo del proprio comportamento, dei pensieri, dei sentimenti. Anche perché, diciamolo, già di per sé non è bello sentirsi etichettati, figurarsi quando il razionale è quello della sofferenza. Per non parlare della vergogna a vedersi bollati come bizzarri o addirittura pericolosi ‒ eventualità remota quando si lascia lo studio medico di un cardiologo o di un dermatologo. Ma con la testa è un’altra storia: e poi nessuno ti fa pesare un’aritmia, mentre se sei ansioso o paranoico… Triste ma vero, anche oggi che il tema della salute mentale è entrato a far parte del mainstream. Eppure i pregiudizi sono difficili da sradicare, soprattutto quando si tratta di materia ineffabile come la psiche. Ed è proprio per questo che nasce la diagnosi (dal greco, conoscere attraverso): per rendere meno sfuggente qualcosa che altrimenti “non esiste”. Ma in verità esiste eccome per chi sente il cuore battere all’impazzata, la testa esplodere, quel senso indescrivibile di perdere il controllo: tutti sintomi di una morte imminente che morte non è, ma che non manca di generare un’angoscia senza nome… “Attacco di panico” è una delle nomenclature più comuni in ambito psicologico. Anzi, è forse una delle definizioni più popolari anche fra i non addetti ai lavori. Ma non basta un solo elemento per fare diagnosi, proprio come serve qualcosa di più che un colpo di tosse per distinguere un raffreddore da una broncopolmonite. La medicina e la psicologia hanno a che fare con i sistemi viventi, in particolare con un organismo dalle caratteristiche mutevoli la cui complessità resta ancora in larga parte un mistero: l’essere umano. Ognuno di noi, sebbene portatore di qualità che lo caratterizzano come appartenente alla propria specie, è unico e irripetibile. Per questa ragione non esiste un attacco di panico che sia uguale a un altro. Mi torna in mente un ricordo di scuola, quando spiegarono la distinzione fra uguaglianza e congruenza. Se due penne sono uguali, allora è come se fossero la stessa penna: stesso giorno di fabbricazione, stesse caratteristiche, perfino stessa storia. Se invece sono solo congruenti, allora si somiglieranno, ma non saranno la stessa penna (andando a cercare oggi la differenza fra i due concetti non sono più tanto sicuro di aver capito: ma la metafora delle penne mi sembrava comunque efficace, quindi…). A differenza delle forme ideali che popolano l’universo matematico, credo che dovremo accontentarci della congruenza quando parliamo delle persone e dei loro problemi ‒ perfino i gemelli non sono mai perfettamente identici! Vabbè ma allora la diagnosi non serve a niente se siamo tutti così unici… Vero anche questo. D’altra parte siamo solo esseri umani: abbiamo bisogno di categorie per capire il mondo. O almeno per provarci. E le professioni di aiuto necessitano di tale comprensione più che mai: altrimenti come si allevia un malessere che non si può nominare? Certo, i nomi non sono cose, entità che esistono al di là di sé stesse e del loro valore comunicativo. Ma senza nomi ci perderemmo in un mondo muto, cieco e sordo: saremmo soli e impotenti, diagnosi o no. Al contrario, avere qualcuno che ci accompagni nella comprensione della nostra storia, a dare senso a un vissuto che consideriamo un errore di sistema, un bug da correggere; insomma, avere qualcuno che ci consenta di nominare la nostra esperienza con le nostre parole, i nostri nomi, unici e irripetibili è qualcosa che può attenuare l’impotenza e la solitudine di fronte all’intima sofferenza del dolore mentale. Quindi devo accollarmi ‘sta diagnosi? Solo se è un momento di apertura su sé stessi. Che si tratti di un test psicologico o di un colloquio clinico, gli strumenti della diagnosi non devono mai essere considerati un fine, ma solo un mezzo. All’infuori degli scopi strumentali ‒ rimborsi assicurativi, certificati di invalidità, supporto scolastico ‒, le diagnosi sono utili se aprono la strada alla conoscenza di un essere umano, non se la ingabbiano in definizioni che riducono l’unicità della vita. In tal senso, lo psichiatra Carl Gustav Jung ne parlava in modo paradossale: la diagnosi è l’ultimo passo di una terapia, non il primo. Perché i nomi danno potere sulla realtà, sono i mezzi attraverso i quali possiamo fare un cosmo del caos. Ma un cosmo per l’appunto, un odine fra gli infiniti possibili. Non bisogna dimenticarlo. La diagnosi è figlia del suo tempo, degli arnesi che abbiamo a disposizione e, sopra ogni cosa, della personalità di chi quegli strumenti deve adoperarli. Ecco perché, lungi dal considerarla una fotografia ‒ che, indipendentemente dalla risoluzione, rappresenta la realtà in modo analogo a quanto fanno i nostri occhi ‒ penso sia più utile paragonarla al bozzetto di un pittore. Uno schizzo che dipenderà dalla durezza della matita, dalla grammatura del foglio, dalla quiete dell’atelier, dall’abilità dell’artista e, last but not least, dal soggetto da rappresentare. Solo nel punto d’intersezione fra questi e innumerevoli altri fattori apparirà un’immagine definita, capace di produrre conoscenza solo nella misura in cui il pittore sia sempre pronto a cancellare tutto e ricominciare da capo. È in questa ripetizione il “conoscere attraverso” della diagnosi, un processo che ha un pregio e un difetto insieme: Resterà un’opera incompiuta.
Adolescenza

Cosa fare con nostro figlio adolescente?

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Siamo *** e *** e non sappiamo più che pesci prendere. Negli ultimi mesi, nostro figlio è diventato intrattabile. Cerchiamo di non fargli mancare nulla: chitarra due volte a settimana, pallanuoto dopo scuola, calcetto nel weekend, lezioni d’inglese... Ma nulla sembra mai bastare: ci sembra infelice. E dire che prima era un bambino così solare e spensierato. Ora invece risponde male a entrambi, mette il muso per un nonnulla e, soprattutto, si chiude sempre più in sé stesso. Vorremmo che parlasse con noi, che ci facesse capire cosa c’è che non va. Siamo arrivati al punto di proporgli perfino lo psicologo… Che dobbiamo fare?


Quando si arriva a proporre “perfino lo psicologo”, le cose stanno davvero sfuggendo di mano. Non dovrebbe essere così, ma nei fatti, per molti genitori, rimettersi a un perfetto sconosciuto, per quanto preparato, è poco meno che un fallimento. Specie quando tutto dovrebbe andare a gonfie vele con questi ragazzi a cui non si fa mancare nulla… E allora eccola lì, la dolorosa domanda: Che dobbiamo fare? Dolorosa, perché mettersi in discussione è difficile. Bisogna ammettere di non aver capito niente, o quasi. Ma quando le certezze pregresse ci abbandonano e tutto ciò che credevamo utile si rivela inefficace o nocivo, non resta altro che affrontare l’incognita che è l’individuo che abbiamo davanti. Quello sconosciuto di un figlio che, anziché essere grato per tutto ciò che ha — guadagnato col sudore della fronte di padri e madri — non solo è scontento: ha pure il coraggio di stare male! Eh, un tempo altro che iPhone e PlayStation: due ceffoni e camminare… Certo, ma non serve dire che i tempi sono mutati e che non si può fermare il cambiamento. Il benessere conquistato con fatica dalla prima generazione, quella dei nonni, si è andato consolidando grazie ai genitori odierni. E questi ultimi hanno pensato bene di fare tutto il possibile per incrementare ulteriormente l’appagamento dei figli, la terza generazione. Ma succede che tutto quel dispendio di tempo e denaro per un’educazione completa, l’esercizio fisico, la socializzazione—proprio tutto—, a un certo punto sembra finire nella pattumiera. Una coppia guarda il proprio figlio e vede un individuo depresso, arrabbiato, solo. O magari no, perché è sempre connesso, è sempre fuori con qualcuno, forse ha perfino un primo amore. Ma rispetto alla famiglia è tagliato fuori, si sente solo. E tutto d’un tratto si sentono soli anche i genitori. Allora i nonni dicono la loro, però non li si vuole far preoccupare: gli si raccontano mezze verità. I consigli non richiesti di problemi inconfessati restano inascoltati o fraintesi. Allora si cerca una voce esterna, qualcuno che non sia di famiglia e che possa dare un parere "obiettivo". Si chiede ai genitori degli amici d’infanzia, ma non si trova comprensione: magari hanno gli stessi problemi oppure i loro figli sono così bravi, non capirebbero! Finché non arriva il turno degli insegnanti, che agli incontri con le famiglie non dovranno più parlare dell’andamento scolastico, ma arruolarsi in una rete di agenti ombra con il compito di informare e prevenire, sorvegliare e proteggere. Eppure, nemmeno loro capiranno: sono solo insegnanti, dopotutto… La rete si stringe attorno all’incontentabile rampollo e nulla sembra servire. Ogni sforzo volto a colmare i bisogni previsti per l’età viene frustrato da una incomprensibile insoddisfazione che contagia a uno a uno i membri della famiglia, vicini e lontani. Il manuale del buon genitore si è rivelato una fregatura, tutti quei corsi, tutti quei soldi! Ed è così, un capriccio alla volta, un rifiuto dopo l’altro, che inizia a spaccarsi l’armonia familiare e insinuarsi un’idea: Non ci sta con la testa! I genitori preoccupati non ci vanno leggeri. Tuttavia, si può capire: è una risposta legittima di fronte all’incomprensibile. Anche se, a differenza della dolorosa ammissione di ignoranza, quella di bollare l’altro come pazzo è una soluzione che non ha mai portato a nulla di buono. Ma c’è un lato positivo: arriva la cavalleria Psi! E già questo può essere motivo di sollievo in una situazione in cui gli attriti domestici, senza possibilità di sfogo, cominciano a incrinare la solidità dei legami. Certo, lavorare con le famiglie è complicato: c’è un figlio "rotto" da aggiustare, ma cos’altro c’è dietro? Lo sguardo del terapeuta, a prescindere dalle sue teorie di riferimento, deve essere abbastanza ampio da abbracciare un complesso sistema-organismo, senza fermarsi al semplice ragazzo-sintomo. Ma il problema è lui, lui che non è mai contento! Noi siamo stanchi, sì, ma se lui non fosse così… Insomma, se il ragazzo non fosse come è, i genitori non avrebbero di che preoccuparsi: ma allora perché il ragazzo è come è? Cosa lo ha cambiato? Le attività extra-scolastiche, il telefonino? È stato traviato dagli amici, dalla droga? Ma sì, qualcosa deve averlo cambiato—prima era diverso! Ammettiamo che sia così: possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Né a casa, né a scuola, né a chitarra, pallanuoto, calcetto, inglese? Tanto presi dalla smania di sapere, capire, controllare, forse i genitori preoccupati hanno continuato a guardare la questione sempre dallo stesso punto di vista. Quello di adulti detentori della verità che già sanno/capiscono/controllano il benessere dei propri figli. D’accordo, probabilmente avranno fatto il meglio che potevano per il loro bene. Ma chi sono questi figli? I figli che avrebbero voluto avere? Quelli che avrebbero desiderato i loro genitori? Oppure quelli prescritti dalla società? Quale che sia il modello di riferimento, è possibile che siano rimasti abbagliati da un’ideale e abbiano perso di vista il loro specifico figlio, con i suoi bisogni e le sue peculiarità, nel bene e nel male. Così preoccupati all’idea di non fargli mancare nulla, spesso i genitori non si accorgono di crescere un figlio senza comprendere le sue necessità. Gli propongono soluzioni che credono migliori per lui in base ai propri assunti preconcetti, un presunto sapere che appare innocuo negli anni dell’infanzia, ma che torna indietro come un boomerang con l’adolescenza. Fra chi implode nella compiacenza e chi esplode nella ribellione, sempre più adolescenti, figli di genitori sempre più solleciti, scelgono di indossare una maschera per proteggersi dalla costante delusione di vedere oscurata la propria unicità. Unicità che significa anche, banalmente, diversità da chi li ha cresciuti. L’angoscia di non poter offrire tutto ai propri figli, sebbene legittima, deve fare i conti con l’impossibilità di prevedere la strada migliore di un futuro individuo. Un individuo che non ha vissuto la nostra vita e, soprattutto, non è noi. Donald Winnicott, l’analista-pediatra britannico, affermava che un figlio ha bisogno di genitori “solo sufficientemente buoni”: non serve controllare tutto, anticipare tutto, concedere tutto. Al contrario, lo strapotere di genitori prodighi di attenzioni può tramutarsi in una culla d’acciaio che, invece di proteggere, soffoca la vitalità del bambino. Vitalità che, paradossalmente, cerca di piegare le sbarre con i sintomi di un malessere: l’ultima spiaggia per chi si sente con le spalle al muro. Anticipare l’ignoto non è possibile. Esserci sempre non è possibile. Riempire ogni spazio, non è possibile. Affinché ci sia vita, e quindi crescita, c’è bisogno di vuoto, di noia. C’è bisogno di genitori che facciano squadra l’uno con l’altro, prima che con tutti i presunti desideri dei figli. Perché se curare la mente e il corpo è di certo un principio sano, è altrettanto vitale coltivare quelle che Carl Gustav Jung chiamava “le doti del cuore”, ovvero i princìpi sentimentali e morali che guidano verso la propria vocazione. Per fare questo non ci sono manuali: non c’è dogma che tenga. È un’avventura tutta da scoprire, che solo senza la pretesa di sapere già può portare lontano…
Adolescenza

Mio figlio beve: cosa faccio?

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Mi chiamo Francesco e sono un papà preoccupato. Da quando mio figlio ha cambiato scuola, non è più lo stesso. All’inizio ero contento che uscisse con la sua nuova comitiva, ma ora vivo con apprensione l’arrivo del fine settimana. La scorsa domenica si è barricato in camera sua, ha perfino saltato il pranzo. Nel pomeriggio, ha parlato di problema intestinale, ma non vorrei che si fosse ubriacato o peggio. Ho anche paura a fargli domande: e se mi mentisse? Mi ha sempre raccontato tutto, non vorrei rovinare un così bel rapporto. Che devo fare?


Questa è la domanda che si pone ogni adulto alle prese con la crescita dei figli. Specie quando ci si imbatte in qualcosa di anomalo, sospetto e potenzialmente pericoloso — come l’alcol, per esempio. Porsi la domanda è lecito, ma darsi una risposta è un obbligo: meglio farlo con cognizione di causa allora. Meglio chiedere all’esperto… Peccato che ogni esperto filtri la realtà attraverso le lenti del proprio ambito di appartenenza. Chiedete a un sommelier cosa ne pensa dell’alcol. Poi chiedetelo a un barman, al proprietario di una vigna o di una cantina. E ancora: al medico, alla stradale, al SerD, ai media. Insomma, chiedetelo a chi vi pare e avrete tante risposte quante sono le anime su questa terra. C’è un solo fatto su cui tutti — tranne i filosofi — possono concordare: l’alcol esiste. Lo psichiatra Carl Gustav Jung diceva che bisogna partire dai fatti prima di correre a fare teorie. E c’è un secondo fatto che può interessare il genitore preoccupato: dove ci sono persone, c’è alcol. Basta gettare uno sguardo alle vetrine dei locali, fuori dai bar o, più semplicemente, su una tavola imbandita. Fin qui, nulla di strano, giusto? Eppure, è in uno di questi scenari che si sarà trovato il figlio del genitore preoccupato… Anzi, è molto probabile che sia così: “Nel 2021 7,7 milioni di italiani di età superiore a 11 anni (pari al 20% degli uomini e all’8,7% delle donne) hanno bevuto quantità di alcol tali da esporre la propria salute a rischio”[1]. D’accordo, parlare di alcol e rischio per la salute non dice molto. Ma forse un padre e una madre in apprensione avranno fatto caso a un certo dato: 11 anni… Siamo circondati da adolescenti, ragazzi e ragazze che escono il sabato sera e si mettono in gioco fuori dal recinto sacro della scuola e della famiglia. E un brindisi aiuta, perché l’alcol mette euforia, abbassa i freni inibitori, ti fa stare bene. Certo, all’inizio. Poi vengono il calo di riflessi, la sonnolenza, gli sbalzi d’umore —e questo solo in acuto: inutile elencare le innumerevoli condizioni organiche cui l’uso abituale di alcol è correlato. Ma questo gli adolescenti lo sanno! Perché, contrariamente a quanto credono molti genitori, i giovani sono svegli — spesso, anche più degli adulti. Hanno fame di vita, di nuove esperienze e sanno che c’è tutto un mondo da scoprire. Qualcosa che genitori sempre più anziani non comprendono più, convinti che tutto ciò che manca ai figli non sia altro che un po’ di sale in zucca. Quindi si domandano: Che devo fare? Ho un’altra domanda: per questo figlio, che senso ha bere? Trovare il senso di un comportamento in famiglia è difficile, d’accordo. Ma diventa anche peggio quando si scambia un viscerale, ma vago, senso di familiarità con la consapevolezza di chi è l’altro. Finché non si entra nell’ottica di non sapere, di non conoscere, allora chiedersi che devo fare? sarà del tutto inutile. Per capire l’altro, bisogna prima ammettere che è altro da noi—anche quando è sangue del nostro sangue.L’ha fatto per imitare i suoi amici”. “Quindi se loro si buttano da un ponte…”. Classico. Eppure, questi adolescenti non sono fessi, è bene ripeterlo. Ubbidire al mandato genitoriale, all’etica propria o altrui, non è questione d’intelligenza. Non ci si prende una sbronza per ignoranza né per mancanza di carattere né per scemenza: è un fatto d’identità. L’adolescenza, con la scoperta della mortalità—propria e altrui—e dell’amore—sentimentale e sessuale—, è il momento in cui le domande su sé stessi e sul mondo iniziano ad affiorare. Il dogmatico, ma sicuro mondo dell’infanzia va incontro alla disillusione dell’età adulta. È il momento della sperimentazione, bisogna scontrarsi con la realtà, quella ‘vera’, per cominciare a costruire un’esperienza che sia propria — non quella dei perché sì e perché no: servono risposte. Ma prima bisogna imparare a porsi le domande. Domande che risultano sconcertanti se cozzano con una visione del mondo semplicistica e semplificata. Un esempio? L’alcol fa male. In un film i protagonisti danno una festa: brindano. Ci saranno multe più salate per guida in stato di ebbrezza. Al supermercato le birre sono in offerta. Il messaggio è chiaro: il mondo è pieno di contraddizioni. Comprendere questo significa darsi la possibilità di affrontare senza pregiudizi il fisiologico smarrimento della genitorialità. Comprendere che quel figlio che ci fa preoccupare non è di certo un estraneo né la nostra copia spiccicata: è un individuo che si interroga e ci interroga su una realtà che qualcuno ha costruito prima di lui. Qualcosa che per gli adulti è un dato di fatto, quasi scontato, ma per i giovani è ancora in cerca di senso. Certo, interrogare il fondo di un boccale è un rischio. E di comportamenti a rischio gli adolescenti sono cintura nera—lo sono sempre stati. Forse, non è un caso che ogni forma di progresso, di rottura costruttiva col passato, abbia un che di adolescenziale: quel misto di energia grezza, ancora infantile, ma anche matura, dell’adulto che verrà. Tuttavia, come in ogni sperimentazione, affinché ci sia vera esperienza, anche il rischio deve essere reale: crescere è una partita rischiosa, ma è l’unica che possiamo giocare. E allora che devo fare?! Stare a guardare mentre questi si giocano i neuroni uno shot alla volta? Un buon inizio potrebbe essere provare a conoscere i vostri ragazzi e ragazze. Che musica ascoltano, cosa guardano, a chi vogliono somigliare, di cosa hanno paura. Solo uscendo da una visione stereotipata le deviazioni dalla ‘strada maestra’ diventeranno opportunità di un nuovo sviluppo. Ma se non si accetta il rischio di rovinare un così bel rapporto, il dialogo con l’esperienza non inizierà mai. L’alcol resterà solo una sostanza cattiva e il bere un non-senso da demonizzare, quando porta problemi—mentre magari va benissimo se fatto sistematicamente, purché non lasci segni visibili… Perciò, genitore preoccupato, non avere paura: ci sei passato anche tu. E se non tu, tuo padre o tua madre, un fratello o una sorella, un nonno o una nonna. Quell’adolescente sei tu in cerca di risposte, risposte importanti che continuano a sfuggire. Avere qualcuno accanto, nell’angoscia della ricerca, è tutto ciò che può aiutare, tutto quel che si può fare: insieme, se ne verrà a capo. -

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- [1] https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/dal-governo/2023-04-18/iss-77-milioni-italiani-rischio-eccessivo-consumo-alcol-preoccupano-giovani-e-donne-134721.php?uuid=AE6VyqID&refresh_ce=1
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