Si dice di solito che se una cosa è comune a tutti vuol dire che nessuno se ne prende cura e viene abbandonata alla volontà di chi se ne approfitta. Lo vediamo spesso nelle condizioni precarie delle spiagge libere messe al confronto con gli arenili concessi ai privati che ne fanno profitto ma ne limitano la fruizione a chi non può pagare l’accesso. È proprio così? Non esiste un esempio e una proposta che dice il contrario?
Un gruppo di cittadini attivi
È capitato anche a me. Qualche anno fa scalando una nota parete dolomitica rimasi sconcertato dalla vista di un imballaggio incastrato in una fessura vicino ad un chiodo di sosta. Forse perché davo per scontato che il rispetto per la natura fosse un valore condiviso tra chi bazzica i contesti di montagna.
Facciamo esperienza di micro-inquinamenti ma anche degli effetti dei comportamenti sconsiderati di alcuni operatori economici sulla salute di tutti, come nel caso dei PFAS nell’acqua.
I beni comuni hanno due caratteristiche peculiari: non se ne può impedire ad altri il godimento (non escludibilità) e il loro godimento da parte di un soggetto limita o impedisce la fruizione ad altri (rivalità).
La natura è il più classico dei beni comuni, beni disponibili per tutti ma la cui fruizione può diventare problematica, se non addirittura tragica come ci ricorda il lavoro pioneristico del biologo Garret Hardin apparso sulla rivista Science nel 1968.
Riprendendo il noto problema del rapporto fra popolazione e risorse alimentari – ricordiamo la famosa tesi di Malthus per cui la popolazione ha una crescita tendenzialmente superiore rispetto a quella delle risorse – Hardin si chiede se vi sia una soluzione tecnica, ovvero un cambiamento delle tecniche che derivano dalle scienze naturali, arrivando alla conclusione negativa.
Per dimostrarlo Hardin usa l’esempio di un pascolo. Tutti i pastori vi possono accedere e ciascuno, secondo la logica economica, è incentivato a portarvi più capi di bestiame possibile. Nel tempo, se tutti i pastori si comportano così, si arriverà all’esaurimento dell’erba per ovvio sovrasfruttamento. Ciò accade perché mentre il beneficio per ciascun pastore è individuale, il costo del ripristino del pascolo è ripartito tra tutti. E qui scatta la dimensione tragica del bene comune: il massimo interesse di ciascuno conduce alla rovina di tutti!
In questo caso, meccanismo dell’economia di mercato, la cosiddetta “mano invisibile” di Smith, non funziona.
D’altro canto già Aristotele affermava che «ciò che è comune alla massima quantità di individui riceve la minima cura. Ognuno pensa principalmente a sé stesso, e quasi per nulla all’interesse comune (Politica)».
Ecco il cuore del contributo di Hardin: siamo di fronte ad un “problema senza soluzione tecnica” che richiede invece un cambiamento dei valori umani o delle idee morali. Per evitare la “tragedia” serve un bilanciamento fra la libertà individuale e l’interesse generale.
Stante l’inefficacia di un generico imperativo morale da imporre a tutti, quale soggetto deve occuparsi di questo “arbitraggio”, ovvero di limitare l’uso del bene comune per preservarlo? Secondo Hardin le soluzioni sono due: rendere il bene comune un bene pubblico, sottoposto al governo della politica, con il prezzo di un’inefficienza economica oppure affidarlo a privati che però produrranno una indisponibilità diffusa.
A distanza di vent’anni dal saggio del 1968 altri lavori scientifici hanno mostrato che ci sono soluzioni alternative a questa dicotomia fra pubblico e privato.
Nel 1990 è apparso negli Stati Uniti Governing the commons (Governare i beni collettivi) della premio Nobel per l’Economia Elinor Ostrom.
La studiosa californiana ha fatto un’indagine sul campo nella quale mostra che vi sono diverse istituzioni comunitarie che possono prendersi cura dei beni comuni, quali possono essere i bacini di pesca o di irrigazione. Ma ad alcune condizioni, che Ostrom individua nella garanzia di flussi di informazione condivise fra i gestori dei beni, nell’elevato livello di fiducia reciproca, nel rispetto di regole e controlli e nella presenza di incentivi alla cooperazione: sono questi aspetti che assicurano il successo nell’autogoverno comunitario.
In Italia abbiamo una grande tradizione di usi civici, ovvero diritti di coltivazione, di caccia, di pascolo o di legnatico che spettano alle comunità, le quali decidono insieme cosa farne. Basti pensare alle “Magnifiche comunità e le Regole” delle nostre valli alpine, così come al recente proliferare di associazioni di cittadini che si stanno prendendo cura di parchi e altri luoghi comunitari (un esempio per tutti, l’associazione Retake) .
Sono ancora tanti i beni comuni e di importanza rilevante come la pace, il clima e la giustizia sociale in cui si consumano giornalmente tragedie. Lo stesso tema delle risorse non rinnovabili pone una questione urgente di “tragedia dei beni comuni” intergenerazionale.
Sono tanti i cantieri aperti per lavorare nel miglioramento della nostra vita in comune dove “tutto è connesso”. Le sfide si pongono a diversi livelli, da quello culturale alla progettazione di istituzioni più capaci di incentivare la risoluzione di conflitti e le logiche di cooperazione. Con creatività e desiderio di fare la propria parte.