Siamo *** e *** e non sappiamo più che pesci prendere. Negli ultimi mesi, nostro figlio è diventato intrattabile. Cerchiamo di non fargli mancare nulla: chitarra due volte a settimana, pallanuoto dopo scuola, calcetto nel weekend, lezioni d’inglese… Ma nulla sembra mai bastare: ci sembra infelice. E dire che prima era un bambino così solare e spensierato. Ora invece risponde male a entrambi, mette il muso per un nonnulla e, soprattutto, si chiude sempre più in sé stesso. Vorremmo che parlasse con noi, che ci facesse capire cosa c’è che non va. Siamo arrivati al punto di proporgli perfino lo psicologo… Che dobbiamo fare?
Cosa fare con nostro figlio adolescente?
Quando si arriva a proporre “perfino lo psicologo”, le cose stanno davvero sfuggendo di mano. Non dovrebbe essere così, ma nei fatti, per molti genitori, rimettersi a un perfetto sconosciuto, per quanto preparato, è poco meno che un fallimento. Specie quando tutto dovrebbe andare a gonfie vele con questi ragazzi a cui non si fa mancare nulla… E allora eccola lì, la dolorosa domanda:
Che dobbiamo fare?
Dolorosa, perché mettersi in discussione è difficile. Bisogna ammettere di non aver capito niente, o quasi. Ma quando le certezze pregresse ci abbandonano e tutto ciò che credevamo utile si rivela inefficace o nocivo, non resta altro che affrontare l’incognita che è l’individuo che abbiamo davanti. Quello sconosciuto di un figlio che, anziché essere grato per tutto ciò che ha — guadagnato col sudore della fronte di padri e madri — non solo è scontento: ha pure il coraggio di stare male!
Eh, un tempo altro che iPhone e PlayStation: due ceffoni e camminare…
Certo, ma non serve dire che i tempi sono mutati e che non si può fermare il cambiamento. Il benessere conquistato con fatica dalla prima generazione, quella dei nonni, si è andato consolidando grazie ai genitori odierni. E questi ultimi hanno pensato bene di fare tutto il possibile per incrementare ulteriormente l’appagamento dei figli, la terza generazione. Ma succede che tutto quel dispendio di tempo e denaro per un’educazione completa, l’esercizio fisico, la socializzazione—proprio tutto—, a un certo punto sembra finire nella pattumiera. Una coppia guarda il proprio figlio e vede un individuo depresso, arrabbiato, solo. O magari no, perché è sempre connesso, è sempre fuori con qualcuno, forse ha perfino un primo amore. Ma rispetto alla famiglia è tagliato fuori, si sente solo. E tutto d’un tratto si sentono soli anche i genitori.
Allora i nonni dicono la loro, però non li si vuole far preoccupare: gli si raccontano mezze verità. I consigli non richiesti di problemi inconfessati restano inascoltati o fraintesi. Allora si cerca una voce esterna, qualcuno che non sia di famiglia e che possa dare un parere “obiettivo”. Si chiede ai genitori degli amici d’infanzia, ma non si trova comprensione: magari hanno gli stessi problemi oppure i loro figli sono così bravi, non capirebbero! Finché non arriva il turno degli insegnanti, che agli incontri con le famiglie non dovranno più parlare dell’andamento scolastico, ma arruolarsi in una rete di agenti ombra con il compito di informare e prevenire, sorvegliare e proteggere. Eppure, nemmeno loro capiranno: sono solo insegnanti, dopotutto…
La rete si stringe attorno all’incontentabile rampollo e nulla sembra servire. Ogni sforzo volto a colmare i bisogni previsti per l’età viene frustrato da una incomprensibile insoddisfazione che contagia a uno a uno i membri della famiglia, vicini e lontani. Il manuale del buon genitore si è rivelato una fregatura, tutti quei corsi, tutti quei soldi! Ed è così, un capriccio alla volta, un rifiuto dopo l’altro, che inizia a spaccarsi l’armonia familiare e insinuarsi un’idea:
Non ci sta con la testa!
I genitori preoccupati non ci vanno leggeri. Tuttavia, si può capire: è una risposta legittima di fronte all’incomprensibile. Anche se, a differenza della dolorosa ammissione di ignoranza, quella di bollare l’altro come pazzo è una soluzione che non ha mai portato a nulla di buono. Ma c’è un lato positivo: arriva la cavalleria Psi! E già questo può essere motivo di sollievo in una situazione in cui gli attriti domestici, senza possibilità di sfogo, cominciano a incrinare la solidità dei legami. Certo, lavorare con le famiglie è complicato: c’è un figlio “rotto” da aggiustare, ma cos’altro c’è dietro? Lo sguardo del terapeuta, a prescindere dalle sue teorie di riferimento, deve essere abbastanza ampio da abbracciare un complesso sistema-organismo, senza fermarsi al semplice ragazzo-sintomo.
Ma il problema è lui, lui che non è mai contento! Noi siamo stanchi, sì, ma se lui non fosse così…
Insomma, se il ragazzo non fosse come è, i genitori non avrebbero di che preoccuparsi: ma allora perché il ragazzo è come è? Cosa lo ha cambiato? Le attività extra-scolastiche, il telefonino? È stato traviato dagli amici, dalla droga? Ma sì, qualcosa deve averlo cambiato—prima era diverso! Ammettiamo che sia così: possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Né a casa, né a scuola, né a chitarra, pallanuoto, calcetto, inglese?
Tanto presi dalla smania di sapere, capire, controllare, forse i genitori preoccupati hanno continuato a guardare la questione sempre dallo stesso punto di vista. Quello di adulti detentori della verità che già sanno/capiscono/controllano il benessere dei propri figli. D’accordo, probabilmente avranno fatto il meglio che potevano per il loro bene. Ma chi sono questi figli? I figli che avrebbero voluto avere? Quelli che avrebbero desiderato i loro genitori? Oppure quelli prescritti dalla società? Quale che sia il modello di riferimento, è possibile che siano rimasti abbagliati da un’ideale e abbiano perso di vista il loro specifico figlio, con i suoi bisogni e le sue peculiarità, nel bene e nel male.
Così preoccupati all’idea di non fargli mancare nulla, spesso i genitori non si accorgono di crescere un figlio senza comprendere le sue necessità. Gli propongono soluzioni che credono migliori per lui in base ai propri assunti preconcetti, un presunto sapere che appare innocuo negli anni dell’infanzia, ma che torna indietro come un boomerang con l’adolescenza. Fra chi implode nella compiacenza e chi esplode nella ribellione, sempre più adolescenti, figli di genitori sempre più solleciti, scelgono di indossare una maschera per proteggersi dalla costante delusione di vedere oscurata la propria unicità. Unicità che significa anche, banalmente, diversità da chi li ha cresciuti.
L’angoscia di non poter offrire tutto ai propri figli, sebbene legittima, deve fare i conti con l’impossibilità di prevedere la strada migliore di un futuro individuo. Un individuo che non ha vissuto la nostra vita e, soprattutto, non è noi. Donald Winnicott, l’analista-pediatra britannico, affermava che un figlio ha bisogno di genitori “solo sufficientemente buoni”: non serve controllare tutto, anticipare tutto, concedere tutto. Al contrario, lo strapotere di genitori prodighi di attenzioni può tramutarsi in una culla d’acciaio che, invece di proteggere, soffoca la vitalità del bambino. Vitalità che, paradossalmente, cerca di piegare le sbarre con i sintomi di un malessere: l’ultima spiaggia per chi si sente con le spalle al muro.
Anticipare l’ignoto non è possibile. Esserci sempre non è possibile. Riempire ogni spazio, non è possibile. Affinché ci sia vita, e quindi crescita, c’è bisogno di vuoto, di noia. C’è bisogno di genitori che facciano squadra l’uno con l’altro, prima che con tutti i presunti desideri dei figli. Perché se curare la mente e il corpo è di certo un principio sano, è altrettanto vitale coltivare quelle che Carl Gustav Jung chiamava “le doti del cuore”, ovvero i princìpi sentimentali e morali che guidano verso la propria vocazione. Per fare questo non ci sono manuali: non c’è dogma che tenga. È un’avventura tutta da scoprire, che solo senza la pretesa di sapere già può portare lontano…