Sono una consacrata e con qualche fratello della nostra realtà maschile ultimamente stiamo condividendo alcune osservazioni che ci toccano personalmente. Entrambi, pur essendo felici e convinti della nostra vocazione, realizzati nello studio (io) e nel lavoro apostolico (lui), notiamo quanto potrebbero crescere le nostre comunità dal punto di vista dell’umanità. È vero che ci possono essere anziani e anziane difficili da sopportare, esigenti e lamentosi, come anche i giovani, possono essere passivi e poco collaborativi, e poi ci sono le differenze culturali, ma talvolta pensiamo che se trovassero case meno rigide e prese solo dai mille impegni da portare avanti, forse si tranquillizzerebbero un po’, e tutti staremmo meglio. Abbiamo troppe opere da gestire e poche forze, quindi si capisce che le nostre energie sono orientate a risolvere continue emergenze, ma nel frattempo le nostre comunità rischiano di inaridirsi. Si può essere in 3 e sentirsi a casa ed essere in tanti, ma sperimentare un grande senso di solitudine. Parlare di famiglia, allora, è azzardato in alcune nostre case.
La necessaria umanità
Siamo tornati diverse volte sul tema della comunità come gruppo umano “speciale”, speciale al punto che nessuna immagine di gruppo è del tutto adatta a rappresentare le dinamiche di una realtà vocazionale fraterna.
La riflessione iniziale, ma anche le diverse storie di vita che ho modo di affiancare quotidianamente, rendono però alcune considerazioni sempre attuali e forse non scontate.
C’è Paolo che da poco ha lasciato la vita religiosa e che si trova completamente da solo ad affrontare il suo “reinserimento” nel mondo del lavoro, e della vita fuori da una struttura nella quale è cresciuto e nella quale ha creato tanti rapporti buoni e amichevoli.
Marta, invece, sta affrontando delle difficoltà personali, certo può andare ogni tanto a casa a trovare i suoi genitori, sono loro, infatti, a crearle molti pensieri, lei che è figlia unica, ma quando rientra in comunità le due esperienze sembrano non avere alcun collegamento. Se sta a casa, si occupa dei suoi ed è concentrata lì, quando rientra riprende la vita comunitaria come se niente fosse: nessuno le chiede granché oltre la domanda formale, nessuno sembra aver ben capito la gravità delle sue preoccupazioni.
Infine c’è Matteo, di mezza età, il quale dopo tanti anni di percorso non si è ancora arreso a vedere alcuni confratelli isolati, distaccati, molto poco coinvolti nella vita insieme. Anche Matteo, ormai, sta imparando a prendere distanza e a farsi «gli affari suoi», «tanto nessuno è attento a nessuno». Purché non si diano problemi e si rispetti il lavoro, ciascuno è del tutto autonomo nella gestione della vita ordinaria, ignaro della condizione interiore del fratello accanto.
Tre icone possibili e frequenti nelle comunità. Ci sono esperienze fraterne serene, capaci di sostegno e vicinanza a giovani e anziani, a forti e deboli, ma non sono rare le tre voci-icona che fanno eco alle parole della nostra lettrice.
Allora recuperiamo la categoria “famiglia” per le fraternità di uomini e donne, ma prendiamone la dimensione sana e costruttiva.
Anche perché, parliamoci chiaro, se ci sono persone che a distanza di molti anni, sono ancora proiettate più sui luoghi di origine che sulla scelta che hanno compiuto, oppure hanno amicizie e fiducia solo in rapporti esterni alla comunità, sconfortati dalla freddezza interna, qualcosa non va. Certo questo ha a che vedere con molti fattori: la realizzazione vocazionale, la maturità individuale, l’egocentrismo del nostro tempo, ma direi – per essere onesti – anche col benessere che si vive nel gruppo di appartenenza.
Nel gruppo possono non esserci amici, come quelli che si sceglierebbero o che si sono incontrati nella vita, può succedere non è strano. Come ripetiamo spesso, non ci sono neppure relazioni filiali in senso stretto, cosa che renderebbe infantile la dinamica del gruppo e anche insana. Ma dimensioni quali il supporto, l’ascolto, la stima, il rispetto dell’altro con la sua storia e i suoi momenti alti e bassi, sono centrali per una comunità sana, armonica, che possa essere attraente per i suoi membri e per quelli che si avvicinano con un desiderio vocazionale.
Il fuggi fuggi fuori casa, ripeto, sottende tante questioni, ma ciò non esonera dall’interrogarsi su come funzioni «la nostra famiglia concreta», quale sia il clima prevalente: indifferente o accogliente, giudicante o capace di dare spazio, c’è un’aria serena o conflittuale, c’è libertà di espressione o, invece, prevalgono sempre le stesse voci, quelle più forti e capaci di orientare tutte le altre.
Sempre più comunità oggi si mettono in discussione, dopo molteplici uscite, a causa delle scarse entrate, o motivate dalle situazioni spesso faticose che i responsabili si trovano a gestire riguardo alle relazioni fraterne. Il lavoro è complesso, ma la domanda di fondo è molto semplice: cosa non funziona nel nostro stile di vita, o potrebbe funzionare meglio?
Non che si debbano rincorrere i consensi così da poter convincere i giovani ad entrare. La vocazione alla vita fraterna non è per tutti. I piccoli numeri sono evangelici. Ingrossare le fila delle comunità non è nello spirito della loro essenza.
Tuttavia lavorare sull’umanità dei membri e del loro stare insieme, anche alla luce di molte sofferenze passate e presenti, penso possa essere uno stimolo bello, arricchente, doveroso per non continuare passivamente sull’onda delle tradizioni e del fatto che «per qualche anno siamo tranquilli, perché tanto vocazioni ce ne sono».
Come farlo?
- Intanto può essere utile enucleare le difficoltà, in modo chiaro e il più oggettivo possibile, senza caricare tutto già di un’interpretazione e quindi di un significato.
Enucleare.
- Creare spazi dove sistematicamente si possano esprimere cose belle e meno belle di quella specifica realtà. Senza giudizi, senza creare caos, perché l’interesse è che le cose vadano meglio, e non quello di valutare personalmente questo o quel fratello/sorella. Attenzione, quindi, al linguaggio che si utilizza.
Avere spazi.
- Aiutarsi a prestare attenzione (non ad impicciarsi, che è diverso) alla persona accanto, con un volto e un nome. Riconoscerla non come una qualunque, ma come individuo concreto. «Ieri non ti ho visto, tutto bene?». «Mi pare che tua sorella fosse in ospedale, si è ripresa?». Non servono i dettagli, è già molto offrire cura che si fa interesse delicato per la vita altrui. La solitudine fa male. Nessuno può vivere senza avere intorno rapporti affettuosi, che si interessino a me e io all’altro. Penso sia chiaro che questo non ha a che vedere con realtà fusionali, dove manca la riservatezza, e il confine interpersonale.
Avere cura.
Le comunità hanno moltissimo da dire al mondo, sono vocazioni irrinunciabili. L’umanità, però, non è secondaria perchè esse siano esperienze credibili.
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