Vorrei condividere alcune osservazioni.
Primo. Lo scorso incontro Zoom ha toccato il tema dell’omosessualità, in senso prevalentemente maschile. Si parla raramente di questo in ambito femminile. Eppure ci sono molti problemi al riguardo. Nelle comunità femminili si esprime la “sororità” con manifestazioni affettive (abbracci e baci) che se venissero adottate in ambito maschile farebbero subito parlare di “omosessualità”.
Secondo. L’argomento trattato è complesso e difficile anche a partire dal contesto in cui viviamo. Oggi, in cui la piaga della pedofilia si sta manifestando in tutta la sua ampiezza, si guarda con sospetto la possibilità di accogliere vocazioni con orientamento omosessuale. […]. La paura che si ripetano casi del genere frena, blocca, impedisce la serenità nel discernimento vocazionale.
Terzo. Ricordo che un importante monaco, una volta, ebbe a raccontare come in un monastero maschile, l’ingresso di persone con orientamento omosessuale ha portato ad una trasformazione del monastero. Secondo il detto “simile attira simile”, questo monastero si era andato componendo quasi unicamente di religiosi con orientamento omosessuale.
Un sacerdote religioso
Grazie per queste interessanti osservazioni, e grazie anche della sua partecipazione alla formazione agile, di cui ha dato un gradito riscontro. Abbiamo dovuto abbreviare il suo testo, ma solo per ragioni di spazio, magari altre considerazioni che pure ci sono giunte, o eventuali approfondimenti potrebbero confluire in ulteriori numeri di questa rubrica.
Ha ragione che si tende a declinare l’omosessualità prevalentemente sul versante maschile, ma l’argomento riguarda anche il mondo femminile, di certo. C’è da dire che la modalità espressiva maschile/femminile ha delle sfumature diverse: tra adolescenti, ad esempio, è possibile vedere due amiche tenersi per mano o scambiarsi affetto, mentre è meno “tipico” tra due ragazzi.
Detto questo: nelle comunità religiose, come nei seminari, la relazione interpersonale è tra persone adulte, come ripeto spesso, tipo mantra, per cui tra adulti, uomini e donne, la gestualità e la modalità espressiva non dovrebbero essere quelle adolescenziali. Darsi un abbraccio, mostrare affetto e tenerezza, sono canali belli quando utilizzati in modo appropriato e senza secondi fini, mentre possono diventare inopportuni quando, invece, creano dinamiche “di coppia” o di alterazione del rapporto, allora lo snaturano, lo rendono manipolatorio, ambiguo.
Talvolta, in effetti, mentre le comunità maschili soffrono un eccesso di indipendenza, al limite di una semplice convivenza tra colleghi, quelle femminili, all’opposto, soffrono di forme di dipendenza e di infantilismo, nel linguaggio, come nella gestualità e nel modo di vivere i rapporti. Questo, però, è trasversale all’omosessualità. In altre parole: non c’entra con l’omosessualità, ma con l’immaturità dei membri e dell’ambiente che favorisce fredda distanza o, all’opposto, vicinanze morbose, invischiate. Perciò, quando accadono situazioni di dipendenza e legami impropri al contesto, per esempio tra formatore/formatrice e formandi, il problema è piuttosto di affettività. Potrebbe essere coinvolto l’orientamento omosessuale, certo, ma non è quello il centro della questione, quanto la consistenza della vocazione e il livello di equilibrio dell’individuo.
Persone omosessuali lavorano o dovrebbero lavorare su se stesse, sul proprio mondo affettivo, relazionale e sessuale, come quelle eterosessuali, ancor più quando assumono un incarico di formazione o di governo.
Non c’è un galateo di comportamento, ma senza dubbio dovrebbe esserci un’attenzione e una cura specifiche per la convivenza vocazionale, essendo un gruppo “speciale”, di alto livello, quanto a Ideale di vita.
Altra questione è il riserbo e il pudore che ancora caratterizzano gli ambienti vocazionali femminili, per cui è vero che si parla pochissimo dell’argomento, e questo è un peccato perché il silenzio alimenta ignoranza e paure e non permette adeguati processi di accompagnamento.
Pertanto (e vengo al terzo punto del nostro lettore), se le vocazioni sono serie, ben fondate, ben accompagnate, e con motivazioni che si rinnovano nel tempo, e se – dunque occorrono diverse condizioni! – chi viene scelto per accompagnare e governare ha un buon equilibrio personale e una conoscenza di sé adeguata, non vedrei la ragione per cui si dovrebbero creare circoli di simili.
La presenza di gruppi, sottogruppi, etnie di “preferenza”, favoritismi, slogan, è indicativa di una non-comprensione vocazionale. Mi permetto anche di rilevare che – come dicevamo nell’ultimo Zoom – l’orientamento sessuale è una delle dimensioni della persona, che non la qualifica in toto e non la esaurisce. Dunque non può essere questo un aspetto che accomuna e dà l’impronta…del resto due persone con orientamento omosessuale, come due persone con orientamento eterosessuale, possono essere diversissime tra loro.
L’omosessualità, quindi, non crea “somiglianze” a meno che, mi spiace ripetermi, parliamo di adolescenti (per età o per maturità psicoaffettiva), che quindi si devono riconoscere nel branco, e allora adottano look, linguaggi e comportamenti quasi identici in modo da sentirsi, appunto, “gruppo di simili”, noi/loro. Chiunque utilizzi una dimensione di sé – qualunque dimensione di sé, dall’orientamento sessuale, alla qualifica professionale, alla sensibilità, alla provenienza geografica – per qualificarsi e associare altri rivelerebbe una grande immaturità personale.
Infine, punto importantissimo (il secondo), è scientificamente scorretto e lo è anche da un punto di vista esperienziale e statistico associare pedofilia (un disturbo previsto dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM-5, tra quelli parafilici) e omosessualità (che non è un disturbo). Abusi e pedofilia, ipersemplificando al massimo, riguardano persone con gravi problematiche affettive e non toccano l’orientamento sessuale.
Attenzione, quindi, a non accontentarsi del “sentito dire” su argomenti così delicati, in cui si finisce per legare in modo del tutto indebito le due condizioni. La non conoscenza fa molto male alle persone coinvolte, fa un cattivo servizio alla Chiesa e crea generalizzazioni pericolose.
Piuttosto, la formazione andrebbe ripensata mettendo a tema quelli che fino ad oggi erano argomenti tabù negli ambienti vocazionali: affettività, corporeità, sessualità, dimensioni bellissime dell’essere umano. Dimensioni che, però, vanno conosciute per poter essere formate e accompagnate. Lo dico sia per il singolo, che per le comunità: quale affettività vive il gruppo, come la esprime… La paura dovrebbe, allora, insorgere per quegli ambienti che non si mettono mai in discussione, o che non approfondiscono le richieste vocazionali con gli strumenti che oggi sono a disposizione, per verificare se la strada ministeriale o a vita comune sia il bene della persona, se ella abbia la struttura umana per sostenere tale percorso di vita.
Sono convinta che quando si rimettono al centro i valori e la vocazione e si riflette seriamente sulla maturità personale e dell’ambiente, l’orientamento sessuale della persona finisce sullo sfondo, importante, ma non centrale. Ribaltare i termini, penso, rischia di alterare la possibilità di una riflessione seria e fondata su questo argomento, come i percorsi vocazionali meriterebbero.
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