L'esperto risponde / Religioni, Chiesa

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita consacrata

Come coniugare il perdono e la vita in comunità?

Nel precedente numero di questa rubrica abbiamo delineato l’iter del perdono, un processo intrapersonale, l’unico veramente capace di rigenerare se stessi, innanzitutto, e quindi le relazioni. Restituisce una prospettiva di vita a chi ha sofferto e un nuovo sguardo di speranza e accoglienza a chi accoglie il perdono e smette, così, di percepirsi solo come colui che ha sbagliato.

Il perdonare, però, quando si sposta dalla teoria alla pratica sembra diventare umanamente impraticabile. «E’ troppo doloroso quello che è successo», «non è la prima volta che lo perdono, ma siamo sempre punto e a capo», «mi spiace, ma non sarò sempre io la stupida del gruppo, qualche volta toccherà anche ad altri iniziare o no?».

Penso che chiunque di noi abbia dovuto fare i conti con questi dubbi, e si sia trovato impantanato in rapporti che sembrano irrisolvibili.

Negli ambienti di vita comune diventano uno scoglio che prima o poi va affrontato.

Certo agli inizi della vita di coppia o nei primi anni di esperienza fraterna, per quanto cognitivamente si sappia che si dovrà affrontare qualche incomprensione nel corso del tempo, in fondo si coltiva l’illusione che la cosa non toccherà a noi. «Ci amiamo troppo, sono sicuro che non ci saranno tensioni tanto forti, noi non siamo come gli altri». «Nella mia comunità parliamo molto, non vedo perché dovremmo andare incontro a delle divisioni». Di fatto la realtà è ben diversa.

Ci sono ambienti comunitari letteralmente spaccati da muri di silenzio, a tavola è ben chiaro chi fa alleanza con chi… e nel momento in cui bisogna prendere delle decisioni, già si conoscono i nomi di chi sarà a favore e chi contro, senza margini di sorpresa. Non bisogna scandalizzarsi: la fraternità non come dato di fatto, semplicemente perché ci sono più persone conviventi, ma come esperienza positiva di condivisione di fede, come laboratorio di fiducia, stima, collaborazione e perdono, è da costruire.

Non si parte dalla fraternità, ci si arriva.

E poi la si coltiva, si risana, e la si coltiva ancora in un processo che non ha fine, perché basta che un membro di comunità cambi, o subentrino fatti nuovi, e la dinamica sarà diversa e avrà bisogno di coordinate diverse da quelle precedenti. Quindi non c’è una tecnica che valga sempre e comunque, l’unico punto fermo è la ricerca di uno stile che lasci la favola del «ci vogliamo tutti bene perché abbiamo scelto lo stesso carisma» ed entri in una logica adulta che favorisca la costruzione e il recupero del vivere insieme in modo fraterno.

 

Allora, per quanto sia già chiaro e acquisito, mi sembra fondamentale richiamare la specialità e l’originalità dei cammini vocazionali. L’amicizia e la simpatia che sono dimensioni molto belle, umanamente appaganti, che certamente agevolano le relazioni, in effetti non sono l’ingrediente indispensabile del buon vivere un’esperienza carismatica, ministeriale o di vita consacrata. Magari si potessero avere nel pacchetto vocazione.

Questo vuol dire cambiare il livello delle attese e di conseguenza modificare la percezione della “delusione”. Cosa è deludente? Non tanto trovarsi in un ambiente dove con nessuno dei fratelli o delle sorelle andrei in vacanza, perché purtroppo accade, quanto che non ci sia un dinamismo attivo e orientato alla costruzione di un contesto che sia di fiducia, di accoglienza, di inclusione e di risanamento delle ferite, inevitabili, normali del vivere insieme.

 

I conflitti – quando non siano il clima esclusivo – non sono “il” problema della comunità, e neppure lo sono le diversità di vedute, le personalità non adesive l’una all’altra (e meno male). Il problema è l’atteggiamento chiuso, indisponibile a trovare delle vie di scambio con l’altro. Nessun romanticismo in tutto ciò. È un impegno altissimo. È un’arte di notevole maturità: «comportamenti costruttivi e prosociali» direbbe il Manuale Diagnostico tra le caratteristiche di un buon funzionamento di personalità.

È scomodo, certo. Dover comprendere la vita fraterna invece che come qualcosa di naturalmente e spontaneamente bello e semplice, come un’esperienza forte, intensa, con un valore significativo, da “realizzare”, perché non si trova entrando in comunità.

Una certa passività rischia di caratterizzare il chiamato, come se l’essere stato vocato da Dio lo abilitasse a trovare già bell’e pronta la realtà in cui si inserisce. La coppia che si mette insieme e poi si sposa sa che con il consenso del sì inizia una comunione tutta da edificare, perché non c’è qualcun altro che le consegni “la vita di famiglia”.

Occorre uno sguardo lucido, sereno e concreto sull’assetto della specifica fraternità in cui mi inserisco. Ci sono fratelli o sorelle con un carattere difficile, aggressivo, ci sono personalità psichicamente complesse, ci sono volti felici/infelici/arrabbiati, a partire da questa precisa composizione inizia il “progetto fraternità”.

 

Il gruppo di amici è spontaneo, si sta bene perché ci siamo scelti. Il gruppo di lavoro è artificiale, ma ci si adatta in nome della riuscita lavorativa, ma la vita comunitaria sta oltre un presupposto di spontaneità o di efficienza, deve trovare delle motivazioni ben più solide che vanno negoziate continuamente.

Qui si inserisce il processo del perdono. E in tale processo la motivazione di fede è un valore aggiunto enorme. Non dobbiamo esserci simpatici, diventare amici, ma essere fratelli e sorelle che è un fatto di testa, più che di cuore (se inteso come emozione a pelle). Se non si è disposti a questo, forse è più sano e opportuno cambiare strada per sé e per gli altri. Stare in comunità, «basta che non mi chiediate di perdonare», non ha senso. Altro discorso è il tempo necessario, l’impegno necessario, questi sì, sono da mettere in conto.

Per questo è fondamentale potersi confrontare, parlarne, avere la disponibilità di spazi riservati per lavorare su di sé, ma anche comunitari per poter coinvolgere e includere tutti nell’individuazione di criticità, risorse per affrontarle, strategie per metterle in campo. È insufficiente il bravo leader, la comunità è mia e nostra, anzi talvolta i membri di comunità aiutano il superiore a riflettere su cosa non funzioni, a proporre possibile strade comunionali.

 

I silenzi agghiaccianti, le solitudini vissute nella propria camera «perché non vale la pena incontrare nessuno in questa casa» interrogano tutti. L’obiettivo non è il comunitarismo o un’esperienza fusionale, ma un dinamismo di inclusione e perdono che non lasci indietro nessuno, proprio nessuno.

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Vita in comune

Consacrate e consacrati

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Sono una formatrice, in passato responsabile del mio Istituto, non più giovanissima, anzi in “terza fascia”, ma credo di avere la mente piuttosto aperta, nonostante l’età. Con la mia comunità stiamo riconsiderando le consuetudini e l’organizzazione della giornata, perché è ora di rimettere mano a quanto c’è da cambiare. Mi rendo conto di quanto differente sia la vita dei nostri confratelli uomini…


Lei tocca un tasto dolente. Non mi considero una paladina dei diritti femminili, soprattutto perché mi pare che spesso questo tema sia stato, e sia ancora talvolta, strumentalizzato. Credo che rispettare le innegabili differenti predisposizioni naturali significhi valorizzare sia la donna che l’uomo nelle loro particolarità. Però condivido le sue considerazioni: le comunità di consacrate sono, oggi, in una posizione differente, e a volte svantaggiata, rispetto a quelle maschili. Tempo fa un frate notava quanto sul bilancio generale della loro comunità maschile gravino le spese per l’acquisto di sigarette da parte dei religiosi. I consacrati possono fare sport, utilizzare abiti opportuni per uscire, fare escursioni, andare al mare, bere una birra, senza che questo crei “scandalo” per nessuno. Gli scandali sono ben altri. È un dato di realtà. Nel rispetto di una scelta di sobrietà, per cui l’attenzione economica alle decisioni piccole e grandi di ogni giorno diventa un criterio di discernimento significativo, la disparità di condizioni di vita tra realtà maschili e femminili è innegabile. Credo che questo sia frutto di una tradizione che considera le donne – mi dispiace ammetterlo – quasi incapaci di gestire in autonomia la propria vita, che quindi va normata in tutti gli aspetti. L’espressione “suorine” la dice lunga. Più che protettivo, direi che suona un po’ svalutante. Chi conosce da vicino la vita in comune femminile sa quanto questo sia vero. Molti aspetti stanno certo cambiando: le donne oggi sono apprezzate e richieste in ruoli di responsabilità all’interno della Chiesa, insegnano con competenza negli Atenei, promuovono spazi di riflessione e aggiornamento delle proprie realtà di vita. Ma il percorso è ancora lungo. Mi permetto una considerazione ulteriore, che riguarda la “sanità mentale” di consacrati e consacrate, quindi i necessari spazi di benessere personale e attenzione psico-fisica. Essere attenti alla scelta di povertà, non significa annullare la propria umanità. I momenti dedicati a camminare, condividere momenti ricreativi, curare il proprio corpo non sono una deriva narcisista se servono a vivere meglio le relazioni quotidiane, in coppia e in comunità. Questi momenti riducono il rischio di depressione, noia, sfogo attraverso l’alcol, ore trascorse davanti a computer e televisione. L’essere umano ha bisogno di varietà, di svago, di rimodulare il proprio equilibrio, su cui la grazia di Dio opera. Per cui quando mi viene chiesto se approvo il desiderio di un giovane o una giovane di intraprendere un particolare percorso di studio, approfondimento, specializzazione, rispondo sempre di , basta che in quel giovane sia ben radicato il senso di appartenenza alla propria vocazione. In questo modo, tutto quello che vive per sé, lo vive anche per i fratelli e le sorelle, per potersi donare con maggiore libertà ed energia. È chiaro, i frutti devono essere tangibili. L’ultimo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) – mi dispiace che il titolo sia piuttosto inquietante – richiama i criteri di maturità del Sé: il «perseguimento di obiettivi esistenziali coerenti e significativi, sia nel breve sia nel lungo periodo» e «standard interni di comportamento costruttivi e pro sociali». Come dire che l’appartenenza alla propria vocazione dovrebbe rappresentare il criterio quotidiano per valutare cosa fare e cosa non fare. Non solo: mettere in atto comportamenti unicamente finalizzati a se stessi non è indice di maturità, perché nel funzionamento psicologico sano la pro-socialità e gli standard costruttivi (non demolitori) sono criteri importanti. Questo vale per le donne e per gli uomini adulti, trasversalmente all’età e alle culture. A parità di obiettivi di vita, quindi, non c’è ragione per valutare con sguardo diverso la condotta maschile e quella femminile. Quando questo accade, purtroppo, significa che le pre-concezioni storiche e culturali gravano ancora troppo.
Vita in comune

L’eccellenza della vocazione (alla vita consacrata)

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…ma la tendenza ad affidare tutto agli psicologi non rischia di insidiare l’unità e la credibilità della Chiesa? Un formatore


Nella precedente risposta, era rimasta in sospeso questa parte di riflessione che mi sta molto a cuore. Il timore che Lei esprime è lecito. Quando il Concilio Vaticano II ha riconosciuto l’importanza della formazione umana, molte comunità religiose si sono ingenuamente affidate a specialisti, psicologi e psichiatri, senza valutarne alcune caratteristiche essenziali. Innanzitutto, che questi condividano l’antropologia cristiana come cornice e sfondo del loro agire terapeutico, che vuol dire riconoscere e accogliere i principi essenziali che riguardano l’essere umano, capace di superarsi, anzi bisognoso di andare oltre se stesso, verso una Trascendenza. Ma insieme limitato, nel corrispondere a questo desiderio, da una fragilità insita nel suo essere “umano”, appunto. Il gesuita p. Rulla la chiamava dialettica di base: l’uomo è aperto alla Grazia, ma è anche peccatore, c’è un Io ideale e un Io reale. Pilastri necessari per chi sia chiamato a collaborare con le realtà vocazionali. Faccio un esempio pratico, tra i tanti che si potrebbero citare: se il terapeuta non credesse nel valore positivo che può avere il sacrificio di sé e il considerare l’altro un fratello o una sorella, è chiaro che gli sarebbe impossibile affiancare la persona che vive le sfide della vita fraterna, con persone a lei “estranee”. Il suo retro-pensiero sarebbe: «chi te lo fa fare? Se non ti piacciono gli altri membri cambia comunità», e il lavoro terapeutico né risentirebbe radicalmente. È assodato, infatti, che la neutralità non esiste! Naturalmente ogni psicologo, nella pratica clinica, si rifà a un modello teorico e metodologico di riferimento, ma se condivide l’antropologia cristiana non potrà mai minare i valori fondanti della fede e della Chiesa: l’unità, la comunione, il perdono… E comunque ricordiamo che il discernimento finale sulla vocazione non lo fa lo psicologo, ma il formatore. Una seconda caratteristica importante che devono avere gli psicologi coinvolti in questo delicato compito è che conoscano veramente, e non “per sentito dire”, i processi umani e spirituali della vocazione religiosa, la quale è corrispondere a un’intuizione, la “chiamata”, che ha fondamento Altrove, oltre se stessi, sebbene converga al benessere della persona, come ho detto più volte. Ciò non vuol dire che bisogna cercare qualcuno che la pensa come noi. Vuol dire piuttosto che è necessario un accompagnamento specialistico competente e rispettoso di dinamiche assolutamente originali. I processi vocazionali, infatti, non possono essere compresi secondo una logica puramente umana. Anche qui faccio un esempio tra molti: gli psicologi che hanno utilizzato metodologie di gruppo all’interno delle comunità – e purtroppo ne ho sentite diverse di esperienze così – hanno creato disastri, perché i rapporti che intervengono tra i membri di un gruppo vocazionale che vive insieme non sono paragonabili a nessun’altra realtà umana! Non costituiscono, strettamente parlando, una famiglia, né un gruppo terapeutico, e neppure un team aziendale… È fondamentale tenerne conto, altrimenti, il formatore ha ragione, vengono trascurati aspetti importantissimi della vita in comune, e il rischio è frantumare le comunità, invece di aiutarle. Ancora un’ultima decisiva precisazione: l’accompagnamento psicologico non dovrebbe essere considerato un lusso, per cui chi manifesta il bisogno di un confronto esterno debba sentirsi in colpa per questo. Ma neppure l’ultima spiaggia, quando ormai non si può fare più nulla. Lo studio clinico non è lo spazio della buona morte. Piuttosto, proprio per la bellezza e la grandezza di questa vocazione straordinaria alla vita in comune, che non è per tutti – anche chi vuole diventare pilota di aereo si sottopone volentieri a test attitudinali di vario tipo –, la psicologia può costituire uno strumento prezioso per realizzarla sempre meglio. Un pilota, per diventare tale, deve seguire un lungo iter di valutazione, e poi, finché rimane in servizio, fa controlli periodici per la salute fisica e psichica. A maggior ragione ciò è valido per i processi vocazionali: è la sublimità della scelta, la particolarità delle sue caratteristiche, di altissimo valore ed impegno – povertà, castità, obbedienza, celibato, vita insieme/solitudine, missione – a motivare l’utilità dell’affiancamento della formazione umana.
Vita in comune

La moda dello psicologo

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Seguo le sue interessanti rubriche, ma ho un dubbio di fondo, spero non offensivo: da duemila anni la formazione vocazionale viene fatta attraverso “educatori e padri spirituali”, formati a loro volta in modo univoco sul vangelo e la tradizione della chiesa. Ora la tendenza ad affidare tutto agli psicologi (ognuno che fa riferimento a una diversa teoria, di questo o quel “maestro”) non rischia di insidiare l’unità e la credibilità della Chiesa? Un formatore


Accolgo volentieri questa interessante provocazione, per nulla offensiva. Lei ha ragione, la storia è come un pendolo per cui si assiste, spesso, a mode che oscillano ora in una direzione, ora in quella opposta. Qui, però, si tratta di ben altro: la psicologia, in quanto scienza, non fa riferimento a un maestro”, né al trend del momento. Il suo intento, infatti, non è quello di condurre a sé, né di proporre il pensiero di un singolo, ma di aiutare l’essere umano a raggiungere un miglior grado di benessere, a fare ordine nella propria storia, a guardare il futuro con speranza e realismo, a rafforzare le proprie potenzialità e ridurre le fragilità, ad affrontare in maniera costruttiva le situazioni difficili, a comprendere il perché di alcune condizioni emotive… Nell’ambito dei processi vocazionali la collaborazione con gli psicologi deve, però, necessariamente rispettare alcune condizioni. Toccherò due grandi temi, strettamente legati, il primo lo affronto subito, il secondo nel prossimo numero: a) serve la psicologia? b) “quale” psicologo? (a proposito della tradizione della Chiesa). L’eccesso di intervento psicologico, come può immaginare, non mi trova d’accordo. Gli argomenti sono vasti, per cui cercherò di essere sintetica. La prima considerazione, molto empirica, viene dal constatare che le comunità religiose del passato non sono “migliori” di quelle attuali, anzi diversi anziani hanno uno sguardo assai lucido sulle gravi carenze che hanno caratterizzato la loro formazione, dove non sono mai state affrontate (o molto poco) alcune questioni nodali, nell’uomo come nella donna: affettività, relazioni, amicizia, sessualità. Le conseguenze di questo silenzio – tenendo conto che non c’è mai un rapporto diretto causa-effetto nei processi umani –, riguardano lo stile di vita fraterno non sempre ottimale, la scarsità di dialogo tra fratelli e sorelle e con i responsabili, la difficoltà a riconoscere in tempo una difficoltà affettiva, che a volte giunge sconcertando tutti. Aggiungo un’altra considerazione, frutto di lunghi e autorevoli studi commissionati dalla Conferenza Episcopale Americana sugli abusi da parte dei sacerdoti cattolici (Nature and Scope e Cause and Context), in un arco temporale che va dal 1950 al 2010: la generazione (sexual offenders) maggiormente coinvolta in atti di abuso ha ricevuto la sua formazione prima degli anni ’70. Cosa vuol dire? Non certo che il celibato sia all’origine delle devianze affettive, come i media hanno provato a far credere. Il picco maggiore di abusi, tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli ’80, non ha visto, infatti, alcuna variazione in merito alla scelta celibataria. Intendo dire che se il celibato è una costante rimasta invariata nella tradizione della Chiesa, certo non può essere questo aspetto “la causa” dell’aumento di abusi in un preciso arco temporale, e poi della sua ridiscesa (diminuzioni di abusi) a partire dal 1985 (vedi grafico). Bisogna evidentemente considerare altro. pedofilia Molto in sintesi si può concludere così: gli abusi sono diminuiti quando i programmi formativi (per i candidati al sacerdozio diocesano e di vita in comune) sono stati rinnovati con l’introduzione della formazione umana e non solo spirituale. La formazione spirituale da sola non è sufficiente. Se si offre l’una senza l’altra l’accompagnamento risulta parziale e inefficace. Si tratta di strumenti entrambi necessari, che si integrano pur mantenendo una propria autonomia. È chiaro che un’adeguata formazione umana è solo una pre-condizione per la riuscita vocazionale, tuttavia, essa ha un notevole peso nell’andamento equilibrato del processo “specifico” di adesione a Cristo. Concludendo: la scelta vocazionale non è una scelta privata e intimista, quindi la solidità affettiva è indispensabile: c’è una responsabilità sociale di cui occorre tener conto. Talvolta le comunità e i seminari rischiano di dimenticare questo aspetto. Oggi, però, chi accompagna spiritualmente i processi maturativi sa che la persona ha bisogno di entrambi gli strumenti: formazione umana e spirituale. In una società complessa come la nostra, dove i ragazzi iniziano un percorso vocazionale avendo già fatto innumerevoli esperienze, anche in Rete, è quanto mai necessario che siano affiancati da persone competenti, che possano aiutarli a rileggere o integrare le vicende vissute. Più in generale, ho potuto constatare come in alcune fasce di età, quando l’uomo e la donna vanno incontro a cambiamenti psicofisici – ad esempio intorno ai 45/50 anni, e successivamente dopo i 60 –, sia particolarmente utile rivolgersi a una persona esterna al proprio ambito di vita, per affrontare il periodo che si sta attraversando.  
Vita in comune

La vocazione: un viaggio

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Mi è piaciuta l’immagine del progetto di Dio come di un progetto plastico, ma vorrei che si spiegasse meglio, in quanto questo potrebbe essere frainteso nel senso di “liquido”, come è proprio del nostro tempo. Mi piacerebbe che lei approfondisse il significato di plasticità. Un formatore


In effetti, come Lei, in diversi mi hanno chiesto un approfondimento. Parlare oggi di liquidità, lo sappiamo bene, significa riferirsi alla mutevolezza incondizionata per cui tutto sembra soggetto a cambiamento, anche da un giorno all’altro. La plasticità invece ha tutt’altra valenza. Parlare del progetto di Dio come di un progetto plastico significa che esso è come un kit da viaggio che contiene gli strumenti necessari per affrontarlo, ma senza istruzioni dettagliate su come sarà il viaggio stesso, fatto di strade, percorsi in salita, in discesa, di giornate soleggiate e piovose. Credo che la vocazione sia la scoperta graduale della strada che porta al raggiungimento della meta: in termini di fede è l’incontro con Dio, in termini psicologici è la condizione di benessere pieno, cioè la felicità. Sarebbe schiacciante per l’essere umano, che nel tempo cambia, evolve, scopre aspetti nuovi di sé, si lascia toccare da incontri significativi, pensare alla vocazione come qualcosa di definito, che si abbraccia in modo chiaro e irreversibile fin dall’inizio. So di camminare su un crinale rischioso con questo discorso, per i possibili fraintendimenti. Un mio docente era solito ripetere che l’individuo nasce con organi sessuali “precoci” cioè già attivi e operativi a partire dalla pubertà, ma con un “ritardo” rispetto alla maturità psicologica. La maturità umana non va di pari passo con lo sviluppo sessuale e la capacità generativa. Aggiungeva che le scelte di vita, idealmente, avrebbero una migliore garanzia di tenuta addirittura dopo i 30-35 anni. Il che, però, è incompatibile con la durata complessiva dell’esistenza media dell’essere umano. In altre parole: la sola età cronologica non è sinonimo di capacità di compiere scelte esistenziali. D’altro canto, le scelte fatte con l’entusiasmo giovanile hanno comunque la possibilità di essere riconfermate e consolidate negli anni. È solo attraverso il tempo (attraverso tutti gli anni della nostra vita) che il progetto di Dio, cioè la nostra felicità, si va rivelando. Il discernimento è proprio l’essere aiutati, attraverso il confronto con un terzo (un accompagnatore spirituale e/o uno psicologo), a rileggere e interpretare gli avvenimenti quotidiani per comprenderne il significato. La Chiesa stessa riconosce che il percorso vocazionale che conduce a una scelta definitiva si snoda o si dovrebbe snodare per oltre un decennio – peccato che lo stesso non avvenga per le coppie che si preparano al matrimonio! –, proprio perché non sempre gli anni canonici, ad esempio il noviziato, pur con tutta la buona volontà, sono sufficienti perché la persona comprenda se quella è effettivamente la strada per lei. Quante scoperte fa chi intraprende un cammino vocazionale, riguardo a se stesso, alla propria storia familiare, al modo di stare in relazione, stupendosi della progressiva conoscenza personale! Nella vita possono sempre intervenire eventi importanti, un lutto, una nascita, un nuovo lavoro, la perdita del lavoro… per cui è chiaro che il progetto abbozzato deve essere rimodellato, il che è ben diverso dal far saltare ogni coordinata inventando giorno per giorno cosa si vuol essere e diventare. Senza un’autentica capacità di lettura giornaliera di quanto ci succede, si rimane bloccati in un’idea astratta, teorica che, non essendo capace di adattarsi alle circostanze di vita, rende la persona infelice. Punti di riferimento ce ne vogliono, i valori evangelici, ad esempio, lo sono. Ma è bello (non inquietante, né liquido), camminare e lasciarsi aiutare a scoprire in quale strada si può essere felici.
Vita in comune

Meglio aprirsi o proteggersi dal giudizio dei fratelli?

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Siamo una piccola fraternità sacerdotale. Mi piacerebbe riuscire a condividere di più tra di noi, ma ritengo che il tema della “fiducia” sia ancora molto critico. Questo è uno dei motivi che mi blocca nel chiedere un percorso di accompagnamento: temerei un giudizio ridicolizzante. Può dirmi qualcosa su questo argomento?


Mi stimola molto la sua domanda. Ha ragione: in famiglia, nei seminari e nelle realtà comunitarie quello della fiducia è un argomento particolarmente sentito e discusso, proprio perché non è per nulla scontato riuscire a fidarsi gli uni degli altri. Il timore è quello che quanto più ci si apra tanto più si diventi vulnerabili e questo è senza dubbio vero. C.S. Lewis, autore de Le Cronache di Narnia, scriveva che «qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno ad un animale. […] Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi, […] diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile» (da: I quattro amori). Voler bene agli altri, scommettere sulla vita insieme, è in un certo senso un rischio, perché si può rimanere feriti dalla sensibilità diversa dell’altro, dalla sua imprudenza, dalla possibilità che non riesca a cogliere esattamente il nostro mondo interiore e ci faccia del male. E viceversa. Credo che sull’aspetto della fiducia abbia pesato parecchio uno stile gerarchico e di impronta militaresca che ha caratterizzato in passato le realtà vocazionali, dove, lo dico in modo semplicistico, c’era una sola mente pensante e tanti “sottoposti” all’autorità. Si è dato poco spazio alle relazioni tra pari, che sono andate avanti per anni senza mai sperimentare il dialogo, il confronto, l’amicizia, tutti aspetti guardati con sospetto, quasi al limite di inevitabili derive immorali. L’obbedienza verticale, certamente un valore apprezzabile con un profondo significato di fede, è stata la dimensione prevalente, quando non esclusiva, della formazione alla vita sacerdotale e in comune. Oggi si sta scoprendo la necessità vitale che gli ambienti vocazionali siano ambienti adulti, dove innanzitutto ci sia la giusta prudenza da parte di superiori e formatori: infatti una condivisione globale e incondizionata dell’esperienza di ognuno con tutti, non è necessaria e neppure sana per vivere insieme. Servono invece rapporti fraterni, non solo funzionali al lavoro, frettolosi, e formali, ma di conoscenza reciproca, di amicizia dove sia possibile, di condivisione degli obiettivi apostolici, come anche di momenti di svago. In ambienti simili la fiducia interpersonale cresce spontaneamente. Le racconto un’esperienza recente: mi sono accorta che giovani provenienti dalla stessa comunità si raccontavano l’un l’altro l’esperienza durante un percorso terapeutico (con lo psicologo). Io stessa sono rimasta positivamente stupita dalla semplicità e freschezza del loro raccontarsi, un bel modo per sostenersi e non sentirsi soli. Un ambiente attento, che cerca di curare la familiarità del vivere insieme, favorisce in modo naturale la fiducia reciproca. Questi giovani dimostrano che fidarsi è possibile. E i più adulti, meno abituati a una simile apertura, possono apprendere da loro la bellezza di avere fratelli/sorelle, piuttosto che “nemici” (mi passi l’espressione forte). Aggiungo, anzi, che è un’esperienza vitale nell’essere umano, senza la quale si diventa sospettosi, freddi, ostili, insomma si vive male. Sono importanti però le condizioni ambientali alle quali ho fatto cenno prima, altrimenti raccontarsi e condividere diventa un’esaltazione emotiva superficiale e perfino dannosa per il vivere insieme. Se avesse voglia di approfondirli, ho ripreso questi argomenti in un libro di recente uscita Per sempre o finché dura. Processi psicologici del cammino sacerdotale e di vita in comune.
Vita in comune

Il progetto di Dio e la nostra storia

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Le scrivo di getto dopo avere letto la sua risposta Quando la comunità delude, che mi ha molto toccata per l’argomento dell’autenticità vocazionale. Premetto che non sono una consacrata, solo una persona ancora in cammino, alla ricerca della mia vera “vocazione”, nonostante sia sposata da 15 anni e mamma di due bambine. Ho sempre pensato che la vocazione fosse il luogo dove incontriamo Dio con la parte più profonda di noi stessi, dove c’è “assonanza" tra chi sono io veramente e ciò che Lui vuole fare di me […]. Da qualche anno però, la nostra situazione familiare è cambiata. Mio marito ha accettato un posto di lavoro all’estero, anche se io non ero d’accordo; dopo poco, per tenere insieme la famiglia, mi sono trasferita anche io con le figlie, pensando che questa fosse una soluzione temporanea […] Però la sola vita “familiare” non mi basta… sono quindi una mamma disinteressata? Una moglie poco dedita a mio marito? […] poiché metto sempre in discussione me stessa e non mi fido di ciò che provo o desidero, mi chiedo se non ho completamente sbagliato strada, e se non ho ancora capito niente di me stessa e del progetto di Dio su di me. Quindi ogni giorno, come credente tuttora “in cammino”, prego chiedendo: […] “Quale è il Tuo disegno sulla mia vita, qual è il mio posto nel mondo?”. Qual è la mia vocazione, dov’è il luogo intimo dove posso incontrare Dio e sentirmi pienamente realizzata? Una moglie e mamma


Grazie di cuore per la profondità e il calore con cui condivide i suoi interrogativi, ai quali mi accosto con grande rispetto; solo per ragioni di spazio ho dovuto abbreviarli. Più che una risposta esaustiva le mie sono riflessioni. Bella l’immagine della vocazione come assonanza: sì, la chiamata di Dio coincide con ciò che io sono e che mi rende migliore, più felice, pienamente me stessa. Talvolta si usano strane immagini per rappresentare la vocazione, come fosse un progetto esterno che “devo accettare”, scollato da ciò che desidero, e al quale mi affanno a corrispondere. Non credo sia così. Dio parla attraverso il desiderio. Arriva però la parte più impegnativa: come tradurre questo desiderio nel concreto della vita, soprattutto quando, come nel suo caso, ci si trova di fronte a dei bivi, oppure, dopo aver fatto una scelta (sposarsi e avere figli), cambiano alcune coordinate importanti, ad esempio il partner affronta un cambio di lavoro stravolgente per la famiglia? Che fare? Rimpiangere il tempo in cui le scelte erano ancora aperte? No. Questo non aiuta per niente. Cancellare la storia scritta fino a questo momento come fosse tutta un grande errore? Impossibile. Nel suo caso i figli sono il segno tangibile che Dio è passato attraverso la sua vita e l’ha benedetta. È possibile, però, che la sua esistenza, così come si presenta ora, non sia più soddisfacente e la faccia sentire “allo stretto”. Con sano realismo, che vuol dire dare ascolto anche a queste emozioni “meno brillanti” di malessere – lei usa l’espressione fidarsi di – si possono cercare, all’interno della vocazione primaria (moglie e mamma), nuove modalità che restituiscano senso di pienezza, di appartenenza, di essere utile (lei fa cenno a queste dimensioni). Direi quasi che è un dovere prendere sul serio questi bisogni, tutt’altro che “colpevoli”. Reinventarsi. Il progetto di Dio è plastico, non rigido (non sia mai), si va rimodellando attraverso il tempo e i cambiamenti della nostra vita. C’è infatti una storia della salvezza, non un momento singolo. Una storia a due, dove Dio non si limita a “tollerare” i nostri sbagli, ma modifica il suo progetto su di noi, tenendo conto delle nostre vicende a volte contorte. Credo, quindi, che la vocazione personale vada riscoperta proprio attraverso le nuove variabili che sopraggiungono e le emozioni che suscitano, segnali di come muovere il prossimo passo. Incontro ogni giorno uomini e donne di diverse età che credono di essere intrappolati in una vita che non sentono propria e, incapaci di reagire, si lasciano sommergere dalla tristezza e dal rimpianto, rimanendo immobili. Bloccati dalla paura di non avere altre chance. Mi creda, c’è sempre un’altra possibilità. È vitale, però, confrontarsi, non restare da soli in questi punti di guado. Le suggerisco di trovare qualcuno che condivida i suoi valori, con cui avere un confronto serio, coraggioso, personale e autentico, senza fretta. Lei, comunque, mi sembra già in questa positiva disponibilità.
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