L'esperto risponde / Chiesa cattolica

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita consacrata

Fraternità, non collegi

Ho partecipato con interesse, e devo ammettere anche con curiosità alla Zoom dedicato ai percorsi vocazionali “Parliamoci chiaro”. Mi è piaciuto essere tra persone che condividono le stesse aspirazioni, le stesse battaglie, un quotidiano simile, mi sembra che in questo contesto potremmo essere veramente liberi di confrontarci apertamente. Rimango però stupita che non si tocchino questioni secondo me molto diffuse, quelle che i nostri ambienti, con le età più diverse, funzionano ancora come a scuola: maestra e studenti. Eppure non siamo in formazione. Potrà mai cambiare questa mentalità nelle realtà femminili? Una consacrata

Sono un giovane in cammino verso il sacerdozio, già da qualche anno nella vita religiosa. Non ho una crisi vocazionale, anzi sono stato appena ammesso all’ultima tappa di formazione e ne sono orgoglioso. C’è però di che scoraggiarsi nei nostri ambienti talvolta. Dinamiche infantili di gelosie e competizioni, non sembrano realtà di fede. Come possiamo far crescere i nostri ambienti? Avremo modo di toccare anche la parte “sporca” della nostra vita?

 

© Marco Merlini / LaPresse 15-02-2008 Roma Politica

Grazie davvero del vostro riscontro molto affine. Franco e onesto. Solo per ragioni di spazio ho dovuto abbreviare le due riflessioni, ma la sostanza mi pare sia molto chiara.

Ne parleremo, sì, all’interno delle serate dedicate ai percorsi vocazionali e alle dinamiche di vita fraterna. Ma quello che dite mi sembra particolarmente importante e qualche considerazione la condivido fin d’ora.

Si può riconoscere, in effetti, che il mondo comunitario femminile, in particolare, abbia, sul piano dell’autonomia, delle fragilità marcate. Direi che però la questione non riguarda solo le donne, come il giovane ci fa notare. Il vecchio retaggio di obbedienza, intesa come adesione quasi incondizionata e cieca alle indicazioni dei superiori e la comprensione dell’unità carismatica come un’unica mente e un’unica coscienza (sempre quella del superiore) pesano ancora sull’andamento della vita consacrata maschile e femminile (in quest’ultima in modo più pesante). Parlo a grandi linee, e quindi è chiaro che la mia prospettiva rimane poco rispettosa delle specificità, e di quelle realtà, invece, vivaci e adulte. Qualche approfondimento in più lo riserviamo proprio allo spazio un po’ più ampio degli incontri serali.

Tuttavia è innegabile che oggi un tema centrale nel ripensamento della formazione e del vivere insieme, sia la necessità di aiutare i percorsi vocazionali a tirar fuori uomini e donne capaci di stare in piedi sulle proprie gambe, di assumersi responsabilità e progettualità, di avere menti pensanti, e non scolaresche o giardini d’infanzia. Il più volte citato Manuale Diagnostico di ultima generazione, nella nostra rubrica, il DSM-5, prevede, infatti, tra gli aspetti relativi alla maturità – che il testo chiama funzionamento di personalità sano o adattivo – quello dell’utilizzo di standard interni di comportamento costruttivi e prosociali.

Peccato che questo attributo molto significativo dell’identità personale non sia incluso esplicitamente nelle tappe formative da verificare nei candidati, e direi neppure nella formazione dei formatori.

Perché, per essere onesti, la necessità dell’aspetto costruttivo e prosociale deve essere chiaro anche in chi affianca la formazione e in chi ha ruoli di leadership, in quanto il punto cruciale è proprio nell’errata comprensione di tali dimensioni. Favorire processi di autonomia non vuol dire, infatti, creare menti ribelli e realtà centrifughe, dove ciascuno è proiettato altrove o solo sui propri bisogni. O quanto meno non dovrebbe essere questo il senso dell’autonomia adulta.

Sempre per riprendere il Manuale, viene richiesto un atteggiamento costruttivo, ma appunto anche prosociale. Viene chiesta una stabilità di stima personale, ma anche la comprensione e la valorizzazione delle esperienze altrui… Intendo dire che la persona sana, equilibrata, che sta nel posto giusto, sa assumersi la bellezza e l’onere della propria vocazione, quindi ha una propria coscienza, e insieme sa guardare oltre se stessa, essendo in grado di vivere anche la dimensione interpersonale senza conflittualità eccessive, senza esclusioni o selezioni rigide.

Gli ambienti formativi e di vita comunitaria, seminari e case religiose, dovrebbero senz’altro tenere conto di questo duplice livello e del duplice impegno: a) la persona va aiutata a crescere perché diventi capace di conoscere se stessa, di avere idee proprie e libere, cioè non dipendenti o schiacciate su quelle altrui, (“chiari confini tra sé e gli altri”, direbbe il nostro Testo), e poi va sostenuta perché sviluppi empatia e relazioni disinteressate. b) formatori e superiori devono acquisire strumenti personali per vivere la “genitorialità” (espressione tanto usata) in modo sano e veramente a servizio della persona: quale genitore vorrebbe un figlio che non è in grado di prendere decisioni e di diventare interiormente libero?

Cosa se ne fa la vita religiosa e sacerdotale di persone mai cresciute? Semplicemente adesive, passive e fidelizzate a questo o quel superiore. L’apparente docilità di alcuni soggetti, in realtà spesso non è stabile, anzi facilmente le persone non-autonome cambiano “capo” non appena ne trovino uno più consenziente o più attento a loro!

Concretamente questo si traduce nella possibilità che andrebbe lasciata fin dalla formazione di proporre iniziative, di portare avanti degli impegni in modo creativo con margini di autonomia (e inevitabilmente di errore), senza livellare le diverse sensibilità su una sola, quella del superiore/della superiora.

D’altra parte, è pur vero che raccolgo espressioni di fatica in chi è responsabile di formazione, di comunità o di diocesi, perché a fronte di tanto parlare di autonomia il giovane, la giovane, per età o percorso, non è così proattivo rispetto alla propria vocazione e l’atteggiamento è piuttosto passivo e di attesa che sia sempre l’altro ad assumersi gli oneri di un’attività, o semplicemente di un progetto.

Allora, in questo senso, è fondamentale che la capacità personale di mettersi in gioco, di sviluppare un’appartenenza – che non vuol dire adesione fideistica e a “mente spenta” rispetto ad un carisma e quindi ad un cammino – sia un requisito presente nella valutazione di una vocazione, ma anche nella formazione dei formatori e superiori.

Fanno comodo persone che non obiettano mai nulla, che non fanno rumore, che aderiscono e basta, ma nel tempo sono le stesse persone che andranno in pre-pensionamento rispetto agli impegni comunitari o pastorali.

Concludo riprendendo le due osservazioni iniziali: è urgente che gli ambienti di formazione e di vita insieme, comunità religiose o case di sacerdoti, siano famiglie nel senso più sano del termine. Nessuno rimane dipendente a vita da un altro, a meno di dinamiche patologiche.

Saper coniugare la crescita adulta dei membri di un gruppo, con il senso fraterno, libera gli ambienti vocazionali da quell’aria “scolastica” o dall’essere solo luoghi di passaggio che talvolta può inquinarli.

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Vita in comune

Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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