Grazie davvero del vostro riscontro molto affine. Franco e onesto. Solo per ragioni di spazio ho dovuto abbreviare le due riflessioni, ma la sostanza mi pare sia molto chiara.
Ne parleremo, sì, all’interno delle serate dedicate ai percorsi vocazionali e alle dinamiche di vita fraterna. Ma quello che dite mi sembra particolarmente importante e qualche considerazione la condivido fin d’ora.
Si può riconoscere, in effetti, che il mondo comunitario femminile, in particolare, abbia, sul piano dell’autonomia, delle fragilità marcate. Direi che però la questione non riguarda solo le donne, come il giovane ci fa notare. Il vecchio retaggio di obbedienza, intesa come adesione quasi incondizionata e cieca alle indicazioni dei superiori e la comprensione dell’unità carismatica come un’unica mente e un’unica coscienza (sempre quella del superiore) pesano ancora sull’andamento della vita consacrata maschile e femminile (in quest’ultima in modo più pesante). Parlo a grandi linee, e quindi è chiaro che la mia prospettiva rimane poco rispettosa delle specificità, e di quelle realtà, invece, vivaci e adulte. Qualche approfondimento in più lo riserviamo proprio allo spazio un po’ più ampio degli incontri serali.
Tuttavia è innegabile che oggi un tema centrale nel ripensamento della formazione e del vivere insieme, sia la necessità di aiutare i percorsi vocazionali a tirar fuori uomini e donne capaci di stare in piedi sulle proprie gambe, di assumersi responsabilità e progettualità, di avere menti pensanti, e non scolaresche o giardini d’infanzia. Il più volte citato Manuale Diagnostico di ultima generazione, nella nostra rubrica, il DSM-5, prevede, infatti, tra gli aspetti relativi alla maturità – che il testo chiama funzionamento di personalità sano o adattivo – quello dell’utilizzo di standard interni di comportamento costruttivi e prosociali.
Peccato che questo attributo molto significativo dell’identità personale non sia incluso esplicitamente nelle tappe formative da verificare nei candidati, e direi neppure nella formazione dei formatori.
Perché, per essere onesti, la necessità dell’aspetto costruttivo e prosociale deve essere chiaro anche in chi affianca la formazione e in chi ha ruoli di leadership, in quanto il punto cruciale è proprio nell’errata comprensione di tali dimensioni. Favorire processi di autonomia non vuol dire, infatti, creare menti ribelli e realtà centrifughe, dove ciascuno è proiettato altrove o solo sui propri bisogni. O quanto meno non dovrebbe essere questo il senso dell’autonomia adulta.
Sempre per riprendere il Manuale, viene richiesto un atteggiamento costruttivo, ma appunto anche prosociale. Viene chiesta una stabilità di stima personale, ma anche la comprensione e la valorizzazione delle esperienze altrui… Intendo dire che la persona sana, equilibrata, che sta nel posto giusto, sa assumersi la bellezza e l’onere della propria vocazione, quindi ha una propria coscienza, e insieme sa guardare oltre se stessa, essendo in grado di vivere anche la dimensione interpersonale senza conflittualità eccessive, senza esclusioni o selezioni rigide.
Gli ambienti formativi e di vita comunitaria, seminari e case religiose, dovrebbero senz’altro tenere conto di questo duplice livello e del duplice impegno: a) la persona va aiutata a crescere perché diventi capace di conoscere se stessa, di avere idee proprie e libere, cioè non dipendenti o schiacciate su quelle altrui, (“chiari confini tra sé e gli altri”, direbbe il nostro Testo), e poi va sostenuta perché sviluppi empatia e relazioni disinteressate. b) formatori e superiori devono acquisire strumenti personali per vivere la “genitorialità” (espressione tanto usata) in modo sano e veramente a servizio della persona: quale genitore vorrebbe un figlio che non è in grado di prendere decisioni e di diventare interiormente libero?
Cosa se ne fa la vita religiosa e sacerdotale di persone mai cresciute? Semplicemente adesive, passive e fidelizzate a questo o quel superiore. L’apparente docilità di alcuni soggetti, in realtà spesso non è stabile, anzi facilmente le persone non-autonome cambiano “capo” non appena ne trovino uno più consenziente o più attento a loro!
Concretamente questo si traduce nella possibilità che andrebbe lasciata fin dalla formazione di proporre iniziative, di portare avanti degli impegni in modo creativo con margini di autonomia (e inevitabilmente di errore), senza livellare le diverse sensibilità su una sola, quella del superiore/della superiora.
D’altra parte, è pur vero che raccolgo espressioni di fatica in chi è responsabile di formazione, di comunità o di diocesi, perché a fronte di tanto parlare di autonomia il giovane, la giovane, per età o percorso, non è così proattivo rispetto alla propria vocazione e l’atteggiamento è piuttosto passivo e di attesa che sia sempre l’altro ad assumersi gli oneri di un’attività, o semplicemente di un progetto.
Allora, in questo senso, è fondamentale che la capacità personale di mettersi in gioco, di sviluppare un’appartenenza – che non vuol dire adesione fideistica e a “mente spenta” rispetto ad un carisma e quindi ad un cammino – sia un requisito presente nella valutazione di una vocazione, ma anche nella formazione dei formatori e superiori.
Fanno comodo persone che non obiettano mai nulla, che non fanno rumore, che aderiscono e basta, ma nel tempo sono le stesse persone che andranno in pre-pensionamento rispetto agli impegni comunitari o pastorali.
Concludo riprendendo le due osservazioni iniziali: è urgente che gli ambienti di formazione e di vita insieme, comunità religiose o case di sacerdoti, siano famiglie nel senso più sano del termine. Nessuno rimane dipendente a vita da un altro, a meno di dinamiche patologiche.
Saper coniugare la crescita adulta dei membri di un gruppo, con il senso fraterno, libera gli ambienti vocazionali da quell’aria “scolastica” o dall’essere solo luoghi di passaggio che talvolta può inquinarli.