Mi ha rattristato sentire in Tv che i coralli stanno morendo. Possibile che non si possa fare qualcosa?
Corsa contro il tempo per salvare i coralli
«Coprono meno dell’uno per cento dei fondi oceanici – scrive il National Geographic – ma ospitano più di un quarto di tutte le forme di vita marina». Le barriere coralline sono un mondo complesso costituito prevalentemente da polipi che appartengono al phylum dei celenterati, in particolare alla classe degli Antozoa. La loro salute, però, è in serio pericolo. «Un rapporto dello United Nations Environmental Program – informa Elisabeth Svoboda su Le Scienze – stima che, a causa innanzitutto del riscaldamento degli oceani, entro il 2034 gran parte delle barriere coralline in tutto il pianeta subirà uno sbiancamento grave ogni anno, e in mancanza di intervento scomparirà completamente entro il 2100».
Il male endemico si chiama sbiancamento. La Grande barriera corallina dell’Australia, la più grande del mondo, costituita da circa 3 mila sistemi di barriere, patrimonio dell’umanità dell’Unesco dal 1981, negli ultimi cinque anni è stata colpita ben tre volte dallo sbiancamento. Il fenomeno, osservato per la prima volta in Australia, nel 1982, dall’ecologo marino della Southern Cross University, Peter Harrison, divenne globale tra il 1997 e il 1998, uccidendo il 16 per cento dei coralli mondiali.
Lo sbiancamento è un’alterazione del processo simbiontico dei coralli, difficile da contrastare. Questi, infatti, ospitano alghe zooxantelle che, con la loro fotosintesi, forniscono ai coralli ossigeno, alimenti e rimuovono i rifiuti. Il meccanismo è molto delicato e dipende da alcune caratteristiche imprescindibili dell’ambiente marino. «La temperatura – spiega il biologo marino Alessandro Nicoletti che ha un’associazione di volontariato che si occupa, tra l’altro, di conservazione dei coralli – deve essere compresa tra i 20 e i 28 gradi, la salinità dell’acqua tra 32 e 45 parti per milione, la concentrazione di anidride carbonica deve essere bassa, le acque trasparenti e ben irradiate per consentire la fotosintesi, i moti ondosi frequenti ma non distruttivi».
Quello che sta accadendo, invece, è giusto l’opposto: l’anidride carbonica in atmosfera sta aumentando notevolmente e, conseguentemente, anche la temperatura e l’acidità degli oceani con un inevitabile mutamento delle condizioni ambientali. «Il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani provocati da livelli di anidride carbonica sempre più alti – osserva Elisabeth Svoboda –, ostacolano il processo di calcificazione, favorito dai microbi, che crea la struttura dei coralli, e rendono più difficile riparare i danni. Allo stesso tempo i polipi stressati restano senza una fonte di cibo perché espellono le proprie alghe symbiodinium (zooxantelle, ndr), che trasformano la luce solare nel loro nutrimento. Così i coralli assumono un tipico aspetto sbiancato». Per i biologi è un segno di fragilità e di debolezza di fronte alle malattie.
Il problema è di grande attualità e si cerca di correre ai ripari. «È importante – aggiunge Nicoletti – il monitoraggio, la ricerca e il restauro per salvaguardare le barriere coralline». In questa direzione è andato il progetto CREM (Coral reefscape ecology and mapping) della Commissione Europea che, utilizzando immagini ad alta risoluzione da satelliti e aerei, ha studiato la relazione tra la struttura delle barriere coralline e la loro comunità biologica. Tuttavia i risultati più incoraggianti si aspettano dalle tecniche di coltivazione.
«Per fortuna – conferma Jennifer Holland su National Geographic – nonostante siano animali, i coralli si possono coltivare proprio come le piante». Si raccolgono dei frammenti, si coltivano in laboratorio e gli individui più maturi si trapiantano. «Alcuni esperti nell’allevamento di questi invertebrati – aggiunge Jennifer Holland – hanno cercato di coltivare autentici mattoni del reef, i coralli massivi e i coralli cervello, veri giganti a crescita lenta che possono impiegare decine di anni per raggiungere la maturità riproduttiva».
Sono tecniche comunque lente e costose, per cui si cercano strade alternative e più veloci. Tra queste l’uso di probiotici, «una miscela di batteri – spiega Svoboda – progettata per stimolare la resilienza in condizioni difficili». Anche in questo caso non mancano le preoccupazioni. Per alcuni scienziati seminare batteri sulle barriere coralline potrebbe alterare l’ecosistema dell’oceano a un livello fondamentale. «Nessuno sa con precisione quali effetti avranno le terapie sulle forme di vita dell’oceano agli altri livelli della catena alimentare», scrive Svoboda. È una corsa contro il tempo e non è detto che la si vinca.