Sono un “giovane adulto” in cammino all’interno di una comunità religiosa; alcuni di noi scelgono anche il sacerdozio, altri rimangono fratelli laici. Sono già da diversi anni inserito in questo percorso, ed eccomi a mettere in discussione l’orientamento della mia vocazione. Sto valutando, cioè, con chi mi accompagna, la solidità del mio desiderio missionario che significherebbe cambiare espressione carismatica. Come può immaginare, non è facile. Non è facile neppure trovare chi possa prendere in considerazione questi dubbi quando ormai la formazione iniziale sta terminando e quindi si dà per scontato che quella persona porterà a termine la decisione in linea col cammino intrapreso. Scegliere una figura esterna all’ambiente non è ben visto. Sceglierla interna all’ambiente non mi dà sicurezza di essere seguito con cuore libero, per una sorta di “conflitto di interessi”. Sto banalizzando, ma spero di avere qualche indicazione in merito. Grazie per questo originale spazio-amico.
Dopo anni di insegnamento, come religiosa, vivo un desiderio fortissimo di dedicarmi alla missione. Mi è stato detto che i poveri sono intorno a me, che non occorre andare lontano…sì certo questo lo so, non sono fresca di vocazione. Quando scelsi la Congregazione dove sono ora, sinceramente non mi sono posta la domanda sul carisma specifico, erano le religiose conosciute ad ispirarmi, e non l’apostolato, solo conseguenza dell’ambiente a me caro. Sono stata molto bene fino ad oggi, non rinnego nulla e rifarei tutto, ma ora non sono più in pace. Sono ben seguita, per cui mi sento fortunata, e immagino con dolore il momento in cui dovrò prendere distanza dalle mie sorelle perché noi non abbiamo esperienze missionarie. In fondo però non è ancora camminare con Dio, come scriveva Etty Hillesum?
Molto delicato e complesso il tema sollecitato dal “giovane adulto” e dalla religiosa. Riflessioni provvidenzialmente molto simili, che sollevano il medesimo interrogativo. La mia prospettiva, lo ricordo, è da psicologa credente per cui mi muovo nello spazio delle scienze umane che mi competono, non entrando, invece, nel merito del “discernimento”. In altre parole, provo a condividere qualche pensiero che riguarda l’individuazione della propria strada di vita, tema a me caro, soprattutto quando questa venga ripensata rispetto alla decisione iniziale.
Fascino e insieme consapevolezza di quanta pacatezza e libertà interiore occorrano per accompagnare la valutazione ai primi passi e quella successiva di una scelta di vita.
In un interessante e gustoso articolo pubblicato di recente si esprime con chiarezza e garbo la “mitologia” che è proliferata attorno all’argomento del riconoscere la propria vocazione, quasi fosse un oggetto da riuscire a trovare decifrando le indicazioni poste e i rebus, come nella “caccia al tesoro”. Di tappa in tappa, di risoluzione in risoluzione, ecco la vocazione. Oppure, la vocazione rappresentata come una condizione sintomatologica da individuare (ce l’ho/non ce l’ho) con dei test specifici.
La vocazione, in quanto processo spirituale e umano-psicologico, ha una matrice relazionale ed è una dimensione in divenire. C’è un’intuizione vaga, più o meno intensa emotivamente, e c’è un percorso fatto di scoperte, comprensioni, nuove comprensioni, soste, pause, scatti di corsa in avanti, battute d’arresto. Tutto questo viene confrontato all’interno di un rapporto, Dio-persona-Chiesa.
Talvolta i formatori e le formatrici vivono come un fallimento o, peggio ancora, un cattivo investimento gli anni di studio e accompagnamento offerti, quando poi la persona si orienta altrove. È comprensibile, ma non possiamo sottovalutare la complessità e la scommessa vocazionale, che non è sotto l’assoluto controllo dell’individuo, e neppure quello dei formatori/formatrici e ancor meno dello psicologo. Il processo per comprendere la propria strada è lungo, e i tempi canonici che la Chiesa offre, sebbene orientino a non rendere infiniti gli itinerari formativi, in realtà non possono comprimere, né appiattire le storie individuali.
Di fatto, lo dico da una prospettiva esperienziale e clinica, è solo nel corso del tempo, quando la persona si trova concretamente in gioco, che ella può confermare la scelta intuita o decidere di indirizzarla secondo altre dimensioni carismatiche o vocazionali. Non è raro, infatti, che lui o lei entri in “crisi” quando si immerge nel contatto col reale fraterno o di apostolato, allora Marco conosce nuovi aspetti di sé che prima non erano venuti fuori e Francesca scopre risorse di se stessa che non aveva immaginato fino a quel momento. L’età in cui questo accade è variabile. Magari succedesse solo quando i tempi formativi lo consentono! Gli anni, le energie che cambiano, motivazioni che dopo il primo decennio scricchiolano, esperienze positive o fallimenti, portano la persona in un punto di se stessa che non aveva preventivato a tavolino, nonostante tutta la buona volontà e la buona formazione. È del tutto naturale.
Ma che fare quando l’incontro con la realtà profonda di sé avviene dopo il tempo della formazione iniziale? Rischiare di non arrivare mai a prendere una decisione stabile? Mettere in conto che anche dopo una scelta definitiva ci possa essere un margine di dubbio? Non credo si debba porre così la questione. Ogni scelta esistenziale, che sia onestamente tale, è desiderata in modo stabile e duraturo, non certo col beneficio del dubbio.
Direi, però, che non si può pensare a una linearità di tappe, consequenziali e progressive, nell’accompagnamento personale. La storia della salvezza ci dice che c’è un itinerario, ma che le svolte sono all’ordine del giorno. La storia rimane la stessa, sebbene con mille eventi che la rimodulano. Dunque ci si impegna a dare il massimo di sé nell’oggi e con lo sguardo al domani, in modo fedele e coerente. Tuttavia non si possono scartare con leggerezza le nuove comprensioni che sopraggiungono. Queste devono pur trovare una collocazione nella vita della persona, e tale collocazione può condurla altrove rispetto al luogo di partenza.
Voglio precisare: non sto supportando una prospettiva che rende precari i “sì” detti per la vita. Cerco, piuttosto, accogliendo le domande da cui siamo partiti, di allargare lo sguardo oltre risposte binarie.
Se accompagnato e non lasciato all’emozione del momento – certo il tema è qui appena accennato – un riorientamento della rotta non credo che debba portare a cercare i colpevoli del cattivo discernimento. Almeno per quanto io riesca a comprendere.
In questo processo risulta fondamentale l’incontro con persone libere interiormente, di preghiera, e preparate nell’accompagnamento, dentro o fuori la propria realtà di vita. Sono, però, altrettanto fondamentali:
- l’apertura personale – ricordo che nella vocazione sono coinvolte persone adulte, fosse anche per l’età cronologica –;
- il tempo che la persona impiega per vagliare le criticità che vive;
- gli strumenti di cui si avvale in questo tratto della sua esistenza. Il confronto deve essere autentico e non di facciata, quando magari la decisione è già presa.
Concludo con uno spaccato reale. Un giovane inizia un itinerario in seminario. Dopo qualche anno si rende conto che c’è qualcosa che non lo fa stare bene, ma non riesce a comprendere chiaramente dove sia l’origine del malessere, nebuloso e indefinito. È proprio il suo vescovo ad aiutarlo a riorientare la strada verso un’esperienza monastica. Questo pastore non teme di perdere forza lavoro, cosa che peraltro sarebbe un cruccio condivisibile di questi tempi. Non tronca le perplessità del giovane, prende sul serio quel malessere ancora indecifrabile e gli offre un’alternativa. Non è detto che Fabio (nome di fantasia ndr) procederà nella nuova via, però l’esempio mi sembra renda bene la processualità vocazionale e che nella Chiesa ci sono figure di autorità dallo sguardo ampio e lungimirante, libere dalle smanie di possesso.
Star bene nella propria vita e nella propria vocazione è davvero importante. Facilitarlo per noi e per chi affianchiamo è rendere un servizio all’essere umano, alla comunità, e alla Chiesa perché significa volere il bene del fratello e della sorella, e magari ridurre il numero degli scontenti che spesso appesantiscono l’aria delle nostre comunità di fede.