La pandemia ha reso più manifeste alcune fragilità in diversi di noi, fragilità che forse già esistevano ma che ora si rendono più evidenti. Come fare per imparare ad integrare nella nostra vita personale e nella vita comunitaria le debolezze proprie e altrui? Alle volte mi sembra che come comunità ci vediamo più nel dover essere, che nel guardare la realtà della persona, tenendo conto del suo percorso e dei processi che vive in un contesto in continuo cambiamento. Ci può dire come fare a contenere situazioni di malattia psichiatrica in una comunità? E badare anche alla salute delle persone che convivono con lei? Una consacrata, responsabile di comunità
Solo sani e performanti
Immagino che le sue considerazioni troveranno accoglienza ed eco in moltissime situazioni comunitarie e in moltissime situazioni di vita, anche familiari. Perciò grazie.
La domanda provocatoria che si potrebbe porre è se il vivere insieme, secondo le coordinate di un carisma, favorisca l’insorgere di disagi relazionali, affettivi, psichici. Ovviamente detta così, la risposta è “no”, non c’è un rapporto causa-effetto, ci mancherebbe. Tuttavia credo che l’argomento che lei introduce meriti delle riflessioni approfondite e meno spicciole di connessioni semplicistiche.
Vivere insieme tra sconosciuti non è roba facile, ce lo siamo detti tante volte. Dobbiamo partire, però, da remoto. A differenza di un passato non troppo lontano, oggi c’è una grande sensibilità nell’accompagnare chi chiede di entrare in comunità, maschile o femminile. I formatori vengono sempre più preparati al loro compito, i giovani sono sostenuti attraverso colloqui all’interno, studi, talvolta percorsi specialistici in collaborazione con professionisti di fiducia. In poche parole: è meno frequente che il percorso vocazionale vada avanti in automatico, e questo è davvero significativo. Rettori e formatori/formatrici sempre più spesso sanno cogliere segni di disagio nell’uomo o nella donna che è in formazione, ad esempio cambi frequenti di umore, scarsa collaborazione, elevata conflittualità o senso critico eccessivo, relazioni non aperte. Vedono che qualcosa non va e chiedono un confronto con la propria equipe, oppure con chi collabora con la comunità. Benissimo.
Tuttavia nel corso degli anni le sfide del vivere insieme e dell’apostolato possono incidere sull’equilibrio personale. Anche chi “sembrava” solido e con tante risorse può trovarsi per diverse circostanze di vita a consumare più energie di quante ne avesse a disposizione. Talvolta ha poco senso accusare uno scarso discernimento. Pensiamo, ad esempio, ad una missione che affronta Marco in cui riceve delle delusioni, ad un ambiente comunitario in cui Francesca viene inserita ma nel quale non riesce ad integrarsi, ad un incarico che Andrea assume, ma che non è adatto alle sue potenzialità. Le ragioni di un malessere non preventivato sono le più diverse, come lo sono le combinazioni degli eventi in un dato momento di vita. Può subentrare anche un lutto, una malattia fisica o psicologica che cambia profondamente l’assetto mentale di Carlo o di Marta. Ognuno di noi sfugge a delle previsioni perfette e lineari di come andrà la propria storia. E meno male.
Però non possiamo terminare qui.
Credo che nelle situazioni prospettate dalle considerazioni iniziali l’integrazione psico-spirituale, di cui tanto si parla, sia davvero necessaria e le domande ne fanno cenno.
La delineo molto sinteticamente per punti:
- Che la vita sia imprevedibile non vuol dire non impegnarsi il più possibile per rendere autentica la valutazione iniziale, accompagnando la persona nel suo processo di fede e risposta spirituale. E accompagnandola nel comprendere – con lei – se la strada intrapresa è quella in cui il meglio di sé verrà fuori, il cuore si espanderà al massimo e la generatività potrà attivarsi.
- Gli anni formativi dovrebbero seguire e valutare l’apertura progressiva della persona, quanto a consapevolezza di sé, al dialogo col formatore, al servizio fraterno.
- Anche la comunità ha una parte fondamentale: – e questo aspetto mi sta molto a cuore – come si ristruttura all’arrivo di una persona nuova, o quando si accorge di un cambiamento di un suo membro (malattia, anzianità, difficoltà…)? È in grado di ripensare se stessa per favorire al meglio quel fratello o sorella? La plasticità dell’ambiente comunitario – che non vuol dire liquidità o mettere in discussione i valori portanti, e neppure rincorrere le fantasie di ciascuno – è fondamentale. Il cammino iniziale e successivo è di entrambe le parti, la persona e il gruppo di appartenenza, e rimarrà sempre un cammino con almeno questi due interlocutori (con Dio). Si aprono, allora, scenari sempre nuovi. Se un fratello o sorella manifesta, ad esempio, un disagio psichico – e la pandemia ha amplificato effettivamente molte vulnerabilità individuali e di gruppo – la comunità circostante dovrà fermarsi a capire come far sì che lui o lei non diventi uno scarto, in quanto scomodo e disturbante. Nello stesso tempo dovrà attivare dei nuovi canali di autocomprensione e di un nuovo equilibrio da trovare per il bene di tutti. Purtroppo la situazione si complica quando la persona non riesce a prendere adeguato contatto con se stessa, e questo in genere ha radici non certo negli ultimi anni. Si invecchia come si cresce. E perfino si affronta una malattia secondo alcune coordinate in linea con la personalità: più o meno collaborativa e autoriflessiva tanto per indicarne una.
- La comunità è una realtà innanzitutto di fede, ma anche umana. Come Lei dice molto bene: al centro non c’è la produzione di servizi, ma un’esperienza di incontro con Dio e con l’altro, attraverso la preghiera, la vita comune, l’apostolato, il lavoro.
Pertanto – e concludo – nella coppia e nel vivere comunitario il partner, il fratello, la sorella, non ci lascia mai “tranquilli”. Viviamo ogni giorno la sfida dell’accogliere e del riadattarci all’altro non sempre sano e performante, che come noi cambia nel tempo.
Non è questo lo spazio per prospettare eventuali soluzioni concrete, ma qualche minimo suggerimento è la semplicità di parlare in casa del disagio che sopraggiunge più o meno inaspettato nel fratello o nella sorella. Può essere utile cambiare qualche abitudine comunitaria per contenere meglio il malessere, o forse un altro tipo di ambiente, magari meno grande e meno sfidante; magari può essere utile affidare un piccolo servizio a quel fratello/sorella.
Fondamentali sono la creatività di poter inventare spazi e modalità nuovi per vivere insieme al meglio, e chiedere aiuto, anche all’esterno, quando da soli, in coppia o in comunità, non ce la facciamo.
Solo insieme si possono affrontare stati di vita problematici, che comprendo anche per esperienza professionale, sono una grande palestra di pazienza, sofferenza e di crescita personale e interrelazionale.