Sono un formatore e mi confronto spesso con altri che hanno un ruolo di accompagnamento, sia uomini che donne. Ci scambiamo esperienze, parliamo di alcuni giovani (non necessariamente per età) che arrivano nelle nostre realtà vocazionali e l’interrogativo forte riguarda l’aiuto che possiamo dare loro. La responsabilità è grande: siamo chiamati a camminare e capire insieme se si trovano nel posto giusto. E chi può dirlo? A volte non ci troviamo neppure d’accordo come equipe formativa, per cui rimane il grosso dilemma di mandare avanti o meno una persona su cui non concordiamo.
Ma la domanda si pone anche di fronte a fratelli e sorelle già da anni nel ministero o in comunità che mettono in discussione la loro vocazione… come aiutarli, e semmai come rendere più certa possibile una valutazione?
Quali indicatori ci possono segnalare che ci sono buone possibilità di riuscita vocazionale e quali invece il contrario? La domanda è molteplice e complicata, ma la pongo in accordo con altri formatori e formatrici che stanno insieme a me che scrivo.
Infatti, più che una domanda… è una domandona, ma è talmente interessante e coinvolgente che provo a esprimere qualche riflessione, assolutamente incompleta, lo dico subito. Lo stesso interrogativo mi viene posto da parte di chi è in formazione e affronta un oceano di stimoli, paure, desideri. Perciò grazie di questa opportunità.
Nel mio lavoro clinico incontro storie incredibili: coppie che vivono un’esperienza talmente fallimentare da far loro credere che non si riprenderanno più. Uomini e donne che, dopo anni di sofferenza, incontrano finalmente la persona “giusta” e tornano a farmi conoscere chi ha cambiato le loro vite e restituito speranza. Affianco vocazioni che attraversano momenti durissimi, sacerdoti e consacrati felici, giovani e meno giovani che ad un certo momento del loro percorso chiedono una pausa per ripensarlo, perché sperimentano angoscia e intuiscono che qualcosa non va…
Tutto ciò è straordinario, mai nulla di banale e mai due storie identiche. Straordinaria è la complessità dell’esistenza umana, e straordinaria è la fantasia di Dio che non smette di sorprendere chi pensa che le cose siano già tutte disegnate con precisione geometrica.
Confesso che all’inizio della mia professione ero tra quanti dividevano il mondo e le situazioni in bianco e nero, senza sfumature intermedie. Poi la vita. Ho incontrato volti e nomi (compresa me stessa), e la teoria si è inginocchiata alla pratica, alla realtà di vissuti che escono dai libri e narrano situazioni molto più colorate di ciò che si legge come «il caso X».
Mi perdoni questa ampia premessa, ma è lo sfondo su cui pongo i pensieri successivi.
Sono profondamente convinta, e lo ripeto spesso, che una «vocazione» per essere tale, cioè per essere in sintonia con quelle dimensioni trascendenti che riteniamo importanti – la famosa «volontà di Dio», espressione nella quale però proprio non mi ritrovo – debba espandere la persona. L’intuizione iniziale rispetto ad un percorso di vita, seminario, comunità, fidanzato/a, non potrebbe essere vagliata altrimenti che osservando la crescita, l’evoluzione di Francesca, di Marco, di Matteo.
Non entro nella dimensione spirituale, perché pur essendo credente non è la mia competenza, tuttavia anche dal punto di vista umano-psicologico qualcosa si può dire. Prendiamo l’esempio di Francesca: dopo alcuni anni di vita fraterna la rigidità iniziale che la caratterizzava e per la quale le sue sorelle scherzavano volentieri, inizia un allentamento. Lei che andava presa con le pinze perché «non si sa mai come reagisce», lei che «guai a cambiarle il programma della giornata», sembra essere più disponibile.
Capiamoci: non intendo «più servizievole» nel senso dell’efficientismo tipicamente religioso – si dà un gran da fare – ma nel senso di una maggiore apertura alla vita, ai suoi imprevisti, un’attenzione meno egocentrica che inizia a spostarsi sugli altri, una flessibilità di orizzonti. La vocazione, direi, inizia allora a delinearsi nella direzione giusta.
È vero che la vocazione è molto di più di questo, ma tutte le dimensioni precedenti non possono essere bypassate in nome di un astratto progetto di Dio. La pienezza umana fa saltare di gioia il Dio cristiano.
C’è molto altro, però. La dimensione individuale non è a sé, e non è osservabile in modo isolato, in quanto interpella e coinvolge anche il contesto in cui si inserisce. Bisogna dirselo con coraggio e lucidità. Talvolta un desiderio vocazionale autentico, purtroppo, non trova un ambiente fecondo, ma stantio, fermo, poco propulsivo, non accogliente la novità di una persona creativa. E per aggiungere complessità, anche il nostro tempo non aiuta granché, pensiamo, ad esempio, alla vita di un sacerdote, carico di ruoli e responsabilità e quasi sempre solo. Accade, allora, che pur con le migliori intenzioni interne, la stabilità affettiva inizi a vacillare.
Voglio dire che «la vocazione» è una realtà piena di sfaccettature che non può essere risolta con «hai vocazione/non ce l’hai». La immagino, piuttosto, come un processo relazionale, che richiede tempo (appunto è un processo), immensa prudenza, autenticità in chi vuol capire quale è la propria strada di vita, libertà interiore in chi accompagna per non presumere di leggere «segni» in ogni dove, e di conoscere già la rotta per quella persona.
Di certo questi sono solo frammenti, magari potremmo riprendere ancora l’argomento.
Ciò che vorrei comunicare è però soprattutto la necessità che un «progetto» si incarni nella storia di ciascuno, e si consideri se quella persona migliora, matura, si consolida, si apre all’amore, è serena. Questa valutazione non avviene una volta per tutte, sebbene ci sia un tempo privilegiato per tale discernimento: è necessario confrontare se stessi sull’espansione di sé ciclicamente. So che può apparire liquida una prospettiva simile, lo comprendo! Ma di fatto persone infelici rendono infelice anche l’ambiente intorno. Cosa fare, allora? Non ho una risposta, e non ce l’ha nessuno, però forse possiamo darci dei criteri da tener presenti.
Credo che l’obiettivo sia, in un certo senso, dare una mano a Dio che vorrebbe ciascuno di noi ben realizzato, e non frustrato, ripiegato su di sé, aspro, e sempre inquieto. Chi accompagna un processo vocazionale, ai suoi primi passi o successivamente, dovrebbe perciò – insieme alla persona interessata – considerare la sua crescita e sostenere con lei e per lei il raggiungimento di un’armonia di vita, o il suo ritrovamento, qualora quel fratello o quella sorella l’abbia persa. Nessun canovaccio da seguire. Si chiude il manuale di istruzioni e si apre «quella» vicenda, con tutta la fatica, la complessità, ma anche la bellezza di un servizio davvero sublime, affiancare il cammino di chi cerca se stesso, e quindi Dio.