Siamo alcuni formatori e formatrici che si sono incontrati in una recente giornata di studio, e lavorando nei gruppi è emersa una problematica comune: come mediare tra le esigenze che realisticamente le nostre comunità, i nostri Istituti oggi hanno, e le esigenze e spesso le richieste dei singoli fratelli e sorelle? Il percorso comunitario può essere inadeguato al singolo, ma anche il percorso del singolo può diventare “scomodo” per ciò che invece si attende la comunità. Talvolta, per non dire spesso, si creano tensioni, si tira da una parte e dall’altra la questione, da cui divisioni e parteggiamenti. Capiamo che la cosa detta così è generica, ma ci sarebbe utile qualche pista percorribile per venir fuori o non cadere in queste “trappole” conflittive e divisive. Come fare?
Finestre o muri
Molto interessante la vostra sollecitazione, sia per le esperienze comunitarie che per quelle familiari. Al solito, non credo che la pista sia univoca e non solo perché non entriamo nello specifico concreto della situazione, come del resto la domanda nota, ma soprattutto perché vivere insieme pone interrogativi complessi, e complesse sono le vie che si aprono, a partire dall’evento singolo.
Forse potremmo provare a riflettere sui due aspetti che rimangono entrambi veri, significativi, e inscindibili nelle vocazioni relazionali. Mi piace parlare di vocazioni relazionali perché nessuna scelta di vita è per sé o si esprime solo individualmente. Questo significa che non si può prescindere dal sé, ma neppure dal dato fondamentale che essere coppia vuol dire vivere a-due, essere prete vuol dire vivere per la comunità che gli viene affidata, e per la realtà più grande che è la Chiesa, essere comunità vuol dire che la fraternità è parte integrante della “mia” vocazione.
L’intreccio, allora, è assai stratificato. Ma, appunto, non ne usciremmo facilmente se ci mettessimo a definire da quale parte l’ago della bilancia deve orientarsi. La persona o il gruppo. Dovremmo evitare, anzi, i ragionamenti binari perché schiacciano e falsano le prospettive, quando si voglia riflettere con una disponibilità autentica.
Chiunque di noi sperimenta il bisogno di essere accolto non in modo anonimo, né come membro “X”, ma di avere un posto speciale nell’interesse del partner, del Vescovo, del superiore, della formatrice, di quel confratello o consorella. Questo dice di bello quanto abbiamo necessità dello sguardo altrui, dell’attenzione raffinata e personale delle persone con cui viviamo. Dice che non siamo dentro un progetto d’azienda e che la motivazione relazionale rimane centrale in famiglia, come in vocazione (ormai ci intendiamo sull’uso di questo termine).
Il punto è, come ben individua l’interrogativo iniziale, se è necessario mettere un confine a questo bisogno, oppure esso è sconfinato. Di conseguenza: chi dovrebbe corrispondere al nostro bisogno e fino a dove. Sull’altro versante: quanto si deve rinunciare ai propri desideri se il gruppo lo richiede.
Penso sia fondamentale mantenere chiaro che non è pensabile disgiungere il singolo dal contesto comunitario, ed entrambi sono chiamati ad un processo di maturazione, che potremmo anche declinare, in modo meno tecnico, come processo di dono, di espansione del cuore, di generatività.
Perciò, se è vero che la persona ha un mandato di crescita e di allargamento delle proprie risorse identitarie e interpersonali, quando sia nel “posto giusto”, è vero anche che il contesto deve fare la sua parte, in quanto è chiamato a sua volta a crescere, che vuol dire diventare flessibile per accogliere i nuovi membri, per essere disponibile di fronte a situazioni difficili di malattia, malessere interiore, ingresso di giovani fratelli e sorelle che portano proposte nuove.
Dire che chi entra in un processo vocazionale è solo al servizio di un progetto, mi pare riduttivo rispetto alla grandezza che potrebbe assumere una prospettiva di relazione singolo-comunità-Chiesa. Non c’è lotta di potere, chi comanda e chi ubbidisce. Di fatto, è chiaro che i ruoli sono diversi, ma non è in termini di forza che si può risolvere il dilemma, quando, arriva uno stimolo nuovo in comunità: Marco avanza una richiesta di studio, mentre servirebbe che lui facesse altro; Francesca chiede di essere trasferita mentre la sua presenza sarebbe molto utile qui… Esempi banali, ma indicativi di questioni normali e ordinarie che la vita ci mette davanti. Quindi, cerchiamo di non perdere di vista che ci sono sempre almeno due interlocutori in una vocazione.
Mi vengono in mente, a questo proposito, gli studi sulla comunicazione non violenta:
- “che cos’è che ci fa allontanare dalla nostra natura empatica, portandoci a tenere comportamenti violenti e strumentalizzanti?”
- “che cos’è invece che permette ad alcune persone di rimanere collegate alla loro natura empatica anche nelle circostanze più difficili?” (da: M.B. Rosenberg, “Le parole sono finestre oppure muri”).
Come rimanere umani in condizioni difficili? Riprendendo un’altra domanda-sintesi dello stesso volume.
Il senso è che dietro una richiesta ci sono bisogni, sentimenti, emozioni, ed è necessario, per rimanere umani e sintonizzati gli uni con gli altri, andare oltre la richiesta “secca”, il comportamento esplicito, le generalizzazioni massicce che cercano di incasellare, stigmatizzare, e giudicare. Nuovamente: vale per il singolo e vale per il gruppo. Torno alla questione iniziale: è vero che il rischio di richieste bizzarre o egocentrate è vivo negli ambienti comunitari, ma dal momento che si tratta di contesti adulti e di fede, di altissimo spessore, vale la pena cercare vie che rispettino la complessità delle situazioni.
La formazione potrebbe aiutare la persona ad acquisire un senso di appartenenza rispetto alla realtà che sta scegliendo, perché la senta sempre più sua, per averne cura, per essere progettuale e propositiva. In tale direzione si favorisce la presa in carico – piuttosto che la competizione – seria, affettuosa e autentica di Marco rispetto al suo Istituto. Nello stesso tempo l’ambiente comunitario dovrebbe dirsi: “Francesca è parte di me”, non è irrilevante che stia bene o male, che abbia un’esigenza o ne abbia un’altra.
Maturare, quindi, è il cammino di uscita da sé, dai propri schemi rigidi e autoreferenziati per cogliere cosa sta accadendo dall’altra parte. Marco e Francesca ascoltano la comunità e quanto ha da dire, la comunità sospende il giudizio per cogliere cosa sta effettivamente chiedendo Marco o Francesca. Si attiva, allora, un processo di reciprocità che non va tanto a caccia di soluzioni – pur talvolta necessarie e ineludibili – ma di quel terreno comune dove si potrebbero trovare delle proposte accettabili per entrambi. Spesso, invece, siamo impantanati in un luogo che ingabbia e non apre a nulla! Come nel caso del braccio di ferro.
Uscendo, quindi, dall’imbuto per cui il singolo è capriccioso/la comunità troppo esigente, penso che la grande avventura del vivere insieme – nelle piccole, come nelle grandi cose – sia il rimanere dentro i processi di mutua ricerca dell’altro, delle sue esigenze, e sorpattutto della comune appartenenza ad un’unica realtà umana e spirituale.