È facile parlare di fraternità sacerdotale in via teorica, ma in pratica come si fa? La vedo molto difficile…
Testimoniare la fraternità sacerdotale
Negli ultimi due numeri di questa rubrica abbiamo riflettuto con don Marco Vitale sul rinnovamento della formazione sacerdotale, insistendo sull’aspetto di fraternità che sarebbe auspicabile anche per i sacerdoti diocesani, aspetto da imparare a costruire fin dagli anni di seminario.
Ora, invece, entriamo in un’esperienza viva di fraternità sacerdotale con don Emilio Rocchi, il quale può intanto dirci due parole su “chi è”.
«Dall’ordinazione presbiterale in poi ho svolto diversi incarichi, uno più bello e sfidante dell’altro: viceparroco, insegnante di religione cattolica nella scuola (media e classico paritario) e di teologia dogmatica nell’Istituto Teologico Marchigiano, aiutante di studio della Segreteria generale della CEI, rettore del seminario diocesano, parroco, segretario della Commissione presbiterale Italiana… e, pur variando incarichi e luoghi di servizio pastorale, ho scelto di vivere sempre con altri preti, secondo la spiritualità focolarina».
È possibile, quindi, non è utopico che ci siano fraternità di sacerdoti, ciascuno con i propri impegni, senza, per questo, «snaturare» la vocazione sacerdotale?
«A mio avviso sarebbe auspicabile, per tutta una serie di motivi, uno più importante dell’altro. Infatti, la vita comune offre tante possibilità di superare la cultura individualista, la quale apparentemente rende più liberi, ma in pratica più autoreferenziali e questo pone seri rischi a coloro che sarebbero chiamati a camminare in una Chiesa sinodale. Purtroppo il vivere insieme tra sacerdoti non è una realtà diffusa, mentre invece offre la possibilità (quando funziona) di accorgersi dei disagi altrui e propri e cercarne una soluzione. Ti costringe a farti carico di qualcuno e di fare il primo passo, rischiando anche la correzione fraterna.
Ha detto una cosa molto interessante: come sempre nelle esperienze umane, non è detto che l’esperienza – in questo caso il vivere insieme – “di per sé” sia garanzia di un atteggiamento di maggiore autoconsapevolezza, né di maggiore attenzione e cura all’altro.
«Però la vita comune dà almeno la possibilità di maturare nella capacità di sapersi relazionare con tutti e di rapportarsi in modo adeguato con chi la pensa diversamente da noi. Infatti, siccome ciascuno è unico e irripetibile, quando si vive insieme si ha l’occasione di allenarsi in modo concreto a camminare e a fermarsi (quando necessario) insieme. Offre l’opportunità di vivere il “rinnegarsi” evangelico (senza fuggirne la fatica) e di sperimentare la fecondità apostolica del vivere il Comandamento nuovo di Gesù, rivolto prima di tutto agli apostoli, che è la legge fondamentale della Chiesa (cf. Lumen gentium 9)».
Mi permetto di insistere perché è preziosa l’esperienza che lei sta narrando: concretamente cosa condividete e come avete pensato l’organizzazione della giornata? Per gli uomini mi pare meno scontato il mettersi insieme per realizzare una vita in comune, non solo concentrata sugli impegni pastorali o lavorativi. Provocatoriamente potrei immaginare un luogo abitativo tutto al maschile, dove in effetti ciascuno va avanti secondo le proprie attività e rientra solo per mangiare e dormire.
«La vita comune si differenzia molto a seconda del numero e dell’età dei preti. Nell’esperienza più recente in ordine di tempo, ero con altri 3 preti anziani, due dei quali parroci emeriti (il più anziano, malato di Parkinson, l’altro che avevo sostituito al compimento dei 75 anni, malato di Alzheimer). In questo caso non mancavano tensioni, giunte al culmine quando il prete più anziano mi disse con grande chiarezza: “Ciò che è importante per te, non lo è per me. E ciò che è importante per me, non lo è per te”. Grazie a ciò, ho scelto di vedere situazioni e persone non accontentandomi più solo della mia prospettiva.
Ho visto che il cercare di avere come prioritario il vivere l’amore evangelico, tendendo a praticare per quanto possibile il Comandamento Nuovo di Gesù, è decisivo per la pastorale. La vita fraterna, con le stesse difficoltà che sperimentano – e capiscono – tante famiglie, rende credibile l’omelia, come le riflessioni proposte ai diversi incontri con gli adulti e i genitori.
L’azione pastorale staccata da questa testimonianza, o non maturata dall’amore al fratello (che è gioia e penitenza), mi sembra poco incisiva e rispondente alle sfide di molti battezzati.
In questa comunità presbiterale si condivideva la celebrazione eucaristica in genere e, in qualche caso, la Liturgia delle Ore con alcuni.
In altre comunità invece c’era un ritmo di preghiera condiviso: Liturgia delle Ore, Meditazione, un incontro settimanale per raccontarsi come ci si impegnava a vivere la Parola di Dio, una condivisione anche di beni materiali così da crescere nell’autentica fraternità, che si vedeva anche nel condividere i pasti e nel sistemare la casa e la cucina… Qualche gita secondo esigenze e possibilità di ciascuno. Festeggiare compleanni e anniversari di ordinazione»
Grazie, mi sembra importante quello che ha detto e cioè che i ritmi di ogni realtà fraterna si possono modulare a seconda delle esigenze, e non devono essere pensati in modo rigido, come talvolta accade. Venendo, invece, alle questioni spinose: quali sono le difficoltà maggiori in un’esperienza tra persone che non hanno scelto “per vocazione” la vita fraterna?
«Ci sono diverse fatiche che si sperimentano sia dentro le persone – la fatica a relazionarsi superando e integrando i normali e necessari conflitti della prossimità – che tra le persone: “leggere” e interpretare in modo diverso le situazioni, le differenti priorità e i modi di organizzare la giornata.
Uno dei motivi, a mio avviso, che rende faticosa la vita fraterna tra preti è che oltre alla famiglia naturale l’unico modello che molti preti hanno avuto è quello del Seminario. Lì però, in genere, c’è una certa “gerarchia”, esiste chi dà indicazioni e chi le ascolta e le attua, più o meno volentieri. Una volta divenuti preti, non pochi rifiutano questo “modello”, ma mancando di una formazione specifica non riescono a vivere da uguali e distinti. Si corre il rischio di non essere sufficientemente impegnati a edificare una “vita interna” attenta alle diverse sfaccettature di una vita fraterna che va dalla condivisione alla comunicazione, che tocca la pastorale e la cura della salute, per sé e per chi vive accanto a noi… Un ulteriore elemento è la difficoltà che sorge quando qualcuno lascia intendere che il proprio modo di fare è il migliore e non accetta come positiva la diversità. E questa mentalità non può non avere conseguenze (gravi) nel modo di proporre e accompagnare le iniziative pastorali. Si fa fatica a valorizzare i carismi e ministeri altrui e si tende a privilegiare (se non imporre) i propri modi di vedere e di fare!»
Mi pare un’enorme sfida anti-narcisistica: non vedere se stessi come «i modelli». A questo punto secondo Lei, avendo in mente la situazione delle diocesi italiane, dove i sacerdoti sono pochi e oberati di impegni pastorali e spesso molto distanti l’uno dall’altro, si possono realisticamente pensare esperienze simili a quella che Lei vive, o sono molto specifiche e legate al carisma di appartenenza? Riprendendo la riflessione di don Marco Vitale sulla preparazione remota dei giovani seminaristi ad un pensare comune, cosa servirebbe per poterle realizzare, poi, da preti?
«Mi sembrerebbe una scelta strategica importante di formazione permanente e di concreta testimonianza del presbiterio diocesano, attorno e in comunione con il Vescovo.
Esistono tanti casi in cui la difficoltà di spostarsi da un paese all’altro, per una precaria viabilità e per il crescere degli anni e le condizioni di salute, rendono difficile il vivere insieme dei preti. È una situazione che chiede un serio discernimento negli organismi di partecipazione. Ogni scelta è rinunciare ad altro, ma si tratta di valutare qual è il Bene nella situazione attuale? … A mio avviso è essenziale testimoniare come preti la fraternità sacerdotale e da lì far scaturire l’azione pastorale, come Gesù faceva con i discepoli: affinché stessero con lui e per andare a predicare!
Un ulteriore e decisivo aspetto, anche per il crescere dell’età, è il vivere insieme di preti giovani e anziani. E vale anche per noi presbiteri quanto papa Francesco scrive sull’importanza di giovani e anziani, che sono la speranza della Chiesa (cf. Evangelii gaudium, 108)?
Eccetto condizioni di malattia di una certa gravità che chiedono quindi cure specifiche che non si possono assicurare in una casa parrocchiale, mi sembrerebbe alquanto significativo far rimanere i preti anziani dove hanno esercitato il ministero. Eppure, si fa fatica a viverlo. Avremmo bisogno, sin dagli anni del Seminario, di essere formati alla concretezza della fraternità sacerdotale. Si chiedono infatti (a tutti) virtù non comuni. La mia esperienza in questo senso, pur impegnativa, è stata preziosa perché ha trasmesso un importante insegnamento.
Capisco bene che non si può assolutizzare la propria esperienza! Ritengo fondamentale però esplicitare come prima dell’efficienza (anche pastorale) esiste il criterio della testimonianza e il far vedere concretamente cosa significhi il presbiterio diocesano e cosa sia la fraternità sacerdotale. E, non da ultimo, «Le sfide esistono per essere superate» (Evangelii gaudium, 109)».