Un giovane giorni fa, durante il nostro colloquio periodico, mi ha rimandato – e senza mezzi termini – che non si è sentito da me supportato in occasione di una circostanza relativa alla sua famiglia. Cosa con cui non ho concordato, avendogli, invece, manifestato (almeno così pensavo) grande vicinanza. D’altro canto mi ha anche rimandato il desiderio di sentirsi più “adulto”. In altre parole: di poter avere maggiori margini decisionali e non dover chiedere per tutto il mio permesso. Non è proprio facile trovare un equilibrio con i giovani di oggi! Un formatore
Sono una consacrata 35enne, non giovanissima quindi, mi domando quando veniamo considerate abbastanza “grandi” da poter assumere responsabilità prima dei 60 anni! Perdoni la mia franchezza, ma anche con altre consorelle ci troviamo a discutere di questo, il non essere prese sul serio come capacità di dire la nostra opinione e dirla in modo efficace, cioè con dei risvolti concreti nella vita di comunità.
Ho messo insieme le due considerazioni, che provengono da versanti diversi, proprio per la loro somiglianza: quando si è “adulti” nei percorsi vocazionali? Quando un membro può considerarsi veramente tale rispetto alla sua realtà di appartenenza?
Vado subito al concreto, con una distinzione. Per l’esperienza che ho rispetto alle realtà vocazionali direi che le donne negli ambienti vocazionali sono decisamente «svantaggiate», quanto ad autonomia. Storicamente negli ambienti di vita insieme l’autorità femminile ha avuto e talvolta ha un ruolo dominante, più che maggioritario. Mi spiego, sapendo di ripetere un aspetto per me molto importante.
Il cammino vocazionale inizia ed è consentito a persone adulte, quanto meno per età (a parte la realtà dei seminari minori che richiederebbero un discorso a sé). Le persone possono non essere sufficientemente mature, ma comunque sono cronologicamente “grandi”. Quando si entra in seminario o comunità è vero che inizia un percorso nuovo e quindi si regredisce fisiologicamente – ed è del tutto normale – ad una condizione che potremmo paragonare se non all’infanzia, all’adolescenza.
La persona deve costruire una nuova identità (ed è quanto ella stessa desidera), imparare un nuovo modo di stare in relazione con l’autorità e con gli altri. Tuttavia, rimane adulta. L’anomalia della regressione è temporanea e funzionale allo sviluppo progressivo di un’autonomia e di un senso di appartenenza a quella realtà. Altrimenti l’essere umano rattrappisce e rimane letteralmente «fissato» (espressione tecnica/psicologica) ad una fase evolutiva anomala. Cioè: magari la persona ha 25/30 anni o anche di più, ma viene percepita, e quindi rischia di auto-percepirsi, come una 15enne che ha ancora bisogno che la si vigili, che riceva raccomandazioni di prudenza, a cui sono precluse delle possibilità decisionali. E questo non va!
La vocazione è per adulti e deve orientarsi a rendere sempre più libera ed autonoma la persona, capace di assumersi la propria storia con Dio, con i fratelli e le sorelle, con il prossimo che incontra. I ruoli, i voti, le promesse sono una parte che va presa sul serio, ma mantenendo la chiarezza che si rivolge a dei «chiamati da Dio». Dio li ha già presi sul serio.
Questo, però, va letto in modo integrale. Talvolta si reclama nello stesso tempo autonomia, ma anche un’attenzione al limite dell’infantilismo. Possibilità di decidere da sé, e insieme una cura che può assomigliare a quella del rapporto genitore-figlio. Allora la riflessione si sposta anche su un’altra prospettiva. Essere adulti significa autonomia e responsabilità insieme.
Man mano che un seminarista o un membro di comunità procede nel percorso, cresce (o dovrebbe crescere) e quindi acquisire un senso sempre maggiore di essere parte di quella realtà, e quindi farsene carico con passione. Avere a cuore il bene di quella «famiglia», sentirsi genitore dell’ambiente, pur non avendo il ruolo ufficiale di responsabile o formatore…
Un criterio vocazionale centrale credo sia proprio questa progressiva presa in carico da parte del giovane (per cammino o per età) di ciò che lui o lei vive. La passività, la continua richiesta di attenzioni o conferme, l’assenza di iniziative (nell’attesa che il superiore/la superiora ce l’abbia), il proiettare le responsabilità sempre su altri, non depone bene rispetto ad un discernimento. Quindi il formatore pone una questione molto importante.
È sano e doveroso favorire la crescita libera di chi si accompagna, ma chi viene accompagnato in questo ha una parte attiva, cioè a sua volta deve assumersi tale impegno. Citando ancora una volta il Manuale Diagnostico di ultima generazione, i «comportamenti proattivi e pro-sociali» sono considerati importanti per definire l’identità matura. Dunque non è un dettaglio che chi intraprende un percorso vocazionale sia aiutato ad assumersi comportamenti sempre più intraprendenti. La consacrata espone, pertanto, una richiesta giusta: non si può rimanere per 10, 15, 20 anni come dei neo arrivati, né come dipendenza, né, però, come passività (= irresponsabilità).
Prima di concludere mi sembra significativa anche la considerazione sull’ascolto, che pone il formatore. Mi pare una nota dolente. L’ascolto, il tempo dedicato al confronto personale e comunitario sono un’attenzione degli ultimi anni. Nessuna colpa o accusa! Andava così la società rispetto ai «piccoli». Oggi credo che la prospettiva sia diversa. Mettersi a disposizione dell’altro (rettore/formatore/formatrice-giovane) è essenziale.
L’arte dell’accompagnamento sta anche in questa disponibilità a offrire con regolarità attenzione, dialogo, accoglienza personale per imparare a conoscere la storia di chi sta in seminario o comunità (e aggiungo: anche del sacerdote fuori formazione), per condividere come sta, cosa vive, cosa gli/le accade in questo periodo. Non è infantile. Lo sguardo personale evita il sentirsi dei numeri o solo forza lavoro per l’Istituto. È faticoso. Chi ha ruoli di formazione o leadership mette in conto che buona parte del proprio tempo sarà riservata a questo servizio.
D’altra parte – e concludo, insistendo su questo aspetto – il confronto stesso, il dialogo, il raccontarsi avviene tra due adulti. Non si gioca a «mamma e figlia», «babbo e figlio» di storica memoria. Allora mettersi in comunicazione col proprio responsabile significa disporsi, da adulto, a lasciarsi aiutare a camminare verso la libertà interiore e un amore sempre più generoso.