L'esperto risponde / Famiglia

Ezio Aceti

Laureato in psicologia, consigliere dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, esperto in psicologia evolutiva e scolastica, è nella redazione del giornalino Big Bambini in giro. ha pubblicato per Città Nuova: I linguaggi del corpo (2007); Comunicare fuori e dentro la famiglia (nuova ed. 2012), Crescer(ci) (2010); Mio figlio disabile (2011); con Giuseppe Milan, L’epoca delle speranze possibili. Adolescenti oggi (2010); Educare al sacro (2011); Mio figlio disabile (2011); Nonni oggi (2013); Crescere è una straordinaria avventura (2016); con Stefania Cagliani, Ad amare ci si educa (2017).

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Società

I bambini e la morte nel tempo del Coronavirus

Cosa dire ai bambini in questo scenario di morte quotidiana a causa del Covid-19? Una mamma molto preoccupata

 

Premessa
L’esperienza che stiamo vivendo in questi giorni di pandemia da Coronavirus è faticosa, difficile, a volte drammatica. Per la prima volta dopo tanti anni, ci troviamo a che fare con la realtà più assurda e drammatica della storia: la morte quasi improvvisa, quotidiana.

Molti adulti trovano difficile parlare ai bambini della morte di un animale e fanno fatica a trovare le parole immaginando la sofferenza del bambino. Figuriamoci poi parlare della morte di una persona cara e conosciuta dal bambino. Come parlare ai bambini della morte?

Cosa dire loro quando questa realtà riguarda il nonno, la nonna, la zia, lo zio o, in rari casi, la mamma o il papà? Per rispondere, permettetemi di fare un po’ di storia.

Nel Medioevo
Nei dipinti del medioevo è frequente trovare raffigurazioni ove monaci, religiosi e santi portano un teschio nella mano o lo stesso teschio appare depositato sopra un comodino, per ricordare che la morte è sempre nostra compagna.

La morte era uno degli argomenti più usuali durante le predicazioni e questo non tanto per incutere paura e riluttanza, ma per ammonire circa il comportamento della vita. Insomma la morte, nel suo dramma, incitava a vivere bene, con responsabilità e attenzione.

In questo modo il ricordo della morte e del dolore aveva un significato terapeutico: aiutava non solo a sopportare le avversità, ma anche a cercare di dare il meglio in ogni circostanza avversa.

Occorre poi ricordare che la morte era di casa, in seguito alle malattie, alle epidemie e alle guerre. I bambini assistevano alla morte in modo diretto e non solo vedevano morire molte persone, ma partecipavano al lutto con tutta la famiglia e i parenti anche per vari giorni. Nessuno quindi, nel Medioevo, si scandalizzava della morte e i bambini la consideravano come la realtà più naturale, della quale era ovvio parlare e discutere.

Epoca moderna
Con la rivoluzione scientifica e la modernità, il benessere e lo sviluppo della tecnica hanno permesso non solo la cura e la guarigione di molte malattie, ma soprattutto la paura della morte si è allontanata sempre più dalla vita. Si è cominciato a non parlare quasi più di questa esperienza ai bambini perché ritenuti incapaci di comprendere o per preservali dalla sofferenza.

Sappiamo che la media di vita nei paesi sviluppati è passata dai 50 anni del secolo scorso agli 80 di questo secolo e le proiezioni ci dicono che non è più un miraggio arrivare preso ai 100 anni.

Se tutto ciò è un bene e occorre sempre incoraggiare la ricerca scientifica per debellare le malattie più invalidanti e permettere una vecchiaia salutare, è importante però ricordarsi sempre che la morte non è scomparsa. In questo mondo non scomparirà mai. Insomma morire fa parte dell’esistenza ed è bene considerarla con tutto ciò che questo comporta.

E poi la morte non riguarda solo la vecchiaia, ma tutte le età. Da ciò si deduce il diritto inequivocabile di ogni persona a sapere e conoscere le verità della vita. Così è per la morte.

Il grande poeta libanese KhalilGibran (Bsarre 1833 – New York 1931) scrisse: «Vorreste conoscere il segreto della morte. Ma come trovarlo se non cercandolo nel cuore della vita?».

E poi, se la morte rappresenta il dolore più grande, specchio di tutti i dolori, il trovare parole, emozioni, sentimenti appropriati può essere di enorme aiuto per tutti, soprattutto per i bambini.

Oggi, adesso
In questo giorni la morte è quotidiana. Ci è stata sbattuta in faccia. Tante famiglie l’hanno subita, vissuta. Soprattutto, non hanno il tempo di piangere i loro cari… neanche il funerale è permesso… sembra quasi impossibile il ricordo! Si ha paura a descriverla. Si ha l’impressione che sia ingiusto morire. Morire in questo modo!

La morte sembra dare uno schiaffo all’onnipotenza della tecnica e della ricerca. Eppure è importante parlarne… Parlarne ai bambini.

I bambini
I bambini hanno diritto alla sincerità. Se qualcuno è malato o sta morendo è meglio essere sinceri. Occorre considerare che i bambini amano i grandi che gli vogliono bene. Se chi ci ama è silenzioso e cerca di nascondere le cose, i piccoli si sentono smarriti e fanno fatica a comprendere ciò che sta succedendo. Fingere che vada tutto bene e nascondere la verità è molto più triste per i bambini che dire loro cosa sta succedendo.

Allora occorre introdurre nel percorso educativo il concetto della morte e parlarne con i bambini. Questo è importante, sia da parte dei genitori che successivamente, durante le attività scolastiche, a partire dall’infanzia. Parlare della morte delle persone care, anche se è doloroso e faticoso, può aiutare i bambini a evocare i ricordi e dà a noi l’occasione di valorizzare il bene che quel parente ha lasciato. È importante utilizzare parole vere, che danno un senso compiuto a quanto sta succedendo.

Parole e gesti
Tutto quello che diciamo ai bambini deve essere vero e rispettoso dello sviluppo evolutivo. Quando sono piccoli è sufficiente una frase. Dai sette anni si possono utilizzare parole e azioni. L’importante che quello che diciamo sia sempre accompagnato dal sostegno o da un rito che in qualche modo aiuti a ricordare.

Anche in situazioni tragiche, come la morte della mamma o del papà, si può dire: «Di solito si muore da grandi… la mamma è morta giovane… possiamo pregare… andrà tutto bene». Certo le reazioni dei bambini potranno essere le più diverse: rabbia, impotenza, nostalgia, tristezza, pianto, senso di colpa. È fondamentale che i bambini possano manifestare quello che provano e trovino adulti che possano empatizzare con loro e comprendano il loro vissuto.

È poi importante proporre un rito regolare, come la preghiera o il pensiero quotidiano, per mantenere vivo il ricordo che ci dà la possibilità di parlare delle cose belle e importanti della vita.

Gesù e la morte
Nonostante tutto quanto abbiamo detto, occorre ricordare che la morte è comunque assurda e nemica dell’uomo. Non ha senso morire. Nessun senso.

A meno che la morte, nella sua tragicità, rappresenti un passaggio per una dimensione più grande. E papa Francesco, solo di fronte al mondo, ha manifestato il cuore di tanti chiedendo a Dio di proteggerci. È questo quello che Gesù è venuto a fare. È venuto a sconfiggere il pungiglione della morte che, anche se ci colpisce, non ha più il veleno della fine ma, con Cristo, può essere foriera di una vita più grande.

Una vita che, se circondata dall’amore verso gli altri, dalle parole di senso verso le sofferenze, e dall’aiuto verso tutti i bambini nella sincerità, verrà raccolta da Cristo per portarla nel seno del Padre. Questo è quello che occorre dire ai bambini!

Permettetemi di chiudere con un grazie a tutti quanti si stano prodigando per la cura e l’assistenza… insieme ad una particolare vicinanza e preghiera per chi ha perso i cari. Che Dio li tenga tutti stretti a sé… e li abbracci da parte nostra.

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Psicologia

Un figlio distratto

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Mio figlio Luca, di quattro anni, è sempre distratto e agitato. Anche alla scuola materna mi hanno detto che spesso non sta attento e non si concentra… Cosa posso fare?


La concentrazione è un’attività fondamentale per l’essere umano, perché permette di fissare l’informazione e trattenerla nella memoria. Non solo, ma quando ci si concentra la nostra mente recupera le informazioni immagazzinate, le rielabora e le utilizza, permettendoci di comprendere meglio la situazione e dunque di essere maggiormente presenti nella realtà. La difficoltà di concentrazione rende quindi complicato percepire la realtà così come è, portandoci a dare risposte inadeguate nelle varie situazioni. È risaputo che molte insegnanti lamentano problemi di concentrazione e di attenzione nei bambini della scuola elementare e materna. Una volta questo tipo di problema era poco individuato e ci si soffermava maggiormente su intelligenza e capacità logiche. Tutto ciò è dovuto essenzialmente a vari fattori come l’andata a letto tardi, la televisione sempre accesa, i giochi elettronici, la playstation, con conseguenze legate a maggior stimolazione e ritmi di tensione sempre più presenti nella realtà e nei giochi dei bambini. Di solito poi ci si accorge delle difficoltà di concentrazione durante la scuola elementare perché ci si aspetta un certo rendimento scolastico, o perché il bambino si alza spesso dal banco e non riesce a mantenere il ritmo della classe. Ecco che allora per risolvere il problema si strutturano una serie di strategie che spesso, però, si rivelano sbagliate o superficiali. Inoltre queste difficoltà possono essere lo specchio di problematiche specifiche quali la dislessia, disgrafia, discalculia o deficit percettivi specifici, che, di solito, vengono evidenziati grazie all’osservazione da parte di psicologi e neuropsichiatri. Cosa non fare? Innanzitutto sono da evitare interventi basati sul rimprovero o sulle punizioni perché alla lunga non risultano efficaci: possono diminuire l’autostima nel bambino e aumentare le manifestazioni di disagio e di aggressività, come compensazione della situazione interiore. Cosa si può fare? Bisogna partire dal presupposto che il bambino è plastico e che si può educare a tutto, mediante esercizi e interventi pertinenti con l’età del bambino. Ecco alcuni esercizi utili:
  1. giocare insieme al bambino, raccontando ciò che si sta facendo. Ad esempio se si sta giocando con le costruzioni o i soldatini, è importante che l’adulto racconti la storia, descriva i personaggi indicando le loro funzioni e il loro carattere. Poi, subito dopo, l’adulto può riporre col bambino i giochi nella scatola dei giocattoli, in modo ordinato, aiutando il bambino a mettere ogni gioco al suo posto. Tutto ciò lo aiuta a imparare l’organizzazione sequenziale delle piccole attività: il bambino si concentra sull’azione, scoprendo che essa è sempre il risultato di altre azioni intermedie.
  2. raccontare favole e storie. È importantissimo questo, perché aiuta il bambino a seguire la storia e, se il libro è ricco di immagini ancora meglio, perché ciò stimola la creatività del bambino. Inoltre è importante, durante la narrazione, seguire il ritmo del bambino, senza fretta, e soprattutto bisogna che il racconto si svolga in un ambiente tranquillo e possibilmente sempre alla stessa ora.
Naturalmente se il disturbo persiste è necessario rivolgersi ad uno specialista. Altri esercizi si possono indicare, ma quello che conta è rispettare la dimensione del bambino. In questo modo egli scoprirà pian piano che la concentrazione apre alla conoscenza del mondo. Un mondo bello, ricco di particolari e di vita. Un mondo stupendo!
Società

Ragazzi in balia del male

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Ennesimo episodio di baby gang a Napoli: 8 ragazzi aggrediscono un quindicenne a calci e pugni, senza alcun motivo. Sono allibita. Perché?


Quando abbiamo a che fare con una baby gang ci sentiamo impotenti, scoraggiati, incapaci a volte di capire. Infatti, se la violenza va sempre condannata, la violenza degli adolescenti sembra assurda. Ragazzi che dovrebbero amare la vita, essere desiderosi di aspettarsi il meglio dal futuro, pieni di vigore come il loro corpo testimonia, si spendono, invece, in aggressioni e minacce, con comportamenti mafiosi e manipolatori. I ragazzi delle baby gang sono bambini cresciuti troppo in fretta, con problematiche legate soprattutto alla incapacità di comprendere il male che fanno, considerando la vita come un gioco perverso, a chi domina di più. Sono ragazzi in balia del male, un male che non ha spiegazioni. È la banalità e superficialità del male. Come superficiali sono i ragazzi che li compiono. Perché? Molteplici sono le cause, che messe insieme arrivano ad un unico risultato: ragazzi incapaci di essere responsabili, perché incapaci di entrare nel loro profondo e in quello degli altri. Sembra che la vita e le cose scivolino loro addosso, senza riflessione, senza motivazione se non quella del potere e del dominio. Tutto questo perché non hanno sperimentato la bellezza di amare ed essere amati. Hanno solo una richiesta spasmodica di essere considerati. La loro violenza è il grido acuto e disperato di chi vorrebbe essere al centro, ma è un grido che fa male, porta ingiustizia, in una spirale perversa. Cosa fare? Oltre a condannare la violenza e a mettere in campo gli interventi coercitivi, per riscattare veramente il male occorre investire nella parte migliore che ancora in loro c’è. Ecco alcune proposte concrete: organizzare scuole formative a loro dedicate, strutturare momenti di autoriflessione, abituarli ad esercitare la capacità di introspezione, fargli vivere esperienze di altruismo mediante lavori socialmente utili. In questo modo potranno forse comprendere il male fatto agli altri e a loro stessi, un male che occorre sconfiggere non tanto con la punizione, quanto con la crescita dell’umano che c’è in loro, e in noi.
Psicologia

I bambini e la tragedia di Genova

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Mio figlio piccolo mi ha chiesto perché il ponte di Genova è crollato. Cosa gli devo rispondere? Una mamma


La diretta televisiva sui fatti di Genova ha trasmesso ininterrottamente per ore le tragiche vicende del crollo del ponte, con le notizie spaventose di morti, feriti, presunti colpevoli. Una ferita profonda per tutti. Ansia, sgomento, rassegnazione sono entrati nel nostre case. E i piccoli, i nostri bambini? A loro modo hanno visto le notizie televisive e ascoltato i nostri commenti, dovuti soprattutto all’assurdità e imprevedibilità dell’accaduto. Chiediamoci: il loro vissuto com’è? Cosa hanno provato, come hanno reagito? Chiediamoci anche quanto sia giusto e corretto esporre i bambini a simili notizie. Occorre evitare di mostrare loro le immagini del ponte crollato? Insomma, la realtà nuda e cruda dobbiamo comunicargliela? La risposta a simili interrogativi non è semplice, ma occorre in qualche modo darla. Vi sono alcuni punti che come operatori, genitori e adulti dobbiamo considerare:
  • i bambini hanno il diritto come tutti di conoscere la verità delle cose;
  • la verità che viene loro comunicata deve essere tuttavia proporzionata al loro modo di vedere le cose e alla loro comprensione. Proprio per questo non è necessario dire tutto, bisogna evitare i particolari di forte ansia e complessità. Quello che si comunica però, anche se breve, deve essere vero;
  • i bambini hanno una enorme fiducia in noi e nella vita, per cui qualsiasi verità non deve intaccare questa fiducia;
  • tutto quanto comunichiamo deve essere motivo di insegnamento e di crescita.
Alla luce dei punti sopra citati, un buon genitore ed educatore dovrebbe spiegare che le tragedie succedono a volte perché la natura è così (pensiamo ai terremoti), altre volte per l’incuria degli uomini (vedi la mancata sicurezza del ponte), altre volte non si sa il perché. Al contempo però questa comunicazione dovrebbe terminare con il monito di fare meglio e vivere sempre nel bene e nell’attenzione agli altri, perché l’uomo è una persona fragile. Per i fatti di Genova si potrebbe dire così: «Caro figlio, è crollato il ponte e purtroppo molte persone sono morte. Questo probabilmente è successo perché chi doveva controllare la sicurezza del ponte non lo ha fatto. Vedi figlio, occorre che quando facciamo le cose le facciamo bene, perché se tutti le facciamo bene tragedie come questa probabilmente non succedono. Comunque possiamo pregare per loro». E se per caso c’è una raccolta di fondi per Genova, possiamo invitare nostro figlio a mettere via qualche soldino della propria per le famiglie rimaste senza casa. Insomma che in nessun adulto manchi mai la fantasia di spronare i bambini alla responsabilità e al bene.
Famiglia

Quando la mamma è depressa

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Mio nipote Nicolò è figlio di una madre sempre depressa… come crescerà? E io che sono la nonna cosa posso fare? (una nonna preoccupata)


La depressione è la prima malattia d’Europa ed è causa di molta infelicità e tristezza. La mamma di Nicolò Prima di rispondere sulle conseguenze che i figli di madri depresse possono subire, mi permetta di esprimere la mia vicinanza, comprensione e solidarietà alla madre del piccolo Niccolò, che, a causa della sua malattia, si trova a vivere in modo faticoso ed ansiogeno. La depressione infatti si caratterizza come uno stato d’animo, un modo di percepire la vita e le varie vicissitudini, come cariche di pesantezza e negatività, che necessariamente viene riversata sulle persone che più si amano e ci sono vicine. È assolutamente importante reagire mediante due atteggiamenti: Accettare la depressione: cioè sapere che a volte si possono avere le pile scariche e che le vicissitudini della vita possono portare a momenti di fatica e di stress. Curarsi: cioè fare in modo che la scienza medica e psicologica ci possa aiutare, sia per il nostro benessere che per l’ambiente e l’armonia famigliare. Per questo si consiglia sia una cura farmacologica che un sostegno psicologico, insieme ad una apertura verso la dimensione sociale esterna, magari frequentando famiglie o persone che sembrano più serene e positive. Certo il nostro piccolo Niccolò può soffrire nel vedere la madre depressa e arrabbiata, con il rischio di convincersi di essere lui la causa di questo disagio. Infatti non è raro trovare madri depresse che “scaricano” sui figli il loro malessere, contribuendo a creare talvolta nei bambini una idea di sé svalutativa e negativa. La nonna di Nicolò E allora? cosa fare? Per quanto riguarda la madre ho già risposto. I nonni devono essere sempre pronti ad accogliere il nipotino con il suo modo di fare e cercare di sdrammatizzare la situazione, magari dicendo a Niccolò che a volte capita che i grandi facciano fatica e non sono sempre in forma. Occorre evitare sia le prediche verso la madre, sia continuare a parlare della malattia. Ma veniamo alla figura più importante: il padre. Il padre di Nicolò Questi non solo deve prendersi cura del figlio, ma sostenere la madre e aiutarla nel suo ruolo di donna. Il padre deve uscire solo con la madre e svagarsi con lei, magari andando a mangiare una pizza o a vedere un buon film. Perché è bene ricordare che i coniugi si sono scelti e devono coltivare il loro rapporto, soprattutto in questi momenti. I nonni allora potranno favorire queste uscite di papà e mamma tenendo il nipote, sicuri che il loro contributo sarà di aiuto per tutta la famiglia.
Psicologia

Quando il bambino non dorme…

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Avete mai provato a non dormire, dico non dormire, per sei mesi di fila perché il piccolo piange e vuole essere coccolato? (Un padre semidistrutto) Mio figlio nei primi otto mesi non ha mai dormito… aveva le coliche… poi tutto si è calmato (mamma Lucia) Mio figlia non dormiva perché stavano spuntando i dentini (mamma Laura) Mio figlio aveva paura a dormire nel suo lettino, ne sono sicura, perché poi nel lettone dormiva (mamma Anna)


Fino a non pochi anni fa, l’addormentamento del bambino era ritenuto un indice di serenità e di fortuna per qualsiasi genitore. E quando il neonato dormiva poco, le storie riguardanti le cause di questa “apparente” insonnia, erano talmente tante che ci vorrebbe un’enciclopedia per descriverle. Vi garantisco che nella grande maggioranza dei casi erano tutte storie sbagliate, cioè non basate su realtà oggettive, in quanto i bambini così piccoli sono influenzati da innumerevoli stimoli. Il ritmo sonno-veglia è caratterizzato da molti fattori e ciascun bambino ha il proprio ritmo. Alcuni neonati sembrano non dormire mai, e a volte capita che il neonato dorma di giorno. Sappiamo che ogni bambino nasce con dei ritmi e con un temperamento proprio. Ci sono bambini che fanno pisolini lunghi subito, fin dai primi giorni di vita, e altri che hanno bisogno solo di brevi sonni, magari con maggior frequenza. Sappiamo poi che il cervello in questi primi mesi si sviluppa in maniera accelerata e il piccolo si stanca facilmente, ricorrendo a brevi sonnellini. Poi tutto attorno è pieno di stimoli, tutto è nuovo e tutto deve essere compreso. Questo è molo faticoso e necessita di un enorme dispendio di energie. Ma allora cosa fare? Gli studi ci dicono che il neonato è in grado di riconoscere le situazioni familiari e di predire, in situazioni già vissute, quello che capiterà dopo. Insomma la routine, il fare sempre le stesse cose, sono indice di sicurezza, di conoscenza e di tranquillità per il bambino. Ciascun genitori strutturi le proprie routine per addormentarlo, lentamente, e cerchi di mantenerle sempre, sapendo che questo aiuterà il piccolo a riconoscere il tempo sperimentato. Inoltre non preoccupatevi se all’inizio non si riesce… se tutto il resto della giornata il bambino è tranquillo, allora significa che tutto va bene. Soprattutto non pensiamo che sia un bambino agitato, irrequieto, o che lo faccia apposta! Occorre sempre pensare che noi per il bambino siamo veramente “tutto”, e che il suo “amore passivo” significa totale dipendenza da noi. A questo proposito mi ricordo un amico carissimo che, alle prese con il piccolo di sei mesi che non dormiva, risolse la situazione seguendo il consiglio del suo pediatra. Il consiglio era questo: Prima di alzarti dal letto e andare da tuo figlio che piange, aspetta un minuto. Durante questo minuto, rifletti un attimo e col pensiero rivolgiti a lui dicendogli, con dolcezza: «Papà è stanco e se tu non dormi, come farò domani al lavoro?». Poi alzati e vai da tuo figlio. Vedrai che lui, con la sensibilità dei neonati, “sentirà” il tuo stato s’animo. Effettivamente, in poco tempo il figlio iniziò a dormire tutte le notti. Miracolo? Fortuna? Non si sa e non si saprà mai. Ma la cosa bella è che il padre ha comunicato al figlio il suo disagio, la sua fatica, semplicemente pensandolo. E il figlio ha compreso. Chi può dire che non sia successo proprio così? A me piace pensarlo e piace pensare che i figli, anche quando non dormono, ci stanno dicendo che ci vogliono un sacco di bene e che hanno bisogno di noi. Sempre.
Pediatria

Se il mio bambino non parla

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Mio figlio ha più di due anni e non parla. Mi devo preoccupare? Anna


Il linguaggio è una dimensione complessa e naturale di ogni essere umano. Di solito però ciascuno ha un suo sviluppo nell’acquisizione del linguaggio che varia da bambino a bambino. Le tappe di sviluppo del linguaggio sono ormai conosciute e a due anni un bambino conosce almeno 50 parole, mentre a 30 mesi è già in grado di fare le prime combinazioni: mamma-bella, pappa-buona. Ma fino ai tre anni le variabili nell’acquisizione del linguaggio sono molte. Si pensa che il 7% della popolazione mondiale abbia iniziato a parlare dopo i due anni, a testimonianza del fatto che è normale trovare bambini che non parlino. Ma allora, come comprendere se lo sviluppo è nella norma o si è in presenza di patologie o disturbi specifici del linguaggio? Numerosi studi si sono occupati del problema e occorre essere grati soprattutto al grande studioso russo Lev Semenievic Vygotskij (Bielorussia 1896 – Mosca 1935), se oggi siamo in grado di comprendere che nella maggior parte dei casi la situazione è nella norma. Vi sono alcuni prodromi del linguaggio che ci fanno comprendere meglio lo sviluppo. Innanzitutto la comprensione. Se il bambino comprende un comando o una richiesta come “dammi la bambola” o “prendi il trenino”, ed esegue ciò che viene richiesto. Poi l’interazione. Se il bambino cerca di comunicare ed interagisce con l’adulto o il compagno di giochi, con gesti, azioni, o anche semplici suoni. Infine la produzione. Se il bambino vuole parlare, comunicare, anche se non pronuncia la parolina, ma desidera dire qualcosa e si fa capire. Se questi atteggiamenti sono presenti, (e nella maggior parte dei casi è così) allora direi di non preoccuparsi… il linguaggio prima o poi arriverà. Occorre evitare di correggere il bambino o di incitarlo eccessivamente, perché non è un problema di comprensione o di volontà. Bisogna evitare di infondere l’ansia del parlare a tutti i costi. Generalmente entro il terzo anno il linguaggio si strutturerà, e in poco tempo il bambino imparerà una buona quantità di parole. Se però entro il terzo anno non compaiono le parole, oppure il bambino reagisce passivamente agli stimoli (non comunica, non interagisce, ecc…) è bene una visita dal neuropsichiatra infantile per valutare meglio la situazione. Si possono comunque sempre organizzare momenti dove gli adulti leggono al bambino delle semplici favole o racconti, per stimolarlo a parlare.  
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