I giovani che oggi entrano in comunità portano un contributo importantissimo: in genere non sono legati a stereotipi, si esprimono liberamente senza timori, sono sensibili all’amore puro, non tollerano strumentalizzazioni né verso di loro, né verso altri.
Nello stesso tempo sono figli di quest’epoca, fortemente portati ai rapporti virtuali ed anche alla ricerca, cosciente o meno, di una realizzazione personale, legata spesso a raggiungere il massimo nella formazione (master, dottorati), nell’esperienza professionale o in altri campi. Sono più sensibili a ciò che “toccano”, piuttosto che a concetti che si realizzano nel tempo e nella fede, come ad esempio quello di “paternità spirituale”.
Ciò comporta nella vita in comune una forte sfida nei rapporti con gli adulti di varia età, per lo più provenienti da un clima culturale completamente diverso, con una forte carica d’idealità. Ora queste nuove “leve”, essendo diminuito il numero di candidati, sono una minoranza in comunità, e si trovano a convivere con persone che, dal punto di vista umano, hanno tutt’altra mentalità, valori, concezione della vita umana e spesso spiritualità. Come vedi tu questa sfida oggi e anche in prospettiva futura? Un membro a vita comune
La domanda mi piace molto. Affronta il tema del gap generazionale, che oggi si avverte molto più di quanto non si sia mai avvertito prima, e quindi pone interrogativi alla vita in comune. La tecnologia digitale ha infatti accelerato un cambiamento antropologico e ridisegnato il modo di costruire la propria identità, le relazioni, e perfino il modo di donare se stessi, tutti aspetti fortemente collegati l’uno all’altro.
Condivido quanto dice: le nuove generazioni sono una risorsa incredibile per le comunità religiose. Arrivano liberi da strutture mentali, da ossequi formali, beatamente ignari di quello che “si usa” fare o non fare, dire o non dire. Ascolto spesso scambi tra giovani e formatori/formatrici, ed è sorprendente vedere quanta freschezza ci sia nei primi, freschezza che – siamo onesti – a noi di precedenti generazioni suona irriverente, quasi ineducata (e magari qualche volta lo è). Marco chiede al suo formatore come mai non lo abbia visto al momento di preghiera comune, lui che lo rimprovera spesso di non essere fedele ai momenti comunitari. Lucia domanda alla sua responsabile di comunità se era proprio necessaria quella spesa, dato che le giovani vengono continuamente richiamate sulla sobrietà.
Insomma i giovani non lasciano scampo, chiedono conto di tutto e non si fanno problemi nel porre certe questioni apertamente. Questi credo che siano tutti aspetti molto positivi e spiego il perché.
Molti seminari e comunità hanno sofferto – fino ad oggi, ma le cose stanno meravigliosamente mutando –, una strutturazione crescente. Il carisma originario del Fondatore o della Fondatrice, nato con quel respiro che solo lo Spirito può dare, nel tempo si è talvolta appiattito all’interno di realtà sempre più gerarchiche e prese dall’urgenza pratica di portare avanti attività macroscopiche ed impegnative. È accaduto così, almeno per quanto ho potuto osservare negli anni, che alcune realtà di vita in comune hanno preso forme rigide ed uniformanti (cioè con uno stile unico per i suoi membri, pena il sentirsi fuori-ambiente), quasi più burocratiche che carismatiche, se mi è concessa questa espressione, più di potere che evangeliche.
Ecco, in queste situazioni i giovani fanno irruzione. Non conoscono il pregresso del «si è sempre fatto così», perciò portano dentro il desiderio evangelico di seguire il Signore, con tutte le risorse e i limiti della loro generazione. Non si accontentano di spiegazioni di forma, non riconoscono automaticamente l’autorità, vogliono sentirsi motivati, vogliono crescere e perciò reclamano strumenti di formazione anche intellettuale.
Seminari e comunità, allora, si trovano o si dovrebbero trovare, a riflettere non solo sull’offerta formativa, ma soprattutto su quella “vocazionale”: quale ambiente offriamo loro? Le regole che proponiamo hanno ancora vitalità? Quale è il nostro modello di prete o consacrato/a? Perché Luca, Francesca, Matteo… ci contestano il modo in cui preghiamo insieme?
D’altro canto bisogna dire che i nuovi arrivati portano anche tutta la fragilità di famiglie di origine spesso frantumate, di assenza di figure formative di riferimento, e non ultimo un concetto di libertà più vicino all’assenza di confini (cosa psicologicamente non sana) e alla soddisfazione immediata, che alla libertà autentica, quella interiore.
Tutto questo va messo in dialogo, i giovani sono sia sensibili all’amore puro e intolleranti delle strumentalizzazioni, sia centrati su stessi, sull’immagine sociale, sull’autorealizzazione, su tutto e subito a basso costo, espressioni della cultura attuale. Questi due aspetti vanno accolti e integrati.
È un’incredibile opportunità per gli ambienti vocazionali, allora, lasciarsi mettere in discussione in modo serio e convinto, cioè non solo “tollerando” le eventuali critiche o la presenza scomoda dei nostri Marco, Lucia, Francesca. Per potersi rinnovare, per svecchiare forme e strutture che forse hanno meno da dire nell’oggi, e soprattutto per essere ancora attraenti per il mondo attuale, la vita consacrata deve lasciarsi disturbare dalle proposte nuove legate a una generazione assai diversa dalla precedente.
Questo non vuol dire che la tradizione, la storia, gli anziani debbano solo cedere il passo al nuovo, anzi! Anche perché il nuovo ha tutti i limiti di un narcisismo diffuso. Vuol dire piuttosto confrontarsi, anziani e giovani, su chi eravamo, ma anche su chi vogliamo essere.
La riflessione e il rinnovamento partono da cose molto pratiche: cosa è utile comprare in comunità oggi e cosa no, tanto per fare un esempio. Fino ad arrivare a questioni più vaste e sensibili: quale margine di autonomia hanno i membri della comunità? La leadership come può funzionare oggi? Le nostre relazioni intracomunitarie come vanno?
Ritengo fondamentale un’altra sottolineatura, accennata nella domanda iniziale: l’immediatezza emotiva di chi arriva in comunità, favorita dalla tecnologia, a discapito di una costruzione interiore che richiede tempo e qualche frustrazione. È vero. Anche in questo caso, tuttavia, penso che la proposta spirituale vada ripensata nel suo linguaggio. I giovani sono alla ricerca di orizzonti di senso forti e veri. Perciò vanno aiutati a raggiungerli, vanno affiancati perché si innamorino della Parola, e facciano esperienza del dono di sé e non solo della realizzazione di sé (che comunque rimane un valore).
Per questo i testimoni sono fondamentali. Uomini e donne con anni di cammino che possano dire con la vita la bellezza della risposta vocazionale, che è molto più di un adempimento di norme e precetti. Purtroppo ciò non è scontato. I giovani talvolta lamentano anziani arrabbiati e insoddisfatti (almeno così appaiono loro), che forse sono stati impediti dal vecchio stile formativo nelle loro passioni personali.
Per cui vedo molto bene la sfida generazionale! Quasi una salvezza per entrambe le parti:
- i giovani portano una freschezza non strutturata, insieme, però, a tante insicurezze;
- i decani portano una profondità, una tradizione, una storia, che però può aver perso vitalità.
Ben vengano, allora, gli strumenti che sostengono la crescita anche intellettuale e la soddisfazione di sé (dimensioni psicologiche importanti e sane), ma accanto va alimentato il fuoco di un Incontro che cambia l’esistenza, sul serio. Dialogare e confrontarsi, e ancora dialogare e confrontarsi, senza mai interrompere questo processo, è di aiuto enorme per favorire il rinnovamento e il benessere comunitario.