Come aiutare a superare la mancanza di passione, la stanchezza, l’individualismo esagerato, le difficoltà nei rapporti che a volte emergono? Possono essere segnali di mancanza di vocazione alla vita comunitaria? Come aiutare la persona affinché si renda cosciente? Perché accade che tante volte lo vedono e soffrono gli altri compagni, il responsabile, la comunità… E non lo vede, né lo accetta, lei o lui. Un consacrato
La domanda è molto interessante e tocca diversi aspetti dei processi umani e in particolare di quelli vocazionali. Inizio dalla fine. La
consapevolezza di sé è un aspetto fondamentale del vivere insieme. Credo che difficoltà caratteriali e limiti personali non siano di impedimento alla la vita comunitaria,
purché… la persona sia disponibile ad acquisire un contatto autentico con se stessa e accetti di provare a esaminare quegli aspetti che altri, invece, vedono chiaramente.
Uno dei riquadri della famosa
finestra di Johari – dai nomi dei due psicologi Joe Luft e Harry Ingham, che l’hanno elaborata nel 1955 – definisce «
area cieca»
quella parte di me che io stesso ignoro, ma che chi mi sta accanto e intorno conosce.
Area
aperta - quello che so su di me e racconto agli altri
Area
segreta - quello che so su di me, ma mantengo riservato
Area
cieca - quello che
non so su di me, ma gli altri sanno
Area
ignota - quello che non so su di me e anche gli altri ignorano
Come aiutare a rendere meno “ciechi” quegli aspetti che sfuggono alla conoscenza della persona interessata?
La
vita comunitaria in se stessa normalmente favorisce un allargamento ed un approfondimento del «chi sono», e di «come mi relaziono agli altri». Mi capita spesso, in effetti, di ascoltare da sacerdoti, consacrati e consacrate quanto il rapporto con la gente, il trovarsi con i fratelli e le sorelle, perfino i pasti e i momenti di festa, li aiutino a diventare
più autentici. Questo accade perché il contatto quotidiano, e non solo sporadico, e la
condivisione di tanti momenti semplici e ordinari in comunità facciano sentire liberi i membri di offrirsi un rimando schietto l’uno all’altro: «ti vedo nervoso», «mi sembri impaziente». E tale scambio informale permette (o dovrebbe permettere) di acquisire un sguardo su di sé più realistico: «
sai che non mi ero mai pensato in questi termini?», «sai che non mi ero mai accorto di essere così?», «grazie per avermi fatto notare che talvolta sono brusca».
Tuttavia
tale processo di crescente consapevolezza non è scontato. C’è chi accetta questo gioco di scambio di luci che la fraternità permette, a differenza del mondo esterno dove di solito prevalgono la forma e la compiacenza per interesse, o comunque dove la conoscenza interpersonale rimane più superficiale. Ma c’è anche chi rimane
rigido,
sulla difensiva, e non accetta che altri possano vedere aspetti di sé che egli non coglie, rifiutando quelle considerazioni che non corrispondono a ciò che lui o lei conosce di se stesso/a. Le ragioni possono essere diverse, ma sta di fatto che la persona non ha nessuna intenzione almeno di provare a riflettere sulle cose che le vengono dette. E qui si arriva al cuore della domanda.
I
colloqui personali, i dialoghi a due rappresentano, di solito, il contesto più delicato e adatto nel quale alcuni osservazioni meno piacevoli dovrebbero trovare un’accoglienza migliore. È chiaro, però, che occorre
fiducia reciproca perché si possa entrare nella sfera personale dell’altro in un modo che non suoni giudicante, ma
affettuoso anche se critico.
E la fiducia richiede tempo e pazienza. In ogni caso, non si dovrebbe mai mettere nessuno in condizioni di sentirsi ferito da un qualche commento meno benevolo, specialmente in pubblico. In molte comunità, comunque, c’è anche la possibilità di
un momento strutturato di verifica comunitaria, e questo appuntamento può aiutare nella comunicazione reciproca.
Purtroppo, però, non è detto che neppure con una base di fiducia e in un contesto riservato, la persona interessata recepisca le indicazioni del responsabile, o degli altri confratelli o consorelle. Per cui i rimandi non vengono in alcun modo integrati dentro di sé.
Allora, la migliore comunità possibile, i superiori più attenti,
possono fare ben poco. Credo che proprio la scarsa docilità (
docibilitas, come la chiamerebbe Cencini), sia un grande impedimento al buon vivere insieme, e rappresenti uno degli aspetti di
immaturità, apparentemente secondario, ma in realtà
grave per una vocazione comunitaria.
In genere
la disponibilità al confronto, a lasciarsi interrogare dalla vita comunitaria, e il desiderio di cambiare anche attraverso e grazie agli altri,
emerge fin dalla formazione iniziale. È importante, perciò, accompagnare chi intraprende il percorso vocazionale in una progressiva apertura al formatore/formatrice e agli altri anche rispetto al sapersi mettere in discussione (che
non vuol dire entrare in crisi per qualunque commento esterno!). Se questo non avviene, è improbabile che poi la persona si renda disponibile a ciò, negli anni a seguire, diventando “una bella croce” per le persone intorno! Sono comunque fratelli e sorelle da accogliere ed amare, in modo particolare, senza mai perdere la speranza di un miglioramento possibile (per questo possiamo anche pregare).
Pertanto, riprendendo la domanda iniziale, e concludendo: la stanchezza,
la perdita di passione, l’individualismo di un fratello o una sorella di cui tutta la comunità si rende conto e si fa carico – come in famiglia ci si prende cura dei momenti di debolezza di qualcuno dei suoi membri – possono diventare
distruttivi per la persona non tanto in se stessi, quanto perché
ella non è disponibile a lasciarsi aiutare. Il rischio è che questa condizione peggiori nel tempo.
Gli altri intorno si dovranno allenare, allora, a starle accanto così, non avendo altre possibilità di intervenire in modo costruttivo. Bisogna comunque
rispettare la coscienza dell’altro, anche quando non la si comprende. Saper accogliere i suoi silenzi e le sue resistenze è parte del vivere insieme
adulto e non fusionale. Intendo con fusionale la situazione, negativa, dove tutti pensano e sentono allo stesso modo, come accade agli adolescenti (e talvolta in alcuni ambienti comunitari), che per essere accettati dal gruppo – e paradossalmente sentirsi “unici” – livellano le individualità, diventando tutti uguali.
Certo rimane importante
valutare e accompagnare fin dai primi anni formativi l’apertura di chi intraprende il percorso vocazionale, e la disponibilità al confronto, segni significativi di una
necessaria maturità di base. Solo se è presente tale capacità e il desiderio di crescere insieme nella vita comunitaria –
che emergono concretamente nella progressiva apertura dell’area cieca –, la persona rimarrà aperta alla fraternità. E nei momenti bui non si troverà da sola ad affrontarli.