Siamo stati chiamati a una grande vocazione, che abbiamo vissuto con entusiasmo e stupore. Man mano che il tempo passa sorge il desiderio di essere apprezzati, di avere sicurezze; all’inizio non ci importavano, ora la conseguenza è che si voglia far valere queste esigenze, e, se non soddisfatte, col tempo c’è il rischio che la persona inizi ad avere una doppia vita, a volte in modo inconscio, altre volte in modo cosciente; si perde l’incanto, la pienezza. Come possiamo aiutarci a rimanere in questo incanto e pienezza e, soprattutto, ad essere sinceri con Dio? Un consacrato
Credo che la domanda ponga uno degli interrogativi più discussi nella vita comunitaria: come affrontare il calo dell’entusiasmo nel tempo, quando c’è il rischio di riprendersi quello che si è donato? E quale spazio dare alle esigenze più o meno esplicite di espressione di sé di uno o più membri di comunità? In tutti e due i casi, c’è un “movimento” inatteso nella persona.
Certo, all’inizio di una scelta forte di vita, matrimonio o percorso vocazionale in senso stretto, la passione e la voglia di iniziare qualcosa di nuovo mettono le ali. La sensazione è che tutto sia possibile, che qualunque difficoltà non sia così grave, che staremo bene come il primo giorno, e che la mia vita non è per me, ma per l’altro (partner, comunità, missione). Nel tempo, però, le cose cambiano.
Una consacrata mi raccontava: «Avevo nel cuore l’ideale di Nazareth, vivere una vita non-visibile, lavorare come lievito nella pasta senza dover apparire, questa era la grande forza dei miei primi anni nella Congregazione. Oggi sento che ho bisogno di essere riconosciuta in quello che faccio, anzi ho bisogno di portare avanti proprio io alcune attività, ho bisogno di margini di autonomia, sono diventata molto meno tollerante ai “no” dei miei superiori».
Come leggere questa ed altre situazioni simili? Come perdita di fede? Come pericolo per la vocazione? Non è detto!
Dico subito, perciò, che la variazione, il cambiamento delle condizioni interiori delle persone, di ciascuno di noi, rientrano nei normali processi umani che non sono mai lineari e semplici. Ma rientrano anche nell’evoluzione delle motivazioni che sostengono le scelte importanti e che hanno bisogno di essere rinnovate e aggiornate, perché non è possibile che mantengano la stessa “forma” degli inizi. Nel frattempo sono passati anni, esperienze, gioie e delusioni, che danno uno sguardo nuovo su noi stessi e sulla vita: magari emergono aspetti di noi che non conoscevamo, arrivano nuovi incarichi di apostolato/lavoro, o magari non si può più portare avanti quello che si stava facendo con soddisfazione perché purtroppo veniamo spostati altrove, o perché le energie non sono più le stesse di 10, 20, 30 anni prima. Sono tanti gli eventi che intervengono lungo il corso del tempo e questi inevitabilmente inducono un cambiamento per poterci adattare alle nuove situazioni. Insorgono emozioni che non si erano mai provate, si desiderano esperienze che non si immaginavano prima.
Tuttavia, il processo di cambiamento ha in sé delle potenzialità notevoli e non è qualcosa da subire passivamente o che ci si limita a constatare, come dato di fatto. Anzi, ciò che rende il momento un’occasione di ripartenza è proprio l’atteggiamento con cui lo si affronta.
In fondo, è necessaria una nuova sintesi tra ciò che sono oggi e le motivazioni che hanno sostenuto la scelta di allora (del partner, del seminario, della comunità), e questa ricerca coinvolge non solo la persona direttamente interessata.
Ritengo, allora, che ci siano due momenti forti e necessari perché questo processo diventi un arricchimento e non uno stop o una regressione personale.
- La consapevolezza di quello che sto vivendo. Stanchezza e bisogno di riconoscimento, «sono stufo che nessuno mi riconosca tutto il lavoro che porto avanti», bisogno di autonomia, «sono un adulto e sento che è importante poter decidere secondo i miei criteri, e forse tentare qualcosa di nuovo», rabbia, «questa comunità è ingrata, mai una parola buona», senso di abbandono, «ora che non ho più le stesse energie, mi sento messo ai margini, allora mi cerco un impegno per conto mio».
- Il confronto, con la comunità, con altri fratelli e sorelle. Il momento critico di un membro – “crisi” letteralmente vuol dire, però, decisione –, è criticità per tutta la famiglia circostante. Credo che sia fondamentale la dimensione fraterna in momenti simili.
Che avvenga un calo, che ci siano difficoltà personali o magari semplicemente che ci siano bisogni nuovi, non è un dramma ma un’occasione per tutti per fermarsi ad ascoltare. Forse non tutte le ragioni di quel fratello o sorella sono irragionevoli. Anche quella sua condizione di tristezza potrebbe essere un indicatore importante che qualcosa va ripensato nella vita comunitaria.
È decisiva, allora, la possibilità che la persona ha di parlare di ciò che sta vivendo e, per la comunità, cercare di capire di cosa l’altro abbia bisogno, cosa vorrebbe, cosa vive, cosa possa aiutarlo a star bene con la propria vocazione e con la sua fraternità.
L’eventuale diffidenza da entrambe le parti – il fratello/la sorella si chiude e quindi si “aggiusta” per conto proprio, la comunità ritiene che sia solo questione di rivendicazioni immotivate e quindi isola la persona – non aiuta ad affrontare ciò che sembra una perdita d’incanto, o comunque un momento nuovo, tutto da capire.
Perciò penso che prima di decidere che quella persona si è impigrita o “mondanizzata”, dovremmo pensare che forse non riesce più a percepire la grandezza della vocazione e vive un momento cupo, o potrebbe aver bisogno di nuovi stimoli, di spazi diversi, di realizzazioni che la facciano sentire viva. In tutti e due i casi avere fratelli e sorelle intorno che provano ad ascoltare e capire, senza censurare, le esigenze dell’altro, permette di trovare strade percorribili e soprattutto di non chiudersi reciprocamente. Il cammino è in entrambe le direzioni.
La possibilità, sempre preziosa, di confronto permette alla persona di rendersi conto che i suoi cambiamenti toccano tutti e quindi è “insieme” che si devono affrontare. E permette alla comunità di crescere insieme ai cambiamenti dei suoi membri.
Talvolta ho constatato come la non-chiusura abbia aperto strade nuove per la comunità stessa che rischia, altrimenti, di rimanere asfittica, chiusa nelle proprie sicurezze e in un ideale disincarnato dalla storia concreta dei suoi membri, che non sono tutti uguali.
Dunque: custodire la grandezza della vocazione non vuol dire che questa rimane statica, come era agli inizi. Vuol dire, invece, che proprio per essere vitale deve aprirsi al dialogo. Perciò, se per qualcuno arrivano momenti di “bassa marea”, o se la persona esprime esigenze nuove, parlarne ed ascoltarsi in comunità può aprire scenari nuovi per entrambe le parti, e riduce il rischio molto serio di sdoppiamenti di vita. È importante che il fratello o la sorella parli, che esprima apertamente ciò che vive, ciò che va comprendendo di sé e delle proprie esigenze, rendendosi disponibile al confronto con gli altri.
Ed è importante che la comunità, a sua volta, sia attenta ai segnali di cambiamento dei suoi membri, non si tiri indietro, sulla difensiva, ma rimanga vicina e disponibile ad ascoltare e accogliere le evoluzioni dei suoi membri. Questa sensibilità reciproca è ciò che rende il vivere insieme vivo, autentico, creativo, aperto al futuro.