L'esperto risponde / Società

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Omosessuale in comunità

Gent.ma Chiara, ho inviato il suo articolo ad alcuni amici per avviare un dialogo sull’argomento che lei ha affrontato nella sua rubrica (Omossessualità: le parole pesano). Prima ancora di questo confronto, voglio farle arrivare la mia reazione personale. […] Credo che l’ingresso di una persona di “orientamento omosessuale” in una comunità che prevede una convivenza fra soggetti dello stesso sesso, possa essere considerato come mera eccezione, un caso d’accademia che serve a riaffermare che nessun prodigio è impossibile all’Amore. […]

Secondo me, quanto ha scritto, non tiene in dovuta considerazione (almeno nella stessa considerazione) il bene della comunità quanto il bene della persona che ha un “orientamento omosessuale”. […] Io penso sinceramente che sarebbe un tradimento degli ideali comuni entrare in una comunità che prevede la convivenza fra persone dello stesso sesso, non rivelando la propria omosessualità almeno a tutte le persone con cui si convive, oltre che ai propri responsabili. Tenere nascosto l’orientamento sessuale significa non potere di fatto condividere gli occhi con cui si guarda il mondo, vivere nella falsità. Soffrire non potendo manifestare i propri gusti, la propria umanità.

[…] Rischiando, dico che non è per niente prudente accettare in una comunità che prevede la convivenza fra soggetti consacrati dello stesso sesso persone di “orientamento omosessuale”. “. (Non credo si tratti di una posizione discriminatoria. Personalmente non giudico il valore delle persone a seconda del loro orientamento sessuale). In tutti i casi che conosco in cui è avvenuta questa decisione ha generato dolore nella comunità e dolore nelle persone. […] Secondo me deve essere una regola (non giuridica ma di buon senso) che le persone vicine e conviventi debbano conoscere l’orientamento sessuale di chi sta accanto a loro.

L’orientamento sessuale non è una caduta morale, un peccato da confessare, una cosa del foro interno. È una condizione dell’essere. Non si può entrare in una comunità senza condividere i tratti essenziali del proprio essere, sarebbe una contraddizione in termini, il tradimento di un patto: io rivelo a voi me stesso, voi rivelate a me voi stessi, perché vogliamo essere una cosa sola, una comunità, un corpo vivo. […]

Il modo di procedere del suo ragionare sulla questione, a mio parere, agisce sotto l’influenza di una certa cultura che mette al centro l’individuo credendo di mettere al centro la persona. […] La concessione del proprio sé agli altri rimane indispensabile quando si decide di legarsi così strettamente ad altri. […] Quando mi unisco in un vincolo stretto, di famiglia, non rischio solo me stesso. Qualcuno rischia con me, almeno quanto me.

(David Crigger/Bristol Herald Courier via AP)

Gent.mo lettore, innanzitutto una parola di stupore grato e ammirato per l’accuratezza della sua lettura, e per aver raccolto il mio invito a portare avanti una riflessione onesta e critica, e non solo “adesiva”. Mi rammarico che il suo testo, ben più ampio, non possa essere riportato interamente per ragioni di spazio, ma cercherò di non perdere nessun contenuto di quanto lei condivide, nel caso qualcosa sfuggisse sarebbe solo per la vastità dell’argomento.

In questo numero condivido uno spaccato del rapporto individuo-comunità, mentre nel prossimo numero approfondirò nello specifico la prospettiva comunitaria.

Un po’ di teoria e un po’ di pratica, senza alcuna pretesa né di verità assoluta (ci mancherebbe), né che sia la prospettiva migliore. È la mia, frutto di studio, ricerca ed esperienza di tanti anni, anche accanto alle comunità di vita consacrata, che, da credente, stimo profondamente.

La vita in comune è una realtà umano-trascendente di persone adulte che sono accomunate da un Ideale, via privilegiata per una compiutezza di sé, anch’essa umano-trascendente. Seminario e/o realtà comunitaria diventano l’intuizione di un percorso che la persona percepisce come significativo, come luogo di incontro con Dio e di espressione massima delle proprie risorse e talenti. Parliamo volentieri di famiglia, in quanto è la categoria antropologica più affine.

Eppure la realtà carismatica non coincide esattamente con la famiglia umana: i membri si ritrovano inizialmente come “estranei”, entrando già adulti, almeno cronologicamente, con storie di vita diverse alle spalle. Insieme, essi compiono un cammino di fraternità da costruire e custodire quotidianamente.

Quindi:

  1. il ritrovarsi accomunati da un carisma, da una “chiamata”, attiva una dinamica originalissima di rapporto personale con Dio e nello stesso tempo di apertura all’altro, mio fratello, mia sorella, in un ritmo dal sapore unico di io-noi, dove nessuno dei due poli può esaurirsi in se stesso. Sono «io» a vivere un rapporto con Dio, e siamo «noi» a camminare e a costruire una fraternità carismatica, a coltivare «un sogno comune», come lei scrive in un passaggio molto bello della sua lettera.
  2. La comunità non è un blocco già pronto in cui si entra, è qualcosa da far nascere e portare avanti, è un processo. Sì, la comunità è un processo di espansione di sé, un laboratorio di umanità, veramente riuscita quando i membri riescono ad aprirsi, a condividere dimensioni profonde, ad essere autentici. In questo sono pienamente d’accordo con lei.

 

Però occorre arrivarci. Devono esserci condizioni, anche umane, che consentano l’apertura di sé. Occorre un clima accogliente, sereno, non giudicante (e non solo di facciata) – che coinvolge i responsabili e i fratelli e le sorelle – dove questa consegna di se stessi sia libera e desiderata dalla persona stessa, anzi un’esigenza profonda, quasi un’urgenza personale e non certo una regola né giuridica, ma neppure di buon senso.

Quando questo non accade – la persona non rivela in toto «chi è» – siamo onesti, è responsabilità solo della persona? E la comunità che parte ha? Quando un figlio omosessuale non riesce a parlare liberamente dentro casa e rivela se stesso fuori delle mura domestiche piuttosto che dentro la famiglia, siamo certi che sia una negligenza tutta sua? Credo doverosa la domanda e ineludibile.

Sarebbe bello e auspicabile, direbbe p. Giuseppe Piva – gesuita che da anni si occupa di Esercizi spirituali e di accompagnamento «di frontiera» –, se fosse «una cosa normale» che la persona omosessuale potesse comunicare se stessa ed il proprio orientamento ai suoi confratelli/consorelle fin dall’inizio, ma di fatto questo non accade e non può accadere (aggiungo io).

Gli ambienti formativi e comunitari, infatti, non sempre sono pronti, disponibili e preparati a questo. C’è ancora paura, sospetto, imbarazzo di fronte all’omosessuale, uomo o donna, che creano reticenza, diffidenza, e scissione in chi entra tra ciò che può dire e ciò che non può dire. È giusto riconoscerlo e dirselo in comunità. Se ne parla mai di questo? Come accoglieremmo un fratello o sorella omosessuale? Siamo pronti a farlo?

Quando il clima domestico lo consentisse, allora certamente dovrebbe essere desiderio e bisogno della persona parlare di se stessa, anche perché è un’esperienza stupenda potersi aprire in casa propria e sentire un’accoglienza serena e benevola. Domandiamoci se davvero ci siano le condizioni comunitarie di fiducia per farlo, e quale violenza sarebbe il forzare con un obbligo la propria intimità. Riflettiamo su come rendere i nostri ambienti, famiglia, seminario, comunità, spazi dove sul serio ciascuno è se stesso e viene accompagnato – a partire da quello che è, orientamento incluso – a crescere nella verità e nel dono di sé, senza ingenuità o menzogna. I nostri ambienti sono ancora troppo impacciati su questo.

Un altro aspetto che mi sta a cuore riprendere, e chiedo scusa se sarò diretta e purtroppo rapida: l’omosessualità non coincide con una difficoltà di «identità di genere», il sentirsi maschio o femmina. E neppure con una difficoltà di continenza affettiva e/o sessuale. La invito – con semplicità, dato che a mia volta cito un altro studioso – a dare un’occhiata alla tabella proposta da Dettore su eterosessuali ed omosessuali «tipici e soddisfatti» (Percorsi vocazionali e omosessualità, Città Nuova 2020, pp. 30-31), coloro, cioè, che non presentano difficoltà di accettazione del ruolo di genere, né di corporeità.

In altre parole: stanno bene con se stessi e non sono «riconoscibili» come omosessuali. Dare, quindi, per inteso che l’omosessualità in qualche modo falsi le dinamiche relazionali, mi pare presupponga un qualche scompenso di genere, quanto meno. Le dinamiche relazionali sono falsate anche da quelle competitive, di gelosie e pettegolezzi, non certo legate alla dimensione omosessuale (cito ancora, a braccio, le parole di p. Piva sj).

L’orientamento omosessuale è un aspetto importante della persona, eccome, dice qualcosa di lei, del suo desiderare, essere attratta, amare, ma ciò non equivale a falsare le dinamiche interne ad un ambiente.

Esiste, del resto, a monte, un codice non scritto di rispetto, prudenza, discrezione nel vivere insieme, proprio dell’essere adulti-consacrati-chiamati da Dio. Non ci si prende per mano, non si dorme nello stesso letto e possibilmente nella stessa camera, non si gira nudi per casa. Tanto per essere chiari. C’è (o ci dovrebbe essere) un decoro nel vestire, nel parlare, nel mangiare, nel vivere un apostolato. Credo che la stessa dignità sia doverosa anche in famiglia: è bene che un padre o una madre conservino il pudore del proprio corpo davanti ai figli.

Allora, e nuovamente, per concludere: magari si potesse raggiungere una trasparenza di apertura di sé, in modo che gli scambi, le interazioni, la crescita del gruppo fossero fondati su una base di franchezza e autenticità, ma questo non si può supporre in partenza, né obbligare. Se nel tempo dovessi scoprire che un fratello con cui ho vissuto è omosessuale e me lo rivela solo dopo anni di amicizia, una domanda su cosa di me non gli abbia permesso questa condivisione me la porrei. A livello individuale e comunitario. Come dire: peccato non aver messo Mario nelle condizioni di essere quello che è.

Quando Mario o Francesca riescono, invece, a parlare in casa della propria omosessualità, quale ricchezza emergerà per tutti. Che opportunità preziosissima di lavorare insieme come comunità, di crescere nella comprensione reciproca e nella verità dei figli di Dio chiamati alla pienezza dell’amore celibe e casto. Quale forza avrà quel gruppo che saprà costruire e offrire un clima di fiducia e stima reciproca, condizioni essenziali per il self-disclosure (l’apertura totale di sé) e poi l’integrare la specialità e la peculiarità di ciascuno come un tesoro irrinunciabile per essere una fraternità vera che cammina verso il sogno comune.

 

 

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Vita in comune

In comunità: andrà tutto bene

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Le realtà comunitarie, i sacerdoti nelle loro parrocchie… tutti stiamo vivendo lo stesso momento durissimo, fatto di distanze e accortezze innaturali. La sua esperienza, incontrando molti di noi, qual è?


Questa volta rispondo condividendo le testimonianze che ho raccolto personalmente da consacrati e consacrate, sacerdoti, monaci e monache che raccontano, appunto, il loro vissuto di questi giorni, ai tempi del Covid-19. Il messaggio comune? Un risveglio di fraternità, purtroppo talvolta sepolta da uno stile di vita che rischia di renderci meno umani, tutti. E allora, quando si esce dalle zone di confort, dalle sicurezze ordinarie alle quali siamo attaccati – certo da soli non lo sceglieremmo mai –, si possono scoprire risorse personali e comunitarie inaspettate. Il dramma di questo periodo e le distanze forzate stanno unendo coppie, famiglie e comunità, nel dolore ma anche nel coraggio solidale.   «Siamo una comunità relativamente piccola con due giovani, qualcuna di mezza età e poi altre anziane. Alcune di noi operano all’esterno e il primo pensiero che abbiamo avuto, ovviamente, è stato per le nostre sorelle più grandi di età. Fin dall’inizio dell’allarme, anzi prima ancora arrivassero decreti restrittivi, abbiamo deciso di ritirarci dentro casa. Ci è sembrato il miglior gesto di solidarietà con cui potevamo contribuire a questo momento che accomuna il nostro Paese. Certo ammetto che, proprio perché ormai siamo abituate a vivere insieme a stretto contatto, non è facile rispettare tutta una serie di accortezze che riguarda l’impiego di particolare cura nel lavaggio delle nostre stoviglie, ordinariamente condivise, il distanziare i posti a tavola, gli spazi della preghiera, il fare attenzione a non stare troppo ravvicinate, per quanto possibile in un ambiente comunque ristretto. In tutto questo l’esperienza più significativa credo sia vedere le nostre sorelle anziane grate e commosse per l’attenzione speciale nei loro riguardi. Una di loro, che di solito è molto critica verso la nostra generazione, ci ha espressamente ringraziate dicendoci che ritirava i commenti sulla nostra “leggerezza” perché proprio in questo momento di bisogno si è reso visibile un affetto profondo e familiare verso di loro. In effetti siamo molto attente alla loro salute, per noi sono un bene prezioso le nostre sorelle più grandi. In loro vediamo e pensiamo ai nostri nonni lontani da qui. Chissà che il tanto discusso gap tra decane e nuove arrivate non si sia ridotto di qualche metro e che altri anziani possano fare un’esperienza simile». Una consacrata in formazione   «Quando abbiamo iniziato quest’avventura nazionale ci siamo riuniti tra noi e ci siamo chiesti cosa avremmo potuto fare. Ammetto che lo spavento c’era, e sì che noi viviamo di fede! Eppure ci siamo sentiti piccoli e impotenti. Abbiamo temuto che per tanti uomini stare dentro casa, fermi, quasi impossibilitati a uscire, sarebbe stata una vera sfida! Le lascio immaginare! Posso dire, senza millantare nessun merito, che sta andando meglio di quanto ci aspettavamo noi stessi. Il tempo insieme, dentro casa, è una cosa nuova, di solito siamo tutti di corsa in tanti posti diversi a motivo dell’apostolato o del lavoro, pasti frettolosi, serate senza un dopocena condiviso (chi è stanco, chi deve preparare il da farsi per il giorno dopo, chi ha degli arretrati da ultimare). E invece eccoci a rallentare i ritmi, senza dubbio accomunati da un momento così particolare nella nostra storia. Forse qualcuno si scandalizzerà, ma a noi religiosi, o almeno alla nostra comunità, sta facendo bene – fermo restando la tragedia dell’evento – il “doversi” ritrovare a re-inventare il tempo comune. Rispettiamo le distanze di sicurezza e le precauzioni sanitarie, eppure cerchiamo di seguire insieme le notizie, le commentiamo a tavola, ci chiediamo l’un l’altro come stanno le rispettive famiglie. Quelli che possono si mettono a disposizione via telefono per ascoltare e supportare le persone che sono a noi in qualche modo legate (giovani, coppie, famiglie) e questa iniziativa, pur così semplice, mi sembra una gran cosa. Vorremmo essere vicini a quanti sono in condizioni difficili o drammatiche. Speriamo, ovviamente, che quanto prima tutto torni alla normalità, ma se questo clima comunitario diventasse la normalità?» Un sacerdote religioso   «Siamo una comunità di monache. Noi “dentro” ci siamo sempre, non è questo che segna il tempo attuale per noi. E neanche la distanza da rispettare, la casa è grande e non siamo così tante come un tempo, per cui è un’attenzione semplice da mantenere anche nel coro in cui preghiamo. Ci siamo dette che però questo momento storico e sociale chiede anche da noi qualcosa di speciale. Cosa? Noi preghiamo sempre per i nostri cari e per tanti che sono in prima linea nella vita operativa. Abbiamo senz’altro rafforzato la preghiera, ma sentivamo che questo non bastava. Qualcuna di noi ha saputo che altre comunità si sono rese disponibili all’ascolto via social, e allora ci siamo buttate anche noi. Meno male che ci sono le nostre giovani native digitali! Non è una modalità consueta, ma perché non aggiornarci per metterci in un ascolto nuovo? E poi abbiamo fatto esperienza di rimanere in contatto con alcuni sacerdoti diocesani per pregare insieme, sebbene in modo virtuale. Loro adesso sono isolati dalle loro comunità, alcuni non possono stare accanto alle famiglie, insomma tutti abbiamo bisogno di non sentirci soli. Chi crede che siamo supereroi, beh diciamo con grande semplicità che no, non lo siamo. Abbiamo bisogno di sentirci fratelli e sorelle e di sostenerci nella fede quando abbiamo paura, magari non per noi, ma per i nostri cari, alcuni dei quali sono nelle zone rosse più colpite. In questi giorni ci stiamo incoraggiando a vicenda, tra noi sorelle, “parlando” di Dio, della sua Provvidenza, della sua paternità, scambiandoci parole buone e le esperienze di bene di cui veniamo a conoscenza. Noi che viviamo di Parola, possiamo dare per scontato questo dono immenso della fede che dà speranza, e i momenti di “prova” ci danno modo di rimettere al centro le cose essenziali per le quali abbiamo dato la vita. Vorremmo dire a quanti sono sul campo in questo momento, medici e infermieri, ma anche le tantissime famiglie che sono costrette a casa, magari con bambini piccoli da gestire, che non sono sole, che siamo un’unica grande famiglia». Una claustrale  
Vita in comune

Se cala l’entusiasmo

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Siamo stati chiamati a una grande vocazione, che abbiamo vissuto con entusiasmo e stupore. Man mano che il tempo passa sorge il desiderio di essere apprezzati, di avere sicurezze; all’inizio non ci importavano, ora la conseguenza è che si voglia far valere queste esigenze, e, se non soddisfatte, col tempo c’è il rischio che la persona inizi ad avere una doppia vita, a volte in modo inconscio, altre volte in modo cosciente; si perde l’incanto, la pienezza. Come possiamo aiutarci a rimanere in questo incanto e pienezza e, soprattutto, ad essere sinceri con Dio? Un consacrato  


Credo che la domanda ponga uno degli interrogativi più discussi nella vita comunitaria: come affrontare il calo dell’entusiasmo nel tempo, quando c’è il rischio di riprendersi quello che si è donato? E quale spazio dare alle esigenze più o meno esplicite di espressione di sé di uno o più membri di comunità? In tutti e due i casi, c’è un “movimento” inatteso nella persona. Certo, all’inizio di una scelta forte di vita, matrimonio o percorso vocazionale in senso stretto, la passione e la voglia di iniziare qualcosa di nuovo mettono le ali. La sensazione è che tutto sia possibile, che qualunque difficoltà non sia così grave, che staremo bene come il primo giorno, e che la mia vita non è per me, ma per l’altro (partner, comunità, missione). Nel tempo, però, le cose cambiano. Una consacrata mi raccontava: «Avevo nel cuore l’ideale di Nazareth, vivere una vita non-visibile, lavorare come lievito nella pasta senza dover apparire, questa era la grande forza dei miei primi anni nella Congregazione. Oggi sento che ho bisogno di essere riconosciuta in quello che faccio, anzi ho bisogno di portare avanti proprio io alcune attività, ho bisogno di margini di autonomia, sono diventata molto meno tollerante ai “no” dei miei superiori». Come leggere questa ed altre situazioni simili? Come perdita di fede? Come pericolo per la vocazione? Non è detto! Dico subito, perciò, che la variazione, il cambiamento delle condizioni interiori delle persone, di ciascuno di noi, rientrano nei normali processi umani che non sono mai lineari e semplici. Ma rientrano anche nell’evoluzione delle motivazioni che sostengono le scelte importanti e che hanno bisogno di essere rinnovate e aggiornate, perché non è possibile che mantengano la stessa “forma” degli inizi. Nel frattempo sono passati anni, esperienze, gioie e delusioni, che danno uno sguardo nuovo su noi stessi e sulla vita: magari emergono aspetti di noi che non conoscevamo, arrivano nuovi incarichi di apostolato/lavoro, o magari non si può più portare avanti quello che si stava facendo con soddisfazione perché purtroppo veniamo spostati altrove, o perché le energie non sono più le stesse di 10, 20, 30 anni prima. Sono tanti gli eventi che intervengono lungo il corso del tempo e questi inevitabilmente inducono un cambiamento per poterci adattare alle nuove situazioni. Insorgono emozioni che non si erano mai provate, si desiderano esperienze che non si immaginavano prima. Tuttavia, il processo di cambiamento ha in sé delle potenzialità notevoli e non è qualcosa da subire passivamente o che ci si limita a constatare, come dato di fatto. Anzi, ciò che rende il momento un’occasione di ripartenza è proprio l’atteggiamento con cui lo si affronta. In fondo, è necessaria una nuova sintesi tra ciò che sono oggi e le motivazioni che hanno sostenuto la scelta di allora (del partner, del seminario, della comunità), e questa ricerca coinvolge non solo la persona direttamente interessata. Ritengo, allora, che ci siano due momenti forti e necessari perché questo processo diventi un arricchimento e non uno stop o una regressione personale.
  • La consapevolezza di quello che sto vivendo. Stanchezza e bisogno di riconoscimento, «sono stufo che nessuno mi riconosca tutto il lavoro che porto avanti», bisogno di autonomia, «sono un adulto e sento che è importante poter decidere secondo i miei criteri, e forse tentare qualcosa di nuovo», rabbia, «questa comunità è ingrata, mai una parola buona», senso di abbandono, «ora che non ho più le stesse energie, mi sento messo ai margini, allora mi cerco un impegno per conto mio».
  • Il confronto, con la comunità, con altri fratelli e sorelle. Il momento critico di un membro – “crisi” letteralmente vuol dire, però, decisione –, è criticità per tutta la famiglia circostante. Credo che sia fondamentale la dimensione fraterna in momenti simili.
Che avvenga un calo, che ci siano difficoltà personali o magari semplicemente che ci siano bisogni nuovi, non è un dramma ma un’occasione per tutti per fermarsi ad ascoltare. Forse non tutte le ragioni di quel fratello o sorella sono irragionevoli. Anche quella sua condizione di tristezza potrebbe essere un indicatore importante che qualcosa va ripensato nella vita comunitaria. È decisiva, allora, la possibilità che la persona ha di parlare di ciò che sta vivendo e, per la comunità, cercare di capire di cosa l’altro abbia bisogno, cosa vorrebbe, cosa vive, cosa possa aiutarlo a star bene con la propria vocazione e con la sua fraternità. L’eventuale diffidenza da entrambe le parti – il fratello/la sorella si chiude e quindi si “aggiusta” per conto proprio, la comunità ritiene che sia solo questione di rivendicazioni immotivate e quindi isola la persona – non aiuta ad affrontare ciò che sembra una perdita d’incanto, o comunque un momento nuovo, tutto da capire.   Perciò penso che prima di decidere che quella persona si è impigrita o “mondanizzata”, dovremmo pensare che forse non riesce più a percepire la grandezza della vocazione e vive un momento cupo, o potrebbe aver bisogno di nuovi stimoli, di spazi diversi, di realizzazioni che la facciano sentire viva. In tutti e due i casi avere fratelli e sorelle intorno che provano ad ascoltare e capire, senza censurare, le esigenze dell’altro, permette di trovare strade percorribili e soprattutto di non chiudersi reciprocamente. Il cammino è in entrambe le direzioni. La possibilità, sempre preziosa, di confronto permette alla persona di rendersi conto che i suoi cambiamenti toccano tutti e quindi è “insieme” che si devono affrontare. E permette alla comunità di crescere insieme ai cambiamenti dei suoi membri. Talvolta ho constatato come la non-chiusura abbia aperto strade nuove per la comunità stessa che rischia, altrimenti, di rimanere asfittica, chiusa nelle proprie sicurezze e in un ideale disincarnato dalla storia concreta dei suoi membri, che non sono tutti uguali.   Dunque: custodire la grandezza della vocazione non vuol dire che questa rimane statica, come era agli inizi. Vuol dire, invece, che proprio per essere vitale deve aprirsi al dialogo. Perciò, se per qualcuno arrivano momenti di “bassa marea”, o se la persona esprime esigenze nuove, parlarne ed ascoltarsi in comunità può aprire scenari nuovi per entrambe le parti, e riduce il rischio molto serio di sdoppiamenti di vita. È importante che il fratello o la sorella parli, che esprima apertamente ciò che vive, ciò che va comprendendo di sé e delle proprie esigenze, rendendosi disponibile al confronto con gli altri. Ed è importante che la comunità, a sua volta, sia attenta ai segnali di cambiamento dei suoi membri, non si tiri indietro, sulla difensiva, ma rimanga vicina e disponibile ad ascoltare e accogliere le evoluzioni dei suoi membri. Questa sensibilità reciproca è ciò che rende il vivere insieme vivo, autentico, creativo, aperto al futuro.
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Rigidità e maturità umana

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Come aiutare a superare la mancanza di passione, la stanchezza, l’individualismo esagerato, le difficoltà nei rapporti che a volte emergono? Possono essere segnali di mancanza di vocazione alla vita comunitaria? Come aiutare la persona affinché si renda cosciente? Perché accade che tante volte lo vedono e soffrono gli altri compagni, il responsabile, la comunità… E non lo vede, né lo accetta, lei o lui. Un consacrato


La domanda è molto interessante e tocca diversi aspetti dei processi umani e in particolare di quelli vocazionali. Inizio dalla fine. La consapevolezza di sé è un aspetto fondamentale del vivere insieme. Credo che difficoltà caratteriali e limiti personali non siano di impedimento alla la vita comunitaria, purché… la persona sia disponibile ad acquisire un contatto autentico con se stessa e accetti di provare a esaminare quegli aspetti che altri, invece, vedono chiaramente. Uno dei riquadri della famosa finestra di Johari – dai nomi dei due psicologi Joe Luft e Harry Ingham, che l’hanno elaborata nel 1955 – definisce «area cieca» quella parte di me che io stesso ignoro, ma che chi mi sta accanto e intorno conosce. Area aperta - quello che so su di me e racconto agli altri Area segreta - quello che so su di me, ma mantengo riservato Area cieca - quello che non so su di me, ma gli altri sanno Area ignota - quello che non so su di me e anche gli altri ignorano Come aiutare a rendere meno “ciechi” quegli aspetti che sfuggono alla conoscenza della persona interessata? La vita comunitaria in se stessa normalmente favorisce un allargamento ed un approfondimento del «chi sono», e di «come mi relaziono agli altri». Mi capita spesso, in effetti, di ascoltare da sacerdoti, consacrati e consacrate quanto il rapporto con la gente, il trovarsi con i fratelli e le sorelle, perfino i pasti e i momenti di festa, li aiutino a diventare più autentici. Questo accade perché il contatto quotidiano, e non solo sporadico, e la condivisione di tanti momenti semplici e ordinari in comunità facciano sentire liberi i membri di offrirsi un rimando schietto l’uno all’altro: «ti vedo nervoso», «mi sembri impaziente». E tale scambio informale permette (o dovrebbe permettere) di acquisire un sguardo su di sé più realistico: «sai che non mi ero mai pensato in questi termini?», «sai che non mi ero mai accorto di essere così?», «grazie per avermi fatto notare che talvolta sono brusca». Tuttavia tale processo di crescente consapevolezza non è scontato. C’è chi accetta questo gioco di scambio di luci che la fraternità permette, a differenza del mondo esterno dove di solito prevalgono la forma e la compiacenza per interesse, o comunque dove la conoscenza interpersonale rimane più superficiale. Ma c’è anche chi rimane rigido, sulla difensiva, e non accetta che altri possano vedere aspetti di sé che egli non coglie, rifiutando quelle considerazioni che non corrispondono a ciò che lui o lei conosce di se stesso/a. Le ragioni possono essere diverse, ma sta di fatto che la persona non ha nessuna intenzione almeno di provare a riflettere sulle cose che le vengono dette. E qui si arriva al cuore della domanda.   I colloqui personali, i dialoghi a due rappresentano, di solito, il contesto più delicato e adatto nel quale alcuni osservazioni meno piacevoli dovrebbero trovare un’accoglienza migliore. È chiaro, però, che occorre fiducia reciproca perché si possa entrare nella sfera personale dell’altro in un modo che non suoni giudicante, ma affettuoso anche se critico. E la fiducia richiede tempo e pazienza. In ogni caso, non si dovrebbe mai mettere nessuno in condizioni di sentirsi ferito da un qualche commento meno benevolo, specialmente in pubblico. In molte comunità, comunque, c’è anche la possibilità di un momento strutturato di verifica comunitaria, e questo appuntamento può aiutare nella comunicazione reciproca. Purtroppo, però, non è detto che neppure con una base di fiducia e in un contesto riservato, la persona interessata recepisca le indicazioni del responsabile, o degli altri confratelli o consorelle. Per cui i rimandi non vengono in alcun modo integrati dentro di sé. Allora, la migliore comunità possibile, i superiori più attenti, possono fare ben poco. Credo che proprio la scarsa docilità (docibilitas, come la chiamerebbe Cencini), sia un grande impedimento al buon vivere insieme, e rappresenti uno degli aspetti di immaturità, apparentemente secondario, ma in realtà grave per una vocazione comunitaria. In genere la disponibilità al confronto, a lasciarsi interrogare dalla vita comunitaria, e il desiderio di cambiare anche attraverso e grazie agli altri, emerge fin dalla formazione iniziale. È importante, perciò, accompagnare chi intraprende il percorso vocazionale in una progressiva apertura al formatore/formatrice e agli altri anche rispetto al sapersi mettere in discussione (che non vuol dire entrare in crisi per qualunque commento esterno!). Se questo non avviene, è improbabile che poi la persona si renda disponibile a ciò, negli anni a seguire, diventando “una bella croce” per le persone intorno! Sono comunque fratelli e sorelle da accogliere ed amare, in modo particolare, senza mai perdere la speranza di un miglioramento possibile (per questo possiamo anche pregare).   Pertanto, riprendendo la domanda iniziale, e concludendo: la stanchezza, la perdita di passione, l’individualismo di un fratello o una sorella di cui tutta la comunità si rende conto e si fa carico – come in famiglia ci si prende cura dei momenti di debolezza di qualcuno dei suoi membri – possono diventare distruttivi per la persona non tanto in se stessi, quanto perché ella non è disponibile a lasciarsi aiutare. Il rischio è che questa condizione peggiori nel tempo. Gli altri intorno si dovranno allenare, allora, a starle accanto così, non avendo altre possibilità di intervenire in modo costruttivo. Bisogna comunque rispettare la coscienza dell’altro, anche quando non la si comprende. Saper accogliere i suoi silenzi e le sue resistenze è parte del vivere insieme adulto e non fusionale. Intendo con fusionale la situazione, negativa, dove tutti pensano e sentono allo stesso modo, come accade agli adolescenti (e talvolta in alcuni ambienti comunitari), che per essere accettati dal gruppo – e paradossalmente sentirsi “unici” – livellano le individualità, diventando tutti uguali. Certo rimane importante valutare e accompagnare fin dai primi anni formativi l’apertura di chi intraprende il percorso vocazionale, e la disponibilità al confronto, segni significativi di una necessaria maturità di base. Solo se è presente tale capacità e il desiderio di crescere insieme nella vita comunitaria – che emergono concretamente nella progressiva apertura dell’area cieca –, la persona rimarrà aperta alla fraternità. E nei momenti bui non si troverà da sola ad affrontarli.
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Se arriva il Capitolo generale…

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Ci prepariamo, tra pochi giorni, a vivere il Capitolo Generale della nostra Congregazione, che ha qualche secolo di vita. Noi responsabili capiamo che, al di là delle strutture, avremo da riflettere sullo stile comunitario che ormai è il cavallo di battaglia dei nostri incontri e “scontri”. È difficile distinguere ciò che è fondamentale, da ciò che è temporaneo e quindi può cambiare. Se mi può dare qualche spunto credo che sarebbe molto utile. Una Superiora Provinciale. Il prossimo anno la mia Famiglia religiosa vivrà un importante momento per tutti noi: il Capitolo Generale. Molte cariche cambieranno e noi giovani speriamo che tante vecchie consuetudini finalmente cambino. In realtà siamo divisi, nel senso che “a gruppi” speriamo cose diverse e alla fine discutiamo su ciò che è essenziale e cosa non lo è. Un giovane seminarista in formazione.


Lo spazio della rubrica non riuscirà ad esaurire queste due considerazioni molto simili, che toccano una questione attuale. Provo, tuttavia, a condividere qualche spunto. Prima di tutto riprendo l’interrogativo concreto che emerge: cosa si può aggiornare o ripensare? La quantità di tempo insieme? Il cosa si fa? Il modo di stare insieme? Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che la dimensione relazionale è l’aspetto nevralgico della nostra società. Le coppie riflettono su cosa sia necessario per sentirsi coppia. Le comunità, maschili e femminili, si interrogano sulle tradizioni nelle quali si sono formate e se queste reggano i cambiamenti antropologici. Gli anziani si domandano «dove andremo a finire» di questo passo. E i giovani come potranno cavarsela nella convivenza con generazioni tanto diverse.   Un punto di partenza: le categorie di riferimento non sono solo quelle umane. Nei percorsi con Dio la motivazione per vivere insieme viene dalla fede. Non è un dettaglio, o solo una precisazione teorica, per di più scontata. L’Istituto che affronta un momento importante quale un Capitolo Generale, o un tempo di sistemazione delle proprie regole di vita, non può prescindere dalla sua origine carismatica. Quello che voglio dire, è che il Fondatore o la Fondatrice non ha creato una propria azienda, di cui è diventata padrona e poi ha assunto dei dipendenti, ma ha dato spazio ad un’Ispirazione che lui o lei ha assecondato, ma che nasceva Altrove. Quindi: nessuno possiede nulla. Ne segue un’incredibile libertà interiore. Paradossalmente, neppure chi riceve l’intuizione dallo Spirito può dirsi proprietario o titolare del carisma. E quella Famiglia religiosa non può considerare «sua» la novità di dare accoglienza ai poveri invisibili, di promuovere l’ecumenismo, di insegnare comunicando dei valori... In questa stessa linea, le opere sono funzionali a rendere operativo il carisma, ma vanno e vengono, si aprono e si chiudono a seconda delle necessità. Ciò che rimane, invece, è quella specifica Parola evangelica che ha messo in moto uomini, donne e le iniziative che ne sono nate. Come custodirLa e nello stesso tempo mantenerla viva?   Ecco che la vita comunitaria, dove sia prevista, «fa memoria» di quella Parola attraverso il suo stare insieme quotidiano, ma deve anche attualizzarla perché non perda vitalità. E qui veniamo alle domande iniziali. Il fondamento dello stare insieme e i valori che lo orientano rimangono immutati. Riconoscere l’obbedienza come scelta di libertà e di fiducia nella Provvidenza, vivere il rapporto con l’autorità (superiore/a, rettore, responsabile di comunità) all’interno di una fraternità dove siamo tutti uguali (il ruolo è funzionale al vivere ordinato, e non è eterno), impegnarsi nel lavoro in quanto parte dell’umanità, ma senza diventarne schiavi… sono dimensioni non soggette al tempo. Tuttavia l’incarnazione di tutto ciò può diventare oggetto di riflessione e aggiornamento. La flessibilità è un indice di maturità, individuale e di gruppo. Cioè il saper rispondere adeguatamente ai cambiamenti delle epoche e delle generazioni chiamate a seguire Gesù. Esprimerei, allora, in questi termini il modo di affrontare l’aggiornamento. Ogni realtà carismatica dovrebbe individuare una cornice minima che rappresenta le mura domestiche, senza le quali l’abitazione viene giù. Le dimensioni imprescindibili perché le persone che vivono insieme possano dirsi parte di una specifica realtà carismatica. Le mura però sono altra cosa dall’arredo, quindi sono da individuare solo quei confini al di là dei quali, sebbene non si faccia del male, si è “altro”. Una coppia più o meno esplicitamente fissa per se stessa dei limiti che salvaguardano l’esclusività del rapporto e l’essere famiglia, secondo propri criteri. Il limite ha un valore molto importante e sano. Senza confini c’è il caos, e i genitori lo sanno bene. Nel caso delle famiglie carismatiche:
  1. cosa ci rende famiglia francescana, legionaria, focolarina…? La nostra identità come si può esprimere nel concreto della vita fraterna perché ci riconosciamo appartenenti ad essa e non solo ospiti? Possono essere, per esempio, individuati determinati tempi e stili di preghiera comune, la condivisione di 1, 2 o tutti i pasti quotidiani. Ogni realtà ha una impostazione diversa del modo di intendere la vita in comune, e darsi indicazioni concrete aiuta a non vivere la fraternità in modo soggettivo, ma condiviso. Se ne può parlare, anzi è bene farlo, e qui tutti hanno diritto di parola, affinché insieme – e solo insieme – si trovino le coordinate per essere fraternità. Richiamo, però, l’individuazione di una cornice e non di tutti i dettagli dell’interno casa che, invece, potrebbero essere lasciati alle singolarità di ciascun membro. Il rischio, altrimenti, è di massificare la comunità e imporre una «uguaglianza» forzata che a lungo andare non regge. Le persone, quando non fuggono, trovano vie alternative per essere se stesse, ed è un peccato che non possano esserlo dentro casa loro. I formatori sanno quanto sono diverse tra i giovani le sensibilità sul vivere insieme. Non dettagliando tutto, ma solo le cose importanti, è molto più facile trovare un accordo e viverlo volentieri.
  2. Cosa vuol dire obbedienza? Cosa è per noi l’autorità? Anche in questo caso ogni realtà (come ogni coppia genitoriale) ha un modo più o meno elastico di vivere i rapporti verticali. Mi sembra bene parlarne, riflettere sul fatto che le nuove generazioni hanno un modo nuovo di intendere l’autonomia, i permessi, l’essere membri di una comunità. Dunque: possono essere aggiornati i margini di responsabilità dei fratelli e delle sorelle? Cosa rende disobbediente un giovane o una giovane? E cosa, invece, esprime l’individualità del singolo e quindi è positivo? Chiedo scusa, ma rinnovo che l’essenziale sono le mura portanti, e non il colore delle pareti, gli oggetti da mettere per abbellire le stanze…
  3. L’apostolato a cosa deve rispondere? In che modo il nostro specifico carisma si traduce nelle opere in cui siamo impegnati? Queste domande preservano dall’imporre una “modalità unica” (e pericolosa) di intendere la missione e di viverla nella pratica.
  Concludo: se il vivere comunitario nasce e si alimenta dei valori evangelici e dell’esperienza della tradizione, per rimanere vitale deve trovare il coraggio di alleggerirsi delle zavorre accumulate nel tempo. A partire dalla governance, e poi a cascata nella vita in comune, le realtà carismatiche non devono temere di perdere la propria identità, se fanno un’opera di discernimento su cornice/arredo (ormai ci capiamo). Anzi, leggere i tempi e saper adeguare ciò che va adeguato significa camminare nella storia e arrivare al cuore degli uomini e delle donne di oggi.
Vita in comune

Grazie a chi risponde Sì

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Come cominciare bene l'anno? Quali sentimenti augurerebbe ad un consacrato di avere in cuore?


A inizio anno sento l’urgenza di rimettere al centro di questa rubrica la grandezza e l’attualità delle scelte di appartenenza al Signore. È la consapevolezza del bisogno di testimoni viventi di un Oltre che inizia fin d’ora, e quindi del “grazie” che va loro indirizzato. Inevitabilmente le domande, le considerazioni, le risposte, gli scambi in questo spazio on-line vanno a toccare punti dolenti, o comunque dubbi e perplessità della vita in comune e del servizio come ministri. Il rischio, allora, è che passi un universo vocazionale a tinte scure. Non è certo l’intento di fondo! Perciò una considerazione che varrà per tutte le nostre riflessioni successive: provando ad immaginare come nei film futuristici, che nell’anno 20XX dovessero scomparire i percorsi vocazionali a vita comune, allora emergerebbe un terribile vuoto che altre vocazioni, come per esempio la famiglia, pur nella loro bellezza e nella loro chiamata alla santità, non potrebbero riempire. Le analisi critiche sono fondamentali, siamo in un tempo in cui si può dire di tutto: preti, consacrati, lo stesso Papa sono continuamente osservati e liberamente “commentati”. E questo è anche giusto (se i toni rimangono rispettosi) in quanto le vocazioni sono scelte pubbliche, e non intimistiche, per cui hanno una rilevanza sociale ed un’eco notevoli. Quindi è positiva la possibilità che abbiamo di poter vivere in modo attivo, e non semplicemente “adesivo”, ciò che accade nella Chiesa. Eppure sacerdoti, religiosi e religiose nella vita eremitica, monastica, claustrale, apostolica, missionaria continuano a rappresentare le mura portanti di una fede che ha bisogno di testimoni vitali. Da un punto di vista psicologico, quanto sono fondamentali i genitori perché non solo mettono al mondo i figli, ma continuano ad “esserci” per loro (anche quando di fatto non ci sono più, o diventano bisognosi di aiuto, perché anziani), come riferimento, come sicurezza, come certezza di amore. Non è forse così anche per noi laici? Sapere che ci sono uomini e donne che ogni giorno si impegnano a vivere il Vangelo – non solo come ogni battezzato – rendendo visibile e tangibile questa appartenenza? Continua a colpirmi il religioso che prima di prendere una decisione, anche molto semplice, come un invito a cena, mi dice che vuole sentire la comunità, non per chiedere “il permesso” ma per assicurarsi che la sua assenza non pesi su altri. O la consacrata che nel ricevere un regalo pensa immediatamente che lo gradirà molto di più la sua consorella Giulia. Essi dicono che la fraternità è un’esperienza di vita in cui la condivisione è reale, e non è un obbligo imposto da regole o costituzioni, o peggio dalla tradizione. Il sacerdote diocesano, stremato dai giorni di festa per le numerose e lunghe celebrazioni, per le tante ore in confessionale, per un non-stop di servizio… dice a noi uomini e donne sempre più solitari e alla ricerca di luce (non di abbagli), che la comunità parrocchiale gli “appartiene” anche se non ha con lei legami di sangue o di parentela. Che i valori naturali, non sono gli unici possibili. Nessuna romanticheria. So che le obiezioni sono moltissime, sulle defezioni, sulle incongruenze, sugli egoismi che si abbattono anche sui chiamati alla vita comune. Vere, perché c’è un’umanità in gioco dentro la chiamata di Dio, e su alcune ci si potrebbe senz’altro lavorare. Però loro sono lì. Le esperienze di vita in comune continuano ad attirare giovani e meno giovani. Numericamente meno numerosi del passato, ma forse più consapevoli. I seminari, pur con tutta la fatica di un ripensamento delle proprie strutture e di un aggiornamento dei programmi formativi, continuano ad accogliere ragazzi desiderosi di dare un senso alla propria esistenza. Certamente non tutti quelli che arrivano hanno motivazioni solide o andranno avanti nel cammino, ma alcuni di loro hanno un desiderio sincero di rispondere alla chiamata di Cristo e saranno persone compiute e sacerdoti credibili. Nuove realtà comunitarie nascono in risposta alle povertà attuali, alle oscurità dell’animo umano, con proposte evangeliche di preghiera, fraternità, condivisione dei beni e dono di sé totale. Dunque, si potrebbe dire: “ma allora Qualcuno c’è davvero” se le scelte vocazionali continuano ad esserci, nonostante tutto! Quindi al coraggio di riflettere, di mettere mano a stili di vita e modalità di incarnare celibato e voti evangelici perché siano sempre più autentici. ad una formazione competente e più attenta alle fragilità umane e alle sue possibili derive. anche all’indicare percorsi alternativi quando la persona potrebbe non maturare una pienezza umana e spirituale in quella strada. E ancora alla libertà di morire a certe tradizioni quando non reggono il tempo, e di mettersi insieme per essere più efficaci nell’apostolato. In tutto ciò, però, sempre un senso di profonda gratitudine a chi, ancora oggi, nonostante le pesanti critiche che vengono mosse ai servitori di Cristo, ha la voglia e la gioia, di darsi, ancora e sempre. Anche per tutti noi.
Vita in comune

Gelosia e invidia in comunità

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Credo di non scandalizzare nessuno dicendo che uno dei problemi che affliggono la vita comunitaria, parlo ovviamente a partire dalla mia esperienza, sono le gelosie che si vengono a creare. Perché una sorella magari studia fuori, può sembrare che abbia possibilità in più delle altre, solo per fare un esempio. Insomma sono convinta che invidia e gelosia siano le piaghe delle nostre realtà di comunità. Una consacrata  A volte penso che sia più facile confidarmi con una persona esterna al mio ambiente che con un confratello. Ho visto confronti e scontri che nascono da una sorta di gelosia tra di noi, sebbene non abbiamo incarichi di potere che “giustifichino” i nostri atteggiamenti diffidenti! Un sacerdote  


Nel linguaggio comune la gelosia è associata a una relazione significativa di amicizia o di amore. Si possono provare sentimenti di gelosia verso un amico da cui ci sentiamo trascurati o verso il partner, quando ci sembra che non ci guardi con gli stessi occhi di un tempo e magari rivolga attenzioni privilegiate a qualcun altro. L’invidia, invece, tra i vizi capitali, riguarda il sentimento di tristezza di fronte al benessere, alla felicità, o al successo altrui. In genere è una condizione che molto difficilmente siamo disposti ad ammettere, perché riconoscere di trovare soddisfazione nella disgrazia dell’altro e di stare male quando questi sta bene è piuttosto imbarazzante. Entrambe queste condizioni interiori, comunque, nascono dal cuore umano e perciò non possono considerarsi estranee neanche all’interno di scelte di vita di speciale appartenenza al Signore, per quanto ciò possa sembrare paradossale.   Sacerdoti e consacrati/e devono fare i conti con la domanda di sentirsi realizzati e al proprio posto, che rappresenta la radice psicologica di sentimenti meno benevoli. Per non vagare con criteri che rischiano di diventare soggettivi, in linea con l’antropologia cristiana utilizzo come termine di confronto il livello di benessere ottimale indicato dal Manuale Diagnostico, condiviso dalla Comunità scientifica internazionale (DSM-5). Utilizzare uno strumento simile non vuol dire spostare su un piano tecnico la riflessione, ma evitare che ciascuno abbia una propria lettura dell’argomento. E poi significa riconoscere che il percorso vocazionale mette in campo tutta l’umanità della persona, che ciascuno è chiamato a conoscere e migliorare. Al «livello 0», quello ideale, la persona «ha un’autostima positiva coerente e autoregolata, che non dipende dai riscontri esterni, non è gelosa o invidiosa. Inoltre «è capace di percepire, tollerare e regolare una gamma completa di emozioni», per cui varia gli stati d’animo in base alle situazioni, senza essere sempre arrabbiata, in conflitto, preoccupata, in competizione… Se poi integriamo il piano dell’identità con quello degli obiettivi di vita, il Manuale mette in campo diversi aspetti: la persona ha una realistica valutazione delle proprie capacità e su queste pianifica e persegue obiettivi ragionevoli (= non idealizza quelli altrui), realizzandosi nei diversi ambiti. Di materiale con cui misurarsi ce n’è già abbastanza.   Si potrebbe obiettare che però, così, il discorso è concentrato solo sulla persona/individuo. E infatti il Manuale integra la dimensione del sé con quella interpersonale. Scelgo solo alcuni passaggi che, a mio parere, costituiscono una potente base di riflessione. La persona «desidera e si impegna in diverse relazioni affettuose, premurose e reciproche», «si adopera per la collaborazione e il bene comune e risponde in modo flessibile alla gamma di idee, di emozioni e comportamenti degli altri». È un testo scientifico a dirlo! Mettendo insieme, allora, i diversi criteri di “buon funzionamento”, credo si possa dire che tra i ministri e i consacrati normalmente si attivano dinamiche di confronto reciproco – e questo è normale e inevitabile –, ma che il confronto può diventare conflittuale e malato, quando l’area di insoddisfazione personale prevale sulle fatiche esistenziali normali. Intendo dire che tutti possiamo migliorare e maturare, ma quando la quota di non-realizzazione di sé è elevata, gelosia e invidia possono diventare distruttive. Aggiungo che tali sentimenti hanno significati diversi a seconda della personalità di base, ad esempio la gelosia può essere legata alla paura di abbandono, al non sentirsi riconosciuto dagli altri, a un senso di fallimento… ma il discorso non può essere approfondito qui   Un’ultima considerazione. L’ambiente circoscritto e stabile, penso ad esempio alle comunità contemplative, ma in fondo a tutte le comunità religiose, e ancora il carrierismo, oggi diffuso anche in ambito vocazionale, e ancora l’incertezza sull’identità dell’essere sacerdote o consacrato nel terzo millennio, sono fattori che possono favorire atteggiamenti di scarsa solidarietà e il bisogno di primeggiare. In fondo il narcisismo di cui oggi parliamo spesso è proprio questo. Nessuno, purtroppo, è immune da un tale clima così seducente, ma anche così divisivo. Concludo, allora, tornando sull’importanza di lavorare su di sé – formatori e responsabili di comunità in modo particolare –, non per «diventare tutti un po’ psicologi», ma perché la profezia delle scelte vocazionali, sta proprio nell’aspetto relazionale e di comunione (che parte da se stessi), a prescindere dal carisma di appartenenza. Ciò che può rappresentare una luce di riferimento, come la stella cometa, sono i laboratori di umanità e fraternità che sacerdoti e consacrati possono offrire alla società, nel loro modo di porsi reciproco e con la gente. Proprio perché il chiamato non sceglie il gruppo di fratelli e sorelle con cui camminare, e l’origine della sua vocazione è oltre se stesso, mi sembra particolarmente significativa la loro testimonianza, spirituale ma anche umana. Testimonianza non di essere migliori di altri o con qualità speciali, ma di fiducia nella possibilità di rapporti fraterni autentici, solidali, il più possibile «buoni».  
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