L'esperto risponde / Società

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Omosessuale in comunità

Gent.ma Chiara, ho inviato il suo articolo ad alcuni amici per avviare un dialogo sull’argomento che lei ha affrontato nella sua rubrica (Omossessualità: le parole pesano). Prima ancora di questo confronto, voglio farle arrivare la mia reazione personale. […] Credo che l’ingresso di una persona di “orientamento omosessuale” in una comunità che prevede una convivenza fra soggetti dello stesso sesso, possa essere considerato come mera eccezione, un caso d’accademia che serve a riaffermare che nessun prodigio è impossibile all’Amore. […]

Secondo me, quanto ha scritto, non tiene in dovuta considerazione (almeno nella stessa considerazione) il bene della comunità quanto il bene della persona che ha un “orientamento omosessuale”. […] Io penso sinceramente che sarebbe un tradimento degli ideali comuni entrare in una comunità che prevede la convivenza fra persone dello stesso sesso, non rivelando la propria omosessualità almeno a tutte le persone con cui si convive, oltre che ai propri responsabili. Tenere nascosto l’orientamento sessuale significa non potere di fatto condividere gli occhi con cui si guarda il mondo, vivere nella falsità. Soffrire non potendo manifestare i propri gusti, la propria umanità.

[…] Rischiando, dico che non è per niente prudente accettare in una comunità che prevede la convivenza fra soggetti consacrati dello stesso sesso persone di “orientamento omosessuale”. “. (Non credo si tratti di una posizione discriminatoria. Personalmente non giudico il valore delle persone a seconda del loro orientamento sessuale). In tutti i casi che conosco in cui è avvenuta questa decisione ha generato dolore nella comunità e dolore nelle persone. […] Secondo me deve essere una regola (non giuridica ma di buon senso) che le persone vicine e conviventi debbano conoscere l’orientamento sessuale di chi sta accanto a loro.

L’orientamento sessuale non è una caduta morale, un peccato da confessare, una cosa del foro interno. È una condizione dell’essere. Non si può entrare in una comunità senza condividere i tratti essenziali del proprio essere, sarebbe una contraddizione in termini, il tradimento di un patto: io rivelo a voi me stesso, voi rivelate a me voi stessi, perché vogliamo essere una cosa sola, una comunità, un corpo vivo. […]

Il modo di procedere del suo ragionare sulla questione, a mio parere, agisce sotto l’influenza di una certa cultura che mette al centro l’individuo credendo di mettere al centro la persona. […] La concessione del proprio sé agli altri rimane indispensabile quando si decide di legarsi così strettamente ad altri. […] Quando mi unisco in un vincolo stretto, di famiglia, non rischio solo me stesso. Qualcuno rischia con me, almeno quanto me.

(David Crigger/Bristol Herald Courier via AP)

Gent.mo lettore, innanzitutto una parola di stupore grato e ammirato per l’accuratezza della sua lettura, e per aver raccolto il mio invito a portare avanti una riflessione onesta e critica, e non solo “adesiva”. Mi rammarico che il suo testo, ben più ampio, non possa essere riportato interamente per ragioni di spazio, ma cercherò di non perdere nessun contenuto di quanto lei condivide, nel caso qualcosa sfuggisse sarebbe solo per la vastità dell’argomento.

In questo numero condivido uno spaccato del rapporto individuo-comunità, mentre nel prossimo numero approfondirò nello specifico la prospettiva comunitaria.

Un po’ di teoria e un po’ di pratica, senza alcuna pretesa né di verità assoluta (ci mancherebbe), né che sia la prospettiva migliore. È la mia, frutto di studio, ricerca ed esperienza di tanti anni, anche accanto alle comunità di vita consacrata, che, da credente, stimo profondamente.

La vita in comune è una realtà umano-trascendente di persone adulte che sono accomunate da un Ideale, via privilegiata per una compiutezza di sé, anch’essa umano-trascendente. Seminario e/o realtà comunitaria diventano l’intuizione di un percorso che la persona percepisce come significativo, come luogo di incontro con Dio e di espressione massima delle proprie risorse e talenti. Parliamo volentieri di famiglia, in quanto è la categoria antropologica più affine.

Eppure la realtà carismatica non coincide esattamente con la famiglia umana: i membri si ritrovano inizialmente come “estranei”, entrando già adulti, almeno cronologicamente, con storie di vita diverse alle spalle. Insieme, essi compiono un cammino di fraternità da costruire e custodire quotidianamente.

Quindi:

  1. il ritrovarsi accomunati da un carisma, da una “chiamata”, attiva una dinamica originalissima di rapporto personale con Dio e nello stesso tempo di apertura all’altro, mio fratello, mia sorella, in un ritmo dal sapore unico di io-noi, dove nessuno dei due poli può esaurirsi in se stesso. Sono «io» a vivere un rapporto con Dio, e siamo «noi» a camminare e a costruire una fraternità carismatica, a coltivare «un sogno comune», come lei scrive in un passaggio molto bello della sua lettera.
  2. La comunità non è un blocco già pronto in cui si entra, è qualcosa da far nascere e portare avanti, è un processo. Sì, la comunità è un processo di espansione di sé, un laboratorio di umanità, veramente riuscita quando i membri riescono ad aprirsi, a condividere dimensioni profonde, ad essere autentici. In questo sono pienamente d’accordo con lei.

 

Però occorre arrivarci. Devono esserci condizioni, anche umane, che consentano l’apertura di sé. Occorre un clima accogliente, sereno, non giudicante (e non solo di facciata) – che coinvolge i responsabili e i fratelli e le sorelle – dove questa consegna di se stessi sia libera e desiderata dalla persona stessa, anzi un’esigenza profonda, quasi un’urgenza personale e non certo una regola né giuridica, ma neppure di buon senso.

Quando questo non accade – la persona non rivela in toto «chi è» – siamo onesti, è responsabilità solo della persona? E la comunità che parte ha? Quando un figlio omosessuale non riesce a parlare liberamente dentro casa e rivela se stesso fuori delle mura domestiche piuttosto che dentro la famiglia, siamo certi che sia una negligenza tutta sua? Credo doverosa la domanda e ineludibile.

Sarebbe bello e auspicabile, direbbe p. Giuseppe Piva – gesuita che da anni si occupa di Esercizi spirituali e di accompagnamento «di frontiera» –, se fosse «una cosa normale» che la persona omosessuale potesse comunicare se stessa ed il proprio orientamento ai suoi confratelli/consorelle fin dall’inizio, ma di fatto questo non accade e non può accadere (aggiungo io).

Gli ambienti formativi e comunitari, infatti, non sempre sono pronti, disponibili e preparati a questo. C’è ancora paura, sospetto, imbarazzo di fronte all’omosessuale, uomo o donna, che creano reticenza, diffidenza, e scissione in chi entra tra ciò che può dire e ciò che non può dire. È giusto riconoscerlo e dirselo in comunità. Se ne parla mai di questo? Come accoglieremmo un fratello o sorella omosessuale? Siamo pronti a farlo?

Quando il clima domestico lo consentisse, allora certamente dovrebbe essere desiderio e bisogno della persona parlare di se stessa, anche perché è un’esperienza stupenda potersi aprire in casa propria e sentire un’accoglienza serena e benevola. Domandiamoci se davvero ci siano le condizioni comunitarie di fiducia per farlo, e quale violenza sarebbe il forzare con un obbligo la propria intimità. Riflettiamo su come rendere i nostri ambienti, famiglia, seminario, comunità, spazi dove sul serio ciascuno è se stesso e viene accompagnato – a partire da quello che è, orientamento incluso – a crescere nella verità e nel dono di sé, senza ingenuità o menzogna. I nostri ambienti sono ancora troppo impacciati su questo.

Un altro aspetto che mi sta a cuore riprendere, e chiedo scusa se sarò diretta e purtroppo rapida: l’omosessualità non coincide con una difficoltà di «identità di genere», il sentirsi maschio o femmina. E neppure con una difficoltà di continenza affettiva e/o sessuale. La invito – con semplicità, dato che a mia volta cito un altro studioso – a dare un’occhiata alla tabella proposta da Dettore su eterosessuali ed omosessuali «tipici e soddisfatti» (Percorsi vocazionali e omosessualità, Città Nuova 2020, pp. 30-31), coloro, cioè, che non presentano difficoltà di accettazione del ruolo di genere, né di corporeità.

In altre parole: stanno bene con se stessi e non sono «riconoscibili» come omosessuali. Dare, quindi, per inteso che l’omosessualità in qualche modo falsi le dinamiche relazionali, mi pare presupponga un qualche scompenso di genere, quanto meno. Le dinamiche relazionali sono falsate anche da quelle competitive, di gelosie e pettegolezzi, non certo legate alla dimensione omosessuale (cito ancora, a braccio, le parole di p. Piva sj).

L’orientamento omosessuale è un aspetto importante della persona, eccome, dice qualcosa di lei, del suo desiderare, essere attratta, amare, ma ciò non equivale a falsare le dinamiche interne ad un ambiente.

Esiste, del resto, a monte, un codice non scritto di rispetto, prudenza, discrezione nel vivere insieme, proprio dell’essere adulti-consacrati-chiamati da Dio. Non ci si prende per mano, non si dorme nello stesso letto e possibilmente nella stessa camera, non si gira nudi per casa. Tanto per essere chiari. C’è (o ci dovrebbe essere) un decoro nel vestire, nel parlare, nel mangiare, nel vivere un apostolato. Credo che la stessa dignità sia doverosa anche in famiglia: è bene che un padre o una madre conservino il pudore del proprio corpo davanti ai figli.

Allora, e nuovamente, per concludere: magari si potesse raggiungere una trasparenza di apertura di sé, in modo che gli scambi, le interazioni, la crescita del gruppo fossero fondati su una base di franchezza e autenticità, ma questo non si può supporre in partenza, né obbligare. Se nel tempo dovessi scoprire che un fratello con cui ho vissuto è omosessuale e me lo rivela solo dopo anni di amicizia, una domanda su cosa di me non gli abbia permesso questa condivisione me la porrei. A livello individuale e comunitario. Come dire: peccato non aver messo Mario nelle condizioni di essere quello che è.

Quando Mario o Francesca riescono, invece, a parlare in casa della propria omosessualità, quale ricchezza emergerà per tutti. Che opportunità preziosissima di lavorare insieme come comunità, di crescere nella comprensione reciproca e nella verità dei figli di Dio chiamati alla pienezza dell’amore celibe e casto. Quale forza avrà quel gruppo che saprà costruire e offrire un clima di fiducia e stima reciproca, condizioni essenziali per il self-disclosure (l’apertura totale di sé) e poi l’integrare la specialità e la peculiarità di ciascuno come un tesoro irrinunciabile per essere una fraternità vera che cammina verso il sogno comune.

 

 

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Vita in comune

Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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