Sono una responsabile di comunità, giovane per età e per esperienza in questo ruolo. Sono stata preparata, dal punto di vista accademico, per assumere l’incarico che mi è stato assegnato, ma la domanda che mi porto da tempo è cosa favorisca veramente un cammino dei nostri fratelli, delle nostre sorelle. Nella mia esperienza, con altre della mia età, non ha funzionato, come avrebbe dovuto, l’averle mandate fuori a studiare, ma talvolta anche l’averle trattenute in apostolati interni ha avuto effetti da pre-pensionamento e deresponsabilizzanti. Qualcuna ha avuto poco a mio parere, qualcuna fin troppo, ma sembra che nulla dia garanzia assoluta di “riuscita” formativa e vocazionale.
Proprio nei giorni scorsi ho incontrato un gruppo di responsabili e formatrici e questa domanda è emersa da più prospettive. Una questione concreta e attuale, che in altri numeri della nostra rubrica abbiamo già toccato, ma che riprendo volentieri dopo la pausa estiva.
Un autore, Irvin Yalom, ha approfondito gli studi sul
funzionamento e l’efficacia dei gruppi esperienziali, che vorrebbero favorire l’incontro e la crescita personale dei membri. C’è uno stile di gruppo vincente, c’è un leader migliore di un altro? E quanto incidono questi sul benessere e quindi sul cambiamento individuale dei singoli membri?
Nei nostri termini:
il clima comunitario quale peso ha sulla maturazione dei consacrati; il/la responsabile della comunità dovrebbe avere delle specifiche caratteristiche?
Le ricerche prodotte sull’argomento valutavano, tra le altre, dimensioni quali «
l’autostima, i valori esistenziali negli atteggiamenti e nei comportamenti interpersonali, i meccanismi di difesa, la capacità di esprimere le emozioni, i valori, i modelli di amicizia e importanti decisioni di vita» (I. Yalom, Boringhieri 2002, pp. 537-8).
Mi avvalgo, perciò, dei risultati emersi, mutuando ciò che può rivelarsi utile per il nostro ambito, quello della
vita in comune consacrata, in quanto almeno alcune considerazioni hanno senz’altro una validità trasversale rispetto ai cosiddetti
T-group, che erano strutturati, con un numero di partecipanti, una durata, e un facilitatore qualificato.
Una prima osservazione molto semplice è che «
il gruppo di incontro […] influenzava chiaramente il cambiamento, ma sia in meglio che in peggio» (
ib.), e comunque l’entusiasmo del singolo per l’esperienza gruppale non era di lunga durata.
Riguardo al
leader – entriamo nel vivo del nostro ambito – non risultava rilevante la “scuola” di pensiero e di appartenenza (noi diremmo: dove ha studiato e in quale corso si è formato), quanto il suo modo di intervenire sul gruppo. Il leader, tra i suoi vari compiti, può:
a) stimolare emozioni;
b) assistere i membri offrendo sostegno, protezione, calore, accettazione;
c) spiegare, chiarificare, interpretare (si parla di “
attribuzione di significato”);
d) avere
funzioni più o meno direttive, come fissare regole, norme, individuare obiettivi, dare il ritmo al gruppo.
L’utilizzo di queste 4 funzioni è stato considerato secondo una
correlazione precisa con gli esiti (il miglioramento individuale): partiamo da stimolazione emozionale e funzione direttiva (a e d).
Rispetto a tali funzioni il troppo o il troppo poco produce in entrambi i casi esiti negativi, in modo curvilineo.
Poca stimolazione rischia di favorire un gruppo senza energia, con una ridotta vitalità, asfittico, ma d’altra parte
troppa stimolazione rende il contesto emozionalmente carico, in eccesso, direi elettrico. Così pure una
scarsa direttività genera un consesso umano smarrito, confuso, dove c’è solo soggettività, ma il
fissare troppe regole e dare direttive al dettaglio, stimola persone infantili, poco autonome.
Aggiungo una nota interessante, che ancora mutuo dalle ricerche: chi dirige “a bacchetta” sul momento affascina e seduce, “
guarda come è sicuro di sé”, e le persone si sentono rassicurate da una figura che sembra avere la soluzione per tutto. Alla lunga, però, il guru fa morire l’energia vitale altrui.
Pertanto servono entrambe le funzioni (stimolazione e direttività), ma in misura moderata su tutt’e due le polarità.
Le altre due funzioni, invece, se associate – e
solo se associate – producono sempre esiti positivi. Assistere, cioè offrire empatia, stima incondizionata…e insieme stimolare la persona a rileggere la propria esperienza, per comprenderla, integrarla, e utilizzarla in altre situazioni, aiuta la crescita.
Viceversa, la sola dimensione emotiva senza l’integrazione cognitiva non è sufficiente a far maturare la persona.
Per fare un esempio: favorire il disvelamento, l’apertura intima di un membro del gruppo (
self-disclosure) non produce cambiamento se questa consegna di sé non è accompagnata da un
insight, da una comprensione intellettuale.
Attenzione, allora, specie negli ambienti femminili, a
non moltiplicare i momenti di scambio emotivo, “
parliamo dell’esperienza vissuta, cosa hai provato”, se poi lo scambio si esaurisce in uno sfogo, senza alcuna rilettura e integrazione di quella esperienza col resto della vita, il che vuol dire senza che quell’evento abbia
acquistato senso oltre l’oggi. Diventa, altrimenti, una confusione.
Torniamo alla questione iniziale che pone la giovane responsabile.
La maturazione della persona è favorita da molteplici fattori. Non basta che ella sia parte di un “bel gruppo” umano (magari fosse efficace la semplice immersione), in quanto l’entusiasmo non dura e non è detto, comunque, che ci sia un miglioramento personale nel vivere insieme.
La funzione del leader, superiore o superiora di comunità, è senza dubbio importante per non attivare
gruppi troppo emotivi (chi vuol piangere/gridare, piange/grida dove e comunque voglia), che sanno più di campo-giovani che di vita in comune. Ma neppure
gruppi devitalizzati, aridi, che sanno piuttosto di azienda di lavoro, che di famiglia.
E ancora: un buon leader di certo non facilita la creazione di
gruppi infantili che si perdono se non vengono loro date le indicazioni giuste, momento per momento, se non hanno un planning dettagliato della giornata, se non hanno istruzioni militaresche. Ma neppure, d’altra parte,
gruppi anonimi che rappresentano solo un insieme di individualità autogestite, perché manca un coordinamento, un progetto comune, un minimo di struttura che faccia dire che si è “comunità”.
Certo, ogni comunità dovrebbe riflettere seriamente su
cosa la faccia sentire tale, quali sono le condizioni minime essenziali che tutti/e condividono o dovrebbero condividere, al di sotto delle quali il gruppo diventa un insieme indefinito di persone X. Ma al di sopra delle quali si rischia l’asfissia.
Un’altra conclusione molto
ad hoc che le ricerche ci forniscono, è che
l’attribuzione di significato può essere stimolata dal leader, ma è
compito di ciascuno assumere questo impegno.
In altre parole: è importante offrire supporto, empatia, conforto, stima, dare modo alle persone di esprimersi, ma anche orientarle, offrire dei feedback.
Tuttavia ciò che è vincente è
stimolare la riflessione che a questo punto è emotivo-cognitiva, perché ciascuno riesca a far sintesi, ad apprendere, a migliorare in base al vissuto. Qualora la persona, però, non fosse in grado di entrare in questa dinamica di senso, allora il processo di maturazione si arresta, e
nessuno può farci nulla. Non c’è comunità, non c’è superiore/a che possa incidere nel miglioramento individuale. Aggiungo: non che sia “colpa” della persona (non ci sono colpe), può darsi che l’ambiente non sia quello adatto alla sua crescita.
Di fatto, messi a disposizione i possibili strumenti maturativi – e la comunità non si tiri fuori da questo onere – il singolo ha una parte fondamentale, e se rimane ad uno stadio inadeguato all’età, è meglio che cerchi
un contesto esistenziale più adatto al volo della vita.