Nell’accompagnare i giovani faccio un’esperienza che non sempre riesco a gestire al meglio: mi rendo conto che il ragazzo si porta dietro tutta la sua storia familiare che poi fa “pagare” a quelli che gli stanno intorno, a me in particolare perché rappresento l’autorità. Un formatore
Non posso farci nulla: quando vedo la responsabile di comunità, mi assale letteralmente l’immagine imperiosa e invadente di mia madre che voleva imporre la propria autorità e non c’era verso di farle cambiare idea. Rimango così mal disposta che non so cosa farci. Questa sensazione poi compromette la mia relazione con lei. Una consacrata
Avete ragione, e quello che dite è normale. Pensate che le ricerche di padre Luigi Rulla, gesuita fondatore dell’Istituto di Psicologia in Gregoriana nel 1971, insieme ai suoi collaboratori, hanno riscontrato che circa il 70% dei giovani consacrati o seminaristi durante i primi 4 anni di formazione, quando entra in rapporto con le figure di autorità o con i compagni, rivive inconsapevolmente le relazioni significative avute nell’infanzia, soprattutto con i genitori.
Questo vuol dire che la persona adulta tende a riproporre ciò che ha vissuto nell’ambiente di origine, come se quel “clima” fosse ancora presente, o come se si stesse ancora confrontando con la madre o con il padre. Razionalmente sa che non è così, ma emotivamente mette in campo le stesse dinamiche relazionali.
Nulla di strano quindi, e, credo, nulla di nuovo. Le esperienze dei primi anni di vita, positive e rassicuranti, mi rendono tendenzialmente fiducioso verso gli altri, ma quelle meno accoglienti tendono a rendermi diffidente e meno disponibile nei rapporti. Le cose poi si complicano ulteriormente, perché le relazioni successive possono aiutarmi a riscrivere la mia storia in meglio o in peggio: ad esempio, inizio a fare sport e l’allenatore riesce a valorizzare i miei talenti. Da lì si mette in moto una nuova riflessione: «Forse non sono così male, e anche io posso farcela». Possono, però, anche rafforzare le mie insicurezze: incontro un’insegnante che, come mio padre o come mia madre, non mi fa sentire compresa e mi rimprovera quando penso di non meritarlo.
Parlando con una consacrata peruviana che ha vissuto in diverse comunità fuori dalla sua terra, mi racconta quanto dirompente sia stato l’inizio vocazionale: non solo ha dovuto imparare a “riconoscere” la propria storia familiare, ma ha dovuto prestare attenzione a ciò che si portava dietro della sua cultura di origine.
Le chiedo, allora, di spiegarmi meglio: «Tutte abbiamo creduto ad una chiamata e abbiamo lasciato la nostra terra, la famiglia, e i genitori per Dio, eppure star bene tra noi non è per niente scontato, né così “naturale” come avrei pensato… c’è chi è abituato, secondo la propria cultura o come faceva in casa, ad esprimersi apertamente a parole, e chi, invece, è abituato a comunicare in altri modi. Una parla e pensa di essere stata capita dall’altra, e poi scopre che invece non è così. L’appartenere a culture diverse incide molto nella comunicazione. Questo si vede perfino quando si sta a tavola insieme. Ciascuna, perciò, in qualche modo, deve confrontarsi con la storia e la cultura da cui proviene, e non solo negli anni iniziali».
E aggiunge: «Anche le prime esperienze fatte con quella determinata responsabile di comunità segnano il nostro andare avanti nel percorso vocazionale, se l’esperienza è stata bella, c’è stato dialogo e ci siamo comprese, si va avanti con fiducia. Ma se c’è stata fatica, allora si procede con la paura che si possano vivere ancora esperienze simili e l’autorità inizia ad essere guardata con diffidenza. Bisognerà poi riuscire ad aprirsi nuovamente con la responsabile successiva, ma la cosa non è facile».
Come affrontare tutto questo perché il vivere insieme non diventi caos o continuo conflitto? Approfondiremo in altri numeri l’aspetto dell’interculturalità, anche perché è particolarmente attuale.
Riprendendo, qui, le due riflessioni iniziali e volendo cercare dei percorsi possibili, credo che si debba partire proprio dai dati di realtà: imparare a riconoscere emozioni, reazioni e fantasie che ciascuno di noi vive nel confronto con l’altro e con l’autorità (è soprattutto questa che fa venir fuori le nostre dinamiche “storiche”, e spesso ferite genitore-figlio).
Mi rendo conto che faccio fatica con la mia responsabile, o col mio rettore. Allora mi devo chiedere:
- Dal mio punto di vista, cosa c’è che non va? Cosa mi irrita o mi mette ansia dell’altro? Ciò che ha detto, ciò che ha fatto, il suo timbro di voce?
- Quale è la mia parte di responsabilità nella difficoltà che vivo?
- È lei/lui che si rivolge a me in modo giudicante, oppure è anche la mia sensibilità che amplifica quello che mi viene detto, facendomi sentire spesso in colpa?
- Ho già vissuto esperienze simili? Quando, e con chi?
- Mi è capitato di sentirmi così solamente con i superiori, o anche con consorelle/confratelli?
- Trovo difficoltà quando mi confronto con culture diverse dalla mia, o le mie fatiche sono trasversali perché è soprattutto il ruolo, oppure alcuni contesti specifici, a creare in me tensione?
Sono domande che possono accompagnare e stimolare il processo di conoscenza personale e del proprio passato, per chiarirlo e affrontarlo in modo diverso.
Il vivere insieme ad altri favorisce senza dubbio il venir fuori di tutto un mondo che ci portiamo dentro senza che lo conosciamo. Lo stesso avviene all’interno della coppia: la propria storia torna a galla nel condividere il tempo a-due.
Perciò in comunità, tra due fidanzati, o tra due sposi, è fondamentale dialogare, dialogare e ancora dialogare. Quando ci sono dubbi, chiarire cosa volevo dire e cosa mi pare che l’altro abbia capito può sbloccare situazioni di tensione esplicita o latente. Cosa mi suscita il modo di parlare e di rivolgersi a me del mio formatore, della mia consorella, o del mio partner, evita il rischio che alcune relazioni rimangano congelate da paure e sospetti.
A volte un terzo può favorire questo chiarimento. Il confronto con una persona di fiducia (formatore o direttore spirituale o terapeuta) può aprire prospettive nuove, che magari in due rimangono schiacciate sulle convinzioni di ciascuno.
Non è questo, comunque, il punto finale. I valori di riferimento e, in particolare, la scelta di vivere secondo un Ideale rappresentano la motivazione principale per questo sforzo continuo, perché, sono convinta, non si tratta solo di un impegno iniziale nei processi vocazionali.
Infatti – e sento di volerlo dire anche se la mia è una prospettiva psicologica –, ciò che può dare senso all’uscita dai propri schemi familiari e culturali è proprio l’incontro con l’altro, che per me non è né casuale né semplicemente “aggiuntivo”. Se stiamo guardando nella stessa direzione, io e l’altro, in coppia o in comunità, non mi interessa capire chi ha ragione e chi ha torto, se la mia storia è più sana o più ferita della tua. Questi sono solo punti di partenza. Mi sta a cuore, invece, costruire qualcosa insieme ed è questo che mi motiva a conoscere da dove vengo, ma anche ad andare oltre.
È una possibilità che abbiamo sempre, qualunque sia stata la nostra storia e per quanto profonde possano essere state le nostre ferite.