Voglio raccontarle l’esperienza che ho fatto durante l’estate. Sono una giovane consacrata, è già il secondo anno che la mia Congregazione organizza sia la settimana di formazione, che quella di apostolato missionario, con i giovani religiosi della nostra stessa realtà carismatica. Era la prima volta che partecipavo, sia alla prima settimana che alla seconda esperienza. Sono stata contentissima di questa opportunità, trovarsi tutti insieme uomini e donne accomunati dallo stesso cammino e dallo stesso carisma, è stato coinvolgente e anche originale. Nello stesso tempo, però, sono rimasta veramente impressionata dalla differenza che ho potuto constatare nella “gestione” di noi giovani da parte dei nostri responsabili. Anzi, dal modo in cui noi stessi, giovani consacrate e giovani consacrati, ci rapportiamo sia tra di noi, che con l’autorità. Penso che noi donne siamo ancora un passo indietro. Una giovane consacrata
La ringrazio delle sue gustose osservazioni che ho dovuto abbreviare, ma di cui terrò conto anche rispetto ai fatti che lei riporta. Lei racconta, ad esempio, di
una serie di permessi che voi donne siete abituate a chiedere alle vostre responsabili «per ogni minimo movimento», del timore di sbagliare che vi accompagna quando portate avanti un’attività, e ancora della mancanza di libertà anche solo per un’uscita tra di voi, guardata spesso con sospetto, «mentre i ragazzi possono andarsi a prendere una birra e nessuno si scandalizza».
Non credo che lei esageri in ciò che scrive. Mi pare, infatti, che le realtà di vita consacrata femminile, o almeno molte di esse, mantengano uno
stile effettivamente diverso da quelle maschili, che però
non sono il modello di riferimento. Possiamo provare, allora, a vedere gli aspetti di forza e quelli di debolezza.
Consacrate
Il rischio di un certo
maternalismo prevale nelle comunità composte da donne, dove la responsabile assume, non solo metaforicamente, il ruolo di “madre”, ma qualche volta in senso letterale. Fin troppo. Si preoccupa per le sue “figlie”, chiede loro un’obbedienza passiva, non rendendosi sufficientemente conto che ha a che fare con
persone adulte e di fatto autonome, anche solo per l’età cronologica di chi entra in vocazione.
Questo atteggiamento può costituire un «
modello pervasivo di rinforzo sulla dipendenza», le direbbe lo psicanalista statunitense Glen Owens Gabbard. In altre parole, genitori e responsabili di comunità, in assoluta buona fede
, potrebbero non favorire la crescita sana di figli e membri a vita comune, e quindi prolungare l’infanzia, alimentando insicurezza e soggezione, oltre le fasi naturali di sviluppo della persona.
Anche nella vita consacrata c’è (o ci dovrebbe essere) un’evoluzione dell’individuo, che all’inizio ha necessità di maggiori indicazioni, regole e punti di riferimento, ma gradualmente dovrebbe
emanciparsi per acquisire una propria identità e capacità progettuale. Sappiamo che l’indipendenza va poi equilibrata con l’essere una fraternità, e con
l’obbedienza che, però, è un atteggiamento di fede serio e radicalmente adulto, e
non assomiglia a quella dei bambini. C’è obbedienza e obbedienza…
Perciò, come nelle dinamiche familiari, se le figure formative (genitori e superiori) non incoraggiano
l’espressività dei figli e dei membri, e amplificano troppo la dimensione del
controllo, creano quello che potrebbe definirsi un «
attaccamento insicuro», che può portare a forme di
dipendenza reciproca. Nel senso che gli uni devono tenere tutto sotto controllo per sentirsi tranquilli e assicurare il buon andamento di casa, mentre gli altri finiscono per adeguarsi. Perciò, pur di non perdere la stima, l’affetto e l’appoggio, rimangono in una condizione piuttosto passiva e, appunto, insicura. Allora si chiede conferma per qualunque gesto e si attende
rassicurazione per tutto. Il messaggio implicito, infatti, che è stato interiorizzato, è che l’indipendenza rappresenta un limite, un venir meno allo spirito di consacrazione. Accade soprattutto tra le donne a vita comune.
Forse bisognerebbe solo intendere meglio “l’autonomia”, che quando è
sana non significa ribellione o agire per conto proprio. Significa, invece, acquisire sicurezza in se stessi, saper stare sulle proprie gambe, per diventare membri attivi e propositivi.
In fondo le comunità più belle sono quelle in cui la fraternità non livella le singole personalità, ma le valorizza. Consacrati e consacrate “liberi” interiormente, cioè non dominati dalla paura, né dipendenti da un altro/a,
arricchiscono la comunità, la rendono dinamica e più efficace nell’apostolato. Anche le responsabili, del resto, talvolta si lamentano della scarsa intraprendenza di giovani e meno giovani.
Consacrati
D’altro canto,
gli uomini – spesso isole in comunità – “invidiano” le realtà femminili dove c’è qualcuno che ha cura dell’altro, dove non ci si sente persi nel numero e si respira maggiormente un clima familiare, inteso proprio come attenzione e considerazione reciproca. Gli ambienti comunitari che sembrano solo luoghi di passaggio tra l’orario di lavoro e altri impegni, dove ciascuno vuole essere del tutto libero di muoversi senza dover “rendere conto” ad altri, mi pare che non siano un modello di vita in comune.
C’è solitudine, così, fino all’isolamento. Non ci si sente appartenenti a nessuno.
Non credo, in questo senso, che le donne stiano un passo indietro.
Per concludere, penso che lei abbia ragione a desiderare una maggiore autonomia nella vita consacrata femminile che, lo ripeto, non vuol dire caos e soprattutto
individualismo, di cui è fin troppo malato il nostro tempo, ma
fiducia reciproca perché ciascuna possa esprimersi al meglio.
Le posso dire, comunque, che è un cammino che oggi uomini e donne stanno già facendo,
contaminandosi (non imitandosi) negli aspetti buoni a vicenda: gli uomini apprezzando la capacità femminile di vicinanza, le donne apprezzando gli aspetti più virili di autonomia.
Parlatene tra voi, parlatene con le vostre responsabili,
non come un sindacato che protesta, ma come sorelle che vogliono crescere insieme. I giovani portano uno spirito nuovo e il desiderio di rinnovare il modo di comprendere e vivere la vita in comune, e il confronto con le precedenti generazioni è una grande opportunità per tutti.
Ho visto, in questi anni, comunità femminili fare dei
percorsi bellissimi di dialogo tra consacrate e con le realtà maschili (ottimo fare dei ritiri o portare avanti un apostolato insieme), e anche di cambiamento per lasciare spazio alle esigenze delle nuove arrivate (anche se forse non vanno a prendersi una birra!). Queste comunità non si sono snaturate diventando “altro”, anzi, sono
spazi sereni di solidarietà,
pur tra culture ed età molto diverse, e ambienti sani per la possibilità, senza drammi, di ragionare su come si vorrebbe portare avanti la propria vita in comune.