Sono un giovane che si sta preparando per diventare un sacerdote religioso. Sono felice della strada che sto percorrendo, però talvolta, nel confronto con i miei confratelli, coetanei o più grandi, sperimento cose che non mi vanno proprio. Le faccio qualche esempio molto concreto: l’acquisto di macchine costose, un abbigliamento ricercato, la pretesa di avere sempre qualcuno che provveda alle cose domestiche… Tutto questo mi infastidisce. Anzi, arriva a farmi mettere in dubbio che siano vere le cose che ci insegnano e che noi apprendiamo durante la formazione. Un domani vorrei essere un prete che la gente riconosca come proprio fratello, non come un principe. Un giovane in cammino
Consacrati “alla moda”?
Trovo tanto coraggiosa quanto sincera la sua riflessione. Lei ha aggiunto anche altre considerazioni che per sole questioni di spazio non ho potuto inserire integralmente. È la punta di interrogativi profondi e per nulla semplici. Chi è il consacrato oggi? Come “dovrebbe essere” il prete del terzo millennio? Ho letto in filigrana anche queste domande.
Le posso dire ciò che vedo attraverso la mia esperienza di affiancamento dei processi vocazionali, di giovani e meno giovani, uomini e donne in formazione o con scelte già definitive. Si dice spesso che c’è una fragilità nuova nella sua generazione, e questo è innegabile: la capacità di tenuta rispetto alle strade intraprese è più debole. Lo sappiamo, le realtà di coppia e gli stessi percorsi di appartenenza totale al Signore sono soggetti a moltissime pressioni che vengono dalle nuove modalità “relazionali” che la Rete permette, ma anche dai valori che oggi non sono più così fissi e univoci. E, più a monte, da esperienze familiari articolate per cui alle spalle non sempre si ha il sostegno ed il modello di una comunità domestica serena e unita a cui fare riferimento, o che sia di “esempio”. Ci sono famiglie più serene da cui nascono vocazioni meravigliose, e famiglie meno serene, divise o allargate, da cui nascono vocazioni altrettanto belle, ma che devono affrontare una complessità di partenza, che non andrebbe trascurata.
Premesso questo, voglio dire, però, che proprio i giovani portano ed esprimono una sete di autenticità nuova. Voi giovani non vi accontentate di modelli preconfezionati, chiedete ragione di tutto: «ho capito che si è sempre fatto così, ma per me non ha molto senso», quante volte l’ho sentito dire. Dall’abito che si indossa, ai ritmi di preghiera, alle modalità di stare insieme o di accogliere ospiti, al tipo di apostolato… i giovani chiedono ai loro formatori e formatrici il senso delle tradizioni o anche di singoli comportamenti che a loro sembrano incomprensibili.
Mi colpiscono in effetti il coraggio e talvolta la “sfrontatezza” con cui una consacrata in formazione vuole sapere perché i turni di servizio riguardino solo alcune consorelle e non tutte. Oppure il seminarista che chiede ragione di un acquisto fatto in comunità, secondo lui non necessario. Situazioni un tempo impensabili. Come non era pensabile per me contraddire un genitore.
Tuttavia mi confronto anche con situazioni opposte, di giovani che faticano ad entrare in una logica di dono, e pretendono dalle proprie comunità vari generi di comfort. È la bellezza e la ricchezza di vocazioni a vita comune o al sacerdozio, che si incarnano in storie e personalità molto diverse tra loro.
Non esiste un unico modello di appartenenza, non c’è una fraternità uguale per tutti, come non c’è un modello rigido di essere marito e moglie. Credo che ci siano sfide multiple per le scelte vocazionali: una di queste è certamente ripensare se stesse e capire, insieme, non individualmente, come vivere nell’oggi quello specifico carisma. Se siano valide le consuetudini vissute fino a quel momento, se l’apostolato corrisponda ai bisogni locali o eventualmente come ripensare alcuni aspetti importanti del vivere insieme secondo un Ideale.
Credo sia un’enorme ricchezza proprio il confronto tra generazioni e culture diverse, che ormai sono la norma e non l’eccezione, e forse nelle comunità vocazionali questo non sempre è previsto. Ho l’impressione che spesso questo avvenga prevalentemente in teoria, cioè attraverso lezioni e corsi, ma molto meno avendo lo spazio ed il tempo concreto per discuterne.
A proposito del tema che lei propone, un giovane mi raccontava una vicenda concreta che ha vissuto: la sua famiglia è andato a trovarlo e gli ha chiesto se poteva regalargli un nuovo cellulare. «Sembra una cosa da poco – mi diceva questo ragazzo –, invece so che a me avrebbe fatto molto piacere poter scegliere e comprare finalmente un bel telefono super-aggiornato, che desideravo da tempo. Poi, però, mi è venuto in mente che al campo con i ragazzi, appena pochi giorni prima, uno di loro mi aveva parlato delle difficoltà economiche della sua famiglia e allora qualcosa è risuonato dentro di me… e ho voluto rinunciarci. Con fatica, voglio precisarlo. È una briciola, lo so, ma non voglio diventare un prete fashion (alla moda, ndr), so che non sarei credibile poi tra la gente». Sono gocce, è chiaro, ma la vita ha una sua concretezza che andrebbe condivisa anche nelle piccole vittorie quotidiane.
Per concludere: è profetico il desiderio di autenticità e di coerenza delle nuove generazioni, che può essere di grande stimolo per tutti noi e per i percorsi vocazionali che attraversano tempi non facili. Tuttavia, non c’è una sola forma per dire “sì”, per cui dialogare e confrontarsi all’interno del proprio ambiente di vita alleggerisce le tensioni e soprattutto favorisce uno sguardo comune, che non vuol dire identico o univoco, ma condivisibile da tutti.