Ho letto i precedenti numeri di questa rubrica in merito all’orientamento omosessuale in seminario o nella vita comune. Il papa ha detto che “è meglio che non entrino” persone con questo orientamento. E mi sembra che da una parte dica qualcosa di importante, ma dall’altra lasci aperta la porta ad altre possibilità o riflessioni. Lei cosa ne pensa? Un Rettore
Omosessualità e sacerdozio
È chiaro che qui non si offre una risposta sul piano del “sì” o “no” al percorso vocazionale delle persone con orientamento omosessuale, dato il contesto di una rubrica di psicologia e la non gestibilità di una domanda di questa portata attraverso riflessioni individuali.
Non intendo sfuggire dal condividere la mia prospettiva, vorrei farlo, però, considerando ancora due aspetti: il primo riguarda l’associazione, esplicita o implicita, per cui le persone con orientamento omosessuale sarebbero meno capaci di gestire gli impulsi sessuali. Il secondo aspetto riguarda invece l’impegno pubblico delle vocazioni alla vita consacrata e sacerdotali.
Ritengo che le considerazioni di papa Francesco in merito all’ammissione di persone con orientamento omosessuale in seminario o nella vita consacrata, sottendano entrambi questi temi. Nel colloquio a porte chiuse con i vescovi italiani, che Lei richiama, Bergoglio su questo argomento ha utilizzato l’espressione: «Attento discernimento». Aggiungendo: «Se avete anche il minimo dubbio, è meglio non farli entrare».
E nel testo intervista con Fernando Prado La forza della vocazione (Edb, 2018), di fronte alla domanda sull’omosessualità Francesco si esprime con queste parole: «È qualcosa che mi preoccupa, perché forse a un certo punto non è stato affrontato bene […] nella formazione dobbiamo curare molto la maturità umana e affettiva. Dobbiamo discernere con serietà e ascoltare anche la voce dell’esperienza che ha la Chiesa. Quando non si cura il discernimento in tutto questo, i problemi crescono. Come dicevo prima, capita che forse al momento non siano evidenti, ma si manifestano in seguito. Quella dell’omosessualità è una questione molto seria, che occorre discernere adeguatamente fin dall’inizio con i candidati, se è il caso. Dobbiamo essere esigenti. Nelle nostre società sembra addirittura che l’omosessualità sia di moda e questa mentalità, in qualche modo, influisce anche sulla vita della Chiesa».
Cosa sta continuando a ripeterci il nostro Papa? Ciò che io comprendo è che il discernimento alle vocazioni sacerdotali (e di vita consacrata) finora non è stato affrontato con la necessaria competenza, trasparenza e fermezza. Si è affrontato, ad esempio, poco o nulla, considerandolo talvolta un tema vergognoso, l’orientamento sessuale del candidato, aspetto che invece è molto importante, perché connota la persona e il suo modo di amare. Questo aspetto non può essere in nessun modo accantonato, ma neppure essere utilizzato come caratteristica unica per liquidare immediatamente la persona come “non adatta”.
«Il che significa che la persona che afferma di avere un orientamento omosessuale andrà conosciuta in quella complessità inedita di cui quel tratto è una parte, ma non il tutto, e che pure con quel tratto esprime qualcosa della propria umanità. Trascurare questo stato di cose conduce ad alcune derive, psicologiche ma pure teologiche […] E si badi bene: esprime proprio perché quel tratto “c’è”; e non, invece, “nonostante” quel tratto» (Stefano Guarinelli, in: www.avvenire.it/chiesa/pagine/abusi-nella-chiesa-3).
Ritengo, quindi, che da parte di papa Francesco, il mettere a tema l’orientamento sessuale e nello stesso tempo non chiudere in modo drastico le porte a persone con orientamento omosessuale, siano indicativi che il centro di attenzione deve essere proprio quello della maturità psico-affettiva, che va indagata su molteplici livelli e attraverso diversi aspetti.
Il punto di valutazione sull’idoneità alla vita sacerdotale e religiosa non sta nell’orientamento omosessuale come se fosse, a-priori, più a rischio di atti sessuali (non mi risulta alcun fondamento scientifico in questa presunzione), e perciò meno adatto al percorso vocazionale. Ogni adulto maturo, uomo o donna, dovrebbe, anzi, saper interporre un tempo e una riflessione tra desiderio/impulso (sessuale o di rabbia) e azione concreta. L’irresponsabilità e l’impulsività sono considerate dal già citato Manuale diagnostico di ultima generazione (DSM-5) come tratti patologici nel funzionamento della personalità umana.
Credo, allora, che questa sia e dovrebbe essere la preoccupazione dei rettori, dei superiori/delle superiore, dei formatori/delle formatrici: valutare, indagare senza fretta, anche con persone competenti nel campo della salute mentale e non solo spirituale, come “funziona” quella persona, come si comporta nel rapporto col maschile, col femminile, in casa, fuori casa, come vive e gestisce il peso – perché senza dubbio è tale – della solitudine affettivo/sessuale, perché la frustrazione dell’astinenza può degenerare in forme pericolose per sé e per gli altri.
Infatti, sempre nel discorso a porte chiuse ai pastori Cei, Bergoglio esprime la sua preoccupazione per la pratica degli atti omosessuali. Sono questi, quindi, a costituire un venir meno alla propria vocazione, e un male agli altri, ma lo sono tanto quanto gli atti sessuali tra un uomo ed una donna quando vengono compiuti da sacerdoti e consacrati.
È doveroso, quindi, e sono senza indugi d’accordo, che dove ci sia un dubbio che la persona non sia e non sarà in grado di corrispondere alle esigenze vocazionali – perché ha ferite psicologiche troppo profonde per poter essere risanate nell’ambiente del seminario o della comunità, e anche aiuti esterni risulterebbero insufficienti o richiederebbero un tempo troppo lungo di lavoro –, è bene che la persona non sia ammessa!
«Quando vi siano candidati con nevrosi e squilibri forti, difficili da poter incanalare anche con l’aiuto terapeutico, non li si deve accettare né al sacerdozio né alla vita consacrata. Bisogna aiutarli perché facciano altri percorsi, senza abbandonarli. Occorre orientarli, ma non li dobbiamo ammettere. Ricordiamo sempre che sono persone che vivranno al servizio della Chiesa, della comunità cristiana, del popolo di Dio. Non dimentichiamo questa prospettiva. Dobbiamo fare attenzione a che siano psicologicamente e affettivamente sani» (La forza della vocazione, ib.).
In passato, il sottovalutare le carenze della struttura umana o il presumere che bastassero la fede e la buona volontà a compensarle – “ci pensa il Signore, se preghi” – ha “generato” vocazioni psicopatologiche con gravi danni per se stessi e per gli altri.
Il secondo aspetto che avevo anticipato nello scorso numero è ancora papa Francesco ad esplicitarlo come parte integrante del discernimento sulla persona che vuole iniziare un percorso vocazionale: «Ricordiamo sempre che sono persone che vivranno al servizio della Chiesa, della comunità cristiana, del popolo di Dio».
Le vocazioni sacerdotali e alla vita religiosa hanno una rilevanza e una ricaduta sociale enorme.
Non sono scelte private o intimistiche, altrimenti non si farebbero professioni pubbliche quando si riceve il ministero o si emettono i voti. Celebrare l’Eucarestia, confessare, accompagnare i bambini, i giovani, stare con i poveri, gli ammalati, insegnare, rendersi disponibili ai trasferimenti, o pregare in luoghi stabili e circoscritti per il mondo… sono impegni che richiedono un notevole equilibrio personale. Il sacerdote, infatti, assume delle precise responsabilità morali, spirituali ed educative verso le persone che si confidano e si rivolgono a lui, proprio per il ruolo che ha.
Ecco perché è necessario spostare il baricentro dell’attenzione, nel discernimento iniziale e nell’accompagnamento successivo, dalla questione dell’omosessualità presa isolatamente in se stessa – ma che, come abbiamo detto, non può essere neppure sottovalutata come se fosse un aspetto qualunque – all’equilibrio generale della persona. Il sacerdote omosessuale coerente e fedele alla sua vocazione è un sacerdote ben riuscito. Sappia, però, come già dicevamo la scorsa volta, che qualora decidesse di condividere con altri, o diventasse esplicito il suo orientamento, l’accoglienza da parte dell’altro/degli altri (confratelli o fedeli) potrebbe non essere così benevola.
Concludo: l’orientamento sessuale non è un indicatore rappresentativo di tutta la persona, neppure sul piano vocazionale. Allora la valutazione rispetto al candidato omosessuale deve essere necessariamente personale, caso per caso, come per ogni candidato. Questo non riduce il valore delle norme e dell’Ideale, ma mette al centro la persona, la sua storia, il suo essere unico dal punto di vista spirituale e psicologico.
«È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano […] È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato a livello di una norma» (Papa Francesco, Amoris Laetitia, n. 304).
Aggiungo, infine, che l’essere sacerdoti o consacrati non rappresenta l’unica chance di santità o di corrispondenza al vangelo. Per cui quando la persona (o chi la accompagna) si rende conto che in quel percorso non cresce, non matura, compie sforzi quotidiani superiori alle sue capacità, ha desideri sessuali che diventano una lotta continua, allora deve accettare altre strade di realizzazione di sé. E ciò non vuol dire mandare la persona all’inferno o rifiutarla, significa aiutare innanzitutto lei a star bene e poi tutelare gli altri, oggi e domani.
Nell’ultimo numero, infine, affronterò la connessione, stavolta frequente ed esplicita, che lega indebitamente omosessualità e abusi.