In quest’ultima puntata della rubrica sul tema dell’omosessualità riprendo alcune osservazioni che mi sono giunte, affronto l’accostamento indebito tra omosessualità e pedofilia/abusi, infine riassumo gli aspetti che mi sembrano importanti.
La prima considerazione riguarda “l’impronta psicologica” della nostra rubrica, dedicata al cammino sacerdotale e alla vita in comune, di consacrati e consacrate. L’antropologia cristiana costituisce “la radice” e insieme il riferimento dei miei contributi che rimangono, però, psicologici e non teologici. Mi sembra utile ricordarlo per delineare il tipo di competenza che posso offrire.
Un altro aspetto che voglio riprendere con riferimento ai diversi contributi interessanti, pertinenti e attenti, che ci sono giunti in merito alle rubriche pubblicate sul tema dell’omosessualità, è quello che riguarda l’espressione di non ammissibilità al Seminario e agli Ordini sacri di «coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze profondamente radicate, sostengono la cultura gay» (Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, n. 199).
Non si può che condividere il dato incontestabile che praticare la sessualità (con persone dello stesso sesso, come con persone di sesso diverso) è del tutto incompatibile con una vocazione dove la genitalità, e l’espressione fisico-erotica sono sospese perché la persona fa dono di tutta sé stessa – cuore, mente e corpo – al Signore dell’Amore. Solo Lui può chiedere questa totalità e dare la grazia di corrispondervi per tutta la vita.
È chiaro, quindi, che il persistere della sessualità in modo attivo con un partner e il sostenere che sia giusto così, nonostante si proclamino celibato e castità come scelte esistenziali, rendono la persona scissa e quindi non ammissibile, né in seminario, né in comunità.
D’altro canto le tendenze sessuali, in quanto tali, salvo eccezioni – per esempio se la persona non ha raggiunto un adeguato grado di maturazione, e sta mettendo in discussione la propria identità in un percorso specialistico – sono radicate in tutte le persone adulte. Pertanto, credo di poter affermare che il documento suddetto si riferisca non alle tendenze in quanto tali, ma alla loro espressione attiva che permane nonostante la scelta fatta e che è inaccettabile. Per essere ancora più chiara: una persona che vive una sessualità attiva, omo o etero, come potrebbe rimanere in una comunità di consacrati che prevede celibato e castità?
Sullo stesso piano, sostenere la “cultura gay” significa molto più che avere un orientamento omosessuale gestito in modo coerente alla scelta vocazionale, o riflettere seriamente sull’argomento. Dal mio punto di vista significa, piuttosto, ostentare a tutti i costi le proprie convinzioni, facendole diventare una sorta di rivendicazione che passa attraverso modalità palesi e volutamente trasgressive. È chiaro che nessuna ostentazione di sé è compatibile con percorsi di vita fondati sui valori della mitezza, del rispetto, della donazione di sé che non necessita di nessuna espressione “rumorosa”. Qualsiasi “lobby” o associazione, etero o omo, per motivi etnici o ideologici, insidia dall’interno l’unità e l’armonia della comunità di consacrati.
E veniamo al tema abusi. Prendo come riferimento uno studio recente (Cantelmi – D’Urbano, FrancoAngeli 2015), basato su 2 ampi documenti voluti dalla Conferenza Episcopale Americana ed elaborati da una Commissione esterna estremamente competente (il John Jay College Research team): The Nature and Scope of Sexual Abuse of minors by Catholic Priests and Deacons in the United States, 1950-2000 e The Cause and Context of sexual abuse of minors by Catholic Priests in the United States, 1950-2010.
Serve forse chiarire prima di tutto che non bisogna usare con leggerezza l’espressione “pedofilia”, la quale si riferisce ad una condizione psicopatologica grave in quanto disturbo parafilico (cf. DSM-5): meno del 5% dei preti accusati di abuso ha avuto condotte che corrispondono ai criteri diagnostici psichiatrici della pedofilia, i quali prevedono un bambino di età prepuberale o sotto i 13 anni. La maggior parte delle situazioni riguarda invece ragazzi di età maggiore di 13 anni: questo non è consolante, ma attesta la grande e dannosa imprecisione mediatica.
Detto questo, non ci sono studi scientifici che colleghino in modo diretto gli abusi all’orientamento omosessuale. In altre parole, l’orientamento omosessuale non predispone all’abuso, né tanto meno alla pedofilia.
In generale gli abusi che avvengono in contesti quali la famiglia, l’ambito scolastico, le associazioni sportive, o altri contesti religiosi non cattolici e non cristiani dimostrano come gli abusi avvengano su bambini/bambine, ragazzi/ragazze indiscriminatamente.
Ritengo invece valida, in quanto supportata da alcuni studi, l’ipotesi sul più facile accesso dei sacerdoti (etero e omo) a minori di sesso maschile, visto che fino al 1983 i chierichetti erano solo di sesso maschile. A conferma di questo: il numero delle vittime di sesso femminile è aumentato alla fine degli anni ’90, quando anche le bambine hanno iniziato i servizi liturgici e i preti hanno potuto accostarle con maggiore agevolezza. Unica differenza – e questa costituisce trasversalmente un’indicazione riguardo al fatto che le condizioni dell’ambiente hanno un impatto enorme nelle situazioni di abuso – riguarda i luoghi di abuso: le vittime di sesso femminile vengono accostate soprattutto in chiesa e nella residenza del prete; i maschi anche durante viaggi, case per ritiri, camere d’albergo.
È interessante tuttavia, a tal proposito, rilevare come sia difficile una comparazione percentuale dei dati raccolti dalla Chiesa cattolica con quelli che riguardano altre istituzioni e organizzazioni religiose o laiche, in quanto nessuna organizzazione nel mondo ha condotto studi specifici e accurati sulla propria situazione, come ha coraggiosamente fatto la Chiesa cattolica. Questo non diminuisce di certo le sue responsabilità, ma, ad oggi, quella della Chiesa cattolica rimane l’unica vera ricerca con rilevanza statistica.
Papa Francesco, peraltro, dopo il Convegno su La protezione dei minori nella Chiesa (21-24 febbraio 2019) – ad ulteriore riprova dell’impegno fattivo e propositivo della Chiesa che oggi ha maturato una forte coscienza sul tema – ha promulgato un Motu Proprio Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili (26/03/2019) e delle Linee Guida da osservare ad experimentum per un periodo di tre anni.
Vorrei concludere sottolineando con forza che la scelta di seguire Cristo attraverso la vita sacerdotale o consacrata ha un valore altissimo oggi più che mai, perché espressione unica di un amore generoso e universale. Persone diverse, legate da una medesima passione carismatica, sono capaci di vivere bene insieme, con rapporti liberi e disinteressati, nella sobrietà quotidiana. Proprio in un tempo in cui l’umanità ha bisogno di recuperare se stessa e incontrare segnali di luce.
Le scelte vocazionali vanno quindi incoraggiate e sostenute, perché sono segno visibile e profezia di un mondo migliore.
Sono scelte, però, che richiedono un serio discernimento che aiuti la persona a comprendere: a) se quella decisione la aiuta a incontrare Cristo ed essere una persona migliore, b) se la sua struttura umana è in grado, col tempo, di sostenere gli impegni vocazionali.
Non voglio qui ripetere quanto già detto nelle scorse puntate della rubrica. Ribadisco, tuttavia, che la struttura umana più o meno matura è trasversale all’orientamento sessuale e tutti – chi prima e chi poi, chi in un contesto e chi in un altro – siamo chiamati a lavorare su noi stessi, ad affrontare tentazioni che anche gli sposati vivono nel quotidiano, e a corrispondere sempre meglio alle promesse o ai voti pronunciati: celibato, castità, povertà, obbedienza.
Il discernimento, e la formazione, quindi, devono essere esigenti, onesti e chiari, cioè devono mantenere “alti” gli ideali che sostengono l’appartenenza a Cristo secondo quella specifica forma di vita, senza indulgere ad ambiguità per attirare o mantenere le vocazioni solo perché numericamente scarse.
Questo, però, non vuol dire essere rigidi perché, come dice papa Francesco in una omelia, «sempre, sotto o dentro una rigidità, ci sono dei problemi. Gravi problemi». Essere rigidi qui vuol dire decidere a priori di rispondere “no” a una richiesta di intraprendere un percorso vocazionale solo in base all’orientamento omosessuale del candidato, senza contestualizzarlo nel funzionamento globale della persona.
È fondamentale, allora:
- chiarire i valori, le esigenze, le sfide e le regole della comunità. Su questi aspetti vanno confrontati i percorsi individuali, non solo all’inizio, incoraggiando i passi avanti che le persone in vocazione compiono. Non vanno sottolineate solo le cose che non vanno, è da valorizzare, invece, il bene raggiunto “oggi” (cf. AL, n. 308);
- definire criteri di discernimento chiari e concreti per quello specifico tipo di vita (diventare sacerdote richiede caratteristiche diverse dal fare il monaco);
- parlare di tutto onestamente, dialogare, ascoltare senza scandalizzarsi. La domanda è se seminari e comunità siano pronti per questa condivisione aperta. I non-detti, come le prese di posizione aprioristiche, alimentano inganni, doppie vite e rivendicazioni fuori luogo, «i club omosessuali» (per rimanere in tema), tipiche dei gruppi minoritari che si sentono perseguitati e senza voce;
- valutare e costruire, insieme alla persona in cammino, i passi più opportuni per lui/lei, i sacrifici concreti che lui/lei deve affrontare in base alla propria storia e personalità, fino alla decisione di un’eventuale strada alternativa.