Ho letto la sua precedente rubrica e sono curioso di vedere come tratterà l’aspetto pratico. Perché le sue riflessioni, a mio parere assolutamente necessarie oggi, non rimangano solo su un piano teorico mi dovrebbe aiutare a capire come affrontare concretamente la domanda se e come accettare uomini e donne omosessuali in seminario o in comunità. Non si può far finta che sia un argomento secondario, e neppure si può sottovalutare che siamo spesso disturbati quando veniamo a conoscenza che un confratello o una consorella (che magari fa già parte della comunità) ha un orientamento omosessuale. Mi sento spaesato su questi temi e chiedo a lei qualche chiarimento. Un formatore
Omosessualità e comunità
Non offro né soluzioni né una guida pratica sull’argomento, anche perché è molto articolato. Piuttosto propongo delle considerazioni che nascono dai miei valori di fede, dall’esperienza clinica e dall’accompagnamento di giovani e meno giovani, uomini e donne in formazione (seminario/comunità) o già impegnati nell’attività pastorale ed apostolica.
Ritengo che il vivere insieme abbia bisogno di almeno un paio di coordinate importanti: 1) la comunità deve avere sue regole chiare e concrete (sia su chi entra, sia sulle modalità di convivenza) che favoriscano un vivere insieme sano. 2) Le persone che ne fanno parte siano quanto più possibile consapevoli di se stesse (come anticipato nel numero precedente), in quanto il prezzo dell’ignoranza è molto alto: l’infelicità per sè e per gli altri, e talvolta disastri per sè e per gli altri.
Iniziamo dalla prima questione.
Le realtà formative e le comunità sono costituite generalmente da persone dello stesso sesso che condividono la preghiera, i pasti, i momenti insieme. Oggi, tuttavia, sono sempre più frequenti anche realtà vocazionali miste: spazi comuni per uomini e donne che appartengono allo stesso carisma. Fin qui si tratta di informazioni di base – la composizione della comunità solo maschile, solo femminile o mista – che sono tra i dati espliciti e noti a chi inizia il percorso, che normalmente ha già avuto contatti e incontri con quell’ambiente.
Ci sono, poi, anche principi pratici di vita insieme, meno evidenti, che la comunità deve rendere noti fin dall’inizio, perchè sono educativi per il cuore e prudenziali per il corpo. Vivere a stretto contatto con altri infatti, implica che il mio fratello, la mia sorella potrebbero entrare nel mondo del mio desiderio. E ovviamente io potrei entrare nel desiderio altrui.
Perciò, proprio perchè stare insieme tutti i giorni porta a volersi bene, pregare, mangiare l’uno accanto all’altro, è necessaria una qualità di vita comune elevata, e uno stile che rispetti lo spazio fisico di ciascuno, la riservatezza del suo corpo, la privacy e l’intimità.
In altre parole, va mantenuta tra le persone in comunità una “distanza ottimale”, tipicamente adulta, che non vuol dire ignorarsi o essere “freddi” l’uno con l’altro. Vuol dire, invece, rispettare il mistero proprio e dell’altro. Una comunità vocazionale è una realtà di fede, e non semplicemente umana. La differenza è abissale. Non si tratta di un gruppo di amici, sebbene l’amicizia sia un sentimento che può nascere naturalmente tra alcuni membri di comunità. Non si tratta neanche di relazioni esclusive (affettive o di “lobby”) come tra partner, perché questo tradirebbe il senso della vita sacerdotale e di quella consacrata. Se una persona sente che la solitudine fisica è troppo faticosa ed intollerabile, questo dovrebbe essere già decisivo per orientarsi altrove e lasciare la comunità.
Come corollario: la comunità rappresenta la “casa”, cioè uno spazio familiare di accoglienza, dialogo, condivisione di fatiche e di soddisfazioni, ma rimane un contesto stra-ordinario di convivenza tra persone di età, culture, sensibilità diverse che non si sono scelte, e che si trovano insieme per corrispondere ad una chiamata trascendente. Pertanto: linguaggio, comportamenti, abbigliamento decoroso, delicatezza, rispetto reciproco negli ambienti comuni sono da curare sempre.
Questo perchè un certo stile di vivere in comunità – la bellezza induce bellezza, il decoro ispira imitazione, come la mediocrità è contagiosa – favorisce atteggiamenti sani, rispettosi, non di eccessiva confidenza perchè questi possono facilmente trascendere in forme relazionali ambigue, quando non morbose, patologiche, che corrompono la castità, anche “solo” del cuore.
Detto ciò il discorso si va articolando e vengo alla seconda questione.
La persona che entra conosce se stessa e il proprio orientamento sessuale? La mia esperienza mi fa dire: molto raramente. In genere la consapevolezza del proprio orientamento si acquisisce solo nel corso della formazione, e raramente, purtroppo, chi entra in seminario o in comunità condivide questi aspetti centrali della propria personalità con il formatore/formatrice, rettore, accompagnatore spirituale, perchè neppure lui o lei ne è a conoscenza! E se ne è a conoscenza non ne ha il coraggio.
Mi permetto un’altra riflessione sul discernimento: non è raro che la comprensione del proprio orientamento omosessuale – che, diciamolo pure, rimane difficile ancora oggi da esplicitare in famiglia, con gli amici e da vivere apertamente – possa creare una motivazione inconsapevole verso una scelta sacerdotale e di vita consacrata. Perchè è un percorso che offre una chance di gestire la propria affettività/sessualità in modo valido, anzi “meritevole” e contenuto. Se non conosco bene me stesso, posso fare scelte sbagliate, che non mi aiutano a diventare un uomo o una donna migliore, e possono creare danni ad altri, come si diceva.
Mettiamo, invece, la migliore delle ipotesi per cui la persona abbia chiaro ed espliciti fin dall’inizio il proprio orientamento omosessuale, rendendosi quindi disponibile a un accompagnamento sincero e autentico.
In entrambi i casi – se la persona in vocazione esplicita fin dall’inizio di avere un orientamento omosessuale oppure lo scopre successivamente – come si regola la comunità?
- La accetta, se sì a quali condizioni? La manda via?
- Gli altri membri devono saperlo?
Rispondo, sapendo di non trovare assolutamente pareri unanimi, che non c’è una ragione a priori per cui la persona non dovrebbe essere accolta, o dovrebbe essere allontanata tout court. Tuttavia la persona con orientamento omosessuale dovrà essere accompagnata con particolare attenzione, perchè la fatica per lui/per lei è maggiore in quanto vive in un contesto con continui stimoli affettivi e sessuali. In casa è circondato/a prevalentemente da persone dello stesso sesso.
Dunque nessuna ingenuità: le sfide del vivere insieme sono enormi, e una persona omosessuale che voglia seguire Cristo all’interno di una realtà carismatica potrà farlo solo se arriva ad una consapevolezza sincera di sè e accetta di essere affiancata seriamente.
D’altro canto formatori/formatrici, superiori/e, rettori, devono essere sempre più competenti per essere in grado di aiutare in modo serio, accogliente il fratello, la sorella a lui affidato ed eventualmente trovare con lui/lei una strada alternativa. Ripeto, però, che non dovrebbe essere l’orientamento sessuale in se stesso ad essere la questione dirimente. Bisogna valutare caso per caso, in funzione anche dell’ambiente comunitario e del compito pastorale (ne parleremo la prossima volta).
Alla seconda domanda rispondo che le comunità non sono sempre pronte ad un’accoglienza non giudicante verso le persone omosessuali, anche per tutta una serie di pregiudizi, o per motivazioni sociali e/o culturali. C’è sospetto, c’è timore, talvolta rifiuto incondizionato, quasi istintivo.
Quindi credo che il fratello o la sorella che vogliano aprirsi con gli altri membri debbano essere consapevoli che si potrebbero trovare davanti a risposte diverse, rifiuto compreso.
Ecco perchè è fondamentale che questi temi vengano affrontati per tempo, in modo concreto e non solo eccezionalmente nella vita comunitaria: bisogna imparare a parlarne senza scandalizzarsi e senza assumere posizioni rigide, ma dialogando, discutendo, in modo da non trovarsi impreparati di fronte a queste situazioni che rischiano di ferire chi decide di esporsi e parlare di sé.
Concludo, l’ideale a mio parere è:
- da parte della persona omosessuale, l’apertura franca e autentica di sè, innanzitutto verso chi accompagna il percorso vocazionale. Dove c’è apertura entra la luce e si può crescere;
- da parte delle comunità, il coraggio di riflettere apertamente su questi temi, per non essere ambigue o impreparate, decidendo insieme come regolarsi di fronte a un membro omosessuale. La comunità, ovviamente, può ritenere che non si sente pronta ad accoglierlo o mantenerlo all’interno. Bene che sia chiara su questo.
Rimane “scoperta” la dimensione apostolica di cui avremo modo di parlare nella prossima puntata della rubrica.