Sono una formatrice di un monastero di clausura. È arrivata da noi una giovane che ha espresso il desiderio di condividere la nostra vita, ma soffre di un disturbo alimentare piuttosto serio, per cui è visibilmente e notevolmente sottopeso e io, anzi noi, siamo preoccupate per questo aspetto. È in gamba, ha fatto un percorso di studi solido ed è ben seguita dal punto di vista medico per cui ora ha un suo equilibrio, ma in seguito? E fino a quando? Il sacerdote che l’accompagna ha obiettato che se non siamo noi ad accogliere una ragazza come lei, chi dovrebbe farlo? E questa sua osservazione ha acuito il nostro sentirci in colpa e confuse. Se lei potesse dirci qualcosa ci sarebbe di aiuto. Grazie.
Ammettere in comunità persone fragili?
Non è un argomento nuovo per questa rubrica, ma il suo interrogativo è estremamente importante e quindi mi dà l’opportunità di riprendere la questione. I responsabili di comunità, formatori e formatrici, si pongono spesso l’interrogativo di quale sia la linea di confine per poter ammettere persone che presentano delle vulnerabilità dal punto di vista psico-fisico.
È chiaro che una linea netta non esiste, anche perché nessuno di noi può collocarsi esattamente secondo un gradiente preciso di “normalità”. Sulle pareti di Santa Maria della pietà che oggi ospita un “Museo laboratorio per la mente” si può leggere la scritta «da vicino nessuno è normale», di forte impatto, ma anche molto vera.
Ora, andando al concreto della questione, credo che non ci siano dubbi sul fatto che la vocazione sia innanzitutto l’intuizione di una proposta di vita messa nel cuore da Dio. Prima di essere una corrispondenza personale, è un’offerta d’amore che si riceve. Tuttavia la vocazione non può racchiudersi solo in questa dualità di presenze.
O meglio: quando si parla di vocazione sacerdotale e religiosa c’è un terzo elemento che ne è parte integrante: la Chiesa, attraverso le persone deputate al discernimento o alla valutazione dei candidati (magari la stessa attenzione ci fosse per le coppie che si avviano al matrimonio-sacramento).
Non esiste, e non potrebbe sussistere, un sindacato vocazionale che garantisca il diritto ad entrare nel cammino e a poter andare avanti fino alla professione definitiva o all’ordinazione. Esiste, invece, il diritto di chi accompagna – e che non si è dato da solo questo incarico – a verificare alcuni elementi, spirituali ed umani, essenziali per poter procedere e che sono individuati dal diritto canonico, dalle norme di ciascuna realtà, nonché dall’esperienza di chi ha più anni di cammino.
Nelle tappe che conducono all’ordinazione sacerdotale tale processo si rende più evidente perché passa anche attraverso un itinerario di studi e indicazioni esplicitate dal diritto e da altri documenti quali, ad esempio, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis. Penso, comunque che, pur tenendo conto della singolarità di ciascuna vocazione di “speciale appartenenza”, la questione dell’ammissione in comunità e ad emettere la professione debba essere guidata da criteri simili.
Il vivere insieme ad altri fratelli e sorelle, nella vita claustrale ed apostolica, l’impegno missionario dentro o fuori le mura domestiche, indicano chiaramente che si tratta di vocazioni aperte ad altri e che non si vivono solo dentro la propria intimità interiore. Non a caso quando l’impegno diventa stabile la cerimonia è pubblica, solenne.
I criteri a cui mi riferisco, dal punto di vista psicologico, sono previsti a garanzia innanzitutto del benessere della persona: che non resti schiacciata o frustrata da uno stile che non le corrisponde. E poi a garanzia della comunità che la accoglie e nella quale si inserisce. Come ripeto spesso, la comunità non è deputata a sanare e guarire le vulnerabilità individuali. O meglio: tale miglioramento di sé può considerarsi un effetto “collaterale”, ma non il compito primario della vita in comune, molto semplicemente perché essa non ha gli strumenti per poterlo fare e non è chiamata a tale compito.
Non vorrei assolutamente che passasse l’immagine del superuomo o della superdonna in vocazione. È piuttosto un’attenzione di amore valutare, per quanto possibile, se la persona potrà procedere serenamente in quel contesto esistenziale, realizzando se stessa, cioè potendo mettere a frutto tutti i talenti che Dio le ha dato. Ed è ancora un’attenzione d’amore custodire la vita comunitaria perché non si configuri per principio una “croce”, per la presenza di persone che lasciano scarsi margini di possibilità di miglioramento.
Aggiungo che certamente ogni famiglia naturale o di vita in comune è attraversata da sacrifici, momenti di desolazione e di fatica, malattie, invalidità sopraggiunte, che si affrontano insieme, nell’unità di affetto, e questo è fuori discussione. Anzi oggi è fondamentale rimettere al centro la famiglia – naturale e spirituale – come luogo di non-scarto del debole e dell’anziano. Però mi sembra chiaro che i piani di riflessione siano diversi.
Allora riguardo alla domanda iniziale: una condizione di malessere personale non è di per sé preclusiva di un percorso vocazionale, ma occorre attentamente valutare l’equilibrio generale della persona:
- come quella difficoltà specifica è vissuta dal soggetto stesso e quale influenza avrebbe sui suoi impegni quotidiani, da quelli più piccoli come l’alzata mattutina a quelli più grandi, se egli/ella è disponibile al confronto e all’aiuto, quanto è tenace, cosa si aspetta dalla comunità,
- quale impatto avrebbe quella difficoltà nella vita di comunità, cioè se la comunità sarebbe costretta a chiedere a qualcuno dei suoi membri di occuparsi solo di quella persona, perché richiede un’attenzione privilegiata e continua.
Quindi quale peso e centralità abbia il disturbo alimentare nella vita della giovane è da considerare seriamente. Quale peso abbia sull’andamento comunitario anche. Importante è parlare apertamente e onestamente con lui/lei, perché siete voi ad accoglierla e nessuna persona esterna può decidere al vostro posto.
Comunque, le realtà carismatiche – e forse anche voi – di solito prevedono diverse forme di condivisione dello spirito del fondatore o della fondatrice, che non richiedono la vita in comune. Per cui, alla persona che ha un sincero desiderio di seguire in modo radicale il Signore, potreste proporre, se è possibile, altre espressioni vocazionali sempre all’interno del vostro carisma.
Ogni situazione è a sé, e ogni persona ha una propria storia. Qui ho proposto una riflessione a grandi linee che spero possa averla sollevata dai suoi sensi di colpa che non ha motivo di avere. Purtroppo a volte sacerdoti incauti, pur in perfetta buona fede – oggi meno male sempre meno – confondono a torto le comunità religiose (specialmente quelle femminili) con delle comunità terapeutiche.
Concludo con le parole di papa Francesco, che vanno in questa direzione e che leggiamo in un testo intervista: «È una grande sfida per i formatori. Sono sempre esistiti giovani che cercano il sostegno dell’istituzione. Succede anche nei seminari diocesani. Ci sono alcune congregazioni religiose, maschili e femminili, che ancora non si sono rese conto della necessità che c’è oggi di esaminare minuziosamente le vocazioni che si presentano e di fare una buona selezione delle vocazioni che arrivano […] Non si possono ammettere persone che non siano adatte, o persone con problemi abbastanza seri che credono di trovare sostegno agli stessi nella vita consacrata».