L'esperto risponde / Psicologia

Chiara D’Urbano

Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.

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Vita in comune

Ammettere in comunità persone fragili?

Sono una formatrice di un monastero di clausura. È arrivata da noi una giovane che ha espresso il desiderio di condividere la nostra vita, ma soffre di un disturbo alimentare piuttosto serio, per cui è visibilmente e notevolmente sottopeso e io, anzi noi, siamo preoccupate per questo aspetto. È in gamba, ha fatto un percorso di studi solido ed è ben seguita dal punto di vista medico per cui ora ha un suo equilibrio, ma in seguito? E fino a quando? Il sacerdote che l’accompagna ha obiettato che se non siamo noi ad accogliere una ragazza come lei, chi dovrebbe farlo? E questa sua osservazione ha acuito il nostro sentirci in colpa e confuse. Se lei potesse dirci qualcosa ci sarebbe di aiuto. Grazie.

Non è un argomento nuovo per questa rubrica, ma il suo interrogativo è estremamente importante e quindi mi dà l’opportunità di riprendere la questione. I responsabili di comunità, formatori e formatrici, si pongono spesso l’interrogativo di quale sia la linea di confine per poter ammettere persone che presentano delle vulnerabilità dal punto di vista psico-fisico.

È chiaro che una linea netta non esiste, anche perché nessuno di noi può collocarsi esattamente secondo un gradiente preciso di “normalità”. Sulle pareti di Santa Maria della pietà che oggi ospita un “Museo laboratorio per la mente” si può leggere la scritta «da vicino nessuno è normale», di forte impatto, ma anche molto vera.

Ora, andando al concreto della questione, credo che non ci siano dubbi sul fatto che la vocazione sia innanzitutto l’intuizione di una proposta di vita messa nel cuore da Dio. Prima di essere una corrispondenza personale, è un’offerta d’amore che si riceve. Tuttavia la vocazione non può racchiudersi solo in questa dualità di presenze.

O meglio: quando si parla di vocazione sacerdotale e religiosa c’è un terzo elemento che ne è parte integrante: la Chiesa, attraverso le persone deputate al discernimento o alla valutazione dei candidati (magari la stessa attenzione ci fosse per le coppie che si avviano al matrimonio-sacramento).

Non esiste, e non potrebbe sussistere, un sindacato vocazionale che garantisca il diritto ad entrare nel cammino e a poter andare avanti fino alla professione definitiva o all’ordinazione. Esiste, invece, il diritto di chi accompagna – e che non si è dato da solo questo incarico – a verificare alcuni elementi, spirituali ed umani, essenziali per poter procedere e che sono individuati dal diritto canonico, dalle norme di ciascuna realtà, nonché dall’esperienza di chi ha più anni di cammino.

Nelle tappe che conducono all’ordinazione sacerdotale tale processo si rende più evidente perché passa anche attraverso un itinerario di studi e indicazioni esplicitate dal diritto e da altri documenti quali, ad esempio, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis. Penso, comunque che, pur tenendo conto della singolarità di ciascuna vocazione di “speciale appartenenza”, la questione dell’ammissione in comunità e ad emettere la professione debba essere guidata da criteri simili.

Il vivere insieme ad altri fratelli e sorelle, nella vita claustrale ed apostolica, l’impegno missionario dentro o fuori le mura domestiche, indicano chiaramente che si tratta di vocazioni aperte ad altri e che non si vivono solo dentro la propria intimità interiore. Non a caso quando l’impegno diventa stabile la cerimonia è pubblica, solenne.

I criteri a cui mi riferisco, dal punto di vista psicologico, sono previsti a garanzia innanzitutto del benessere della persona: che non resti schiacciata o frustrata da uno stile che non le corrisponde. E poi a garanzia della comunità che la accoglie e nella quale si inserisce. Come ripeto spesso, la comunità non è deputata a sanare e guarire le vulnerabilità individuali. O meglio: tale miglioramento di sé può considerarsi un effetto “collaterale”, ma non il compito primario della vita in comune, molto semplicemente perché essa non ha gli strumenti per poterlo fare e non è chiamata a tale compito.

Non vorrei assolutamente che passasse l’immagine del superuomo o della superdonna in vocazione. È piuttosto un’attenzione di amore valutare, per quanto possibile, se la persona potrà procedere serenamente in quel contesto esistenziale, realizzando se stessa, cioè potendo mettere a frutto tutti i talenti che Dio le ha dato. Ed è ancora un’attenzione d’amore custodire la vita comunitaria perché non si configuri per principio una “croce”, per la presenza di persone che lasciano scarsi margini di possibilità di miglioramento.

Aggiungo che certamente ogni famiglia naturale o di vita in comune è attraversata da sacrifici, momenti di desolazione e di fatica, malattie, invalidità sopraggiunte, che si affrontano insieme, nell’unità di affetto, e questo è fuori discussione. Anzi oggi è fondamentale rimettere al centro la famiglia – naturale e spirituale – come luogo di non-scarto del debole e dell’anziano. Però mi sembra chiaro che i piani di riflessione siano diversi.

Allora riguardo alla domanda iniziale: una condizione di malessere personale non è di per sé preclusiva di un percorso vocazionale, ma occorre attentamente valutare l’equilibrio generale della persona:

  • come quella difficoltà specifica è vissuta dal soggetto stesso e quale influenza avrebbe sui suoi impegni quotidiani, da quelli più piccoli come l’alzata mattutina a quelli più grandi, se egli/ella è disponibile al confronto e all’aiuto, quanto è tenace, cosa si aspetta dalla comunità,
  • quale impatto avrebbe quella difficoltà nella vita di comunità, cioè se la comunità sarebbe costretta a chiedere a qualcuno dei suoi membri di occuparsi solo di quella persona, perché richiede un’attenzione privilegiata e continua.

Quindi quale peso e centralità abbia il disturbo alimentare nella vita della giovane è da considerare seriamente. Quale peso abbia sull’andamento comunitario anche. Importante è parlare apertamente e onestamente con lui/lei, perché siete voi ad accoglierla e nessuna persona esterna può decidere al vostro posto.

Comunque, le realtà carismatiche – e forse anche voi – di solito prevedono diverse forme di condivisione dello spirito del fondatore o della fondatrice, che non richiedono la vita in comune. Per cui, alla persona che ha un sincero desiderio di seguire in modo radicale il Signore, potreste proporre, se è possibile, altre espressioni vocazionali sempre all’interno del vostro carisma.

Ogni situazione è a sé, e ogni persona ha una propria storia. Qui ho proposto una riflessione a grandi linee che spero possa averla sollevata dai suoi sensi di colpa che non ha motivo di avere. Purtroppo a volte sacerdoti incauti, pur in perfetta buona fede – oggi meno male sempre meno – confondono a torto le comunità religiose (specialmente quelle femminili) con delle comunità terapeutiche.

Concludo con le parole di papa Francesco, che vanno in questa direzione e che leggiamo in un testo intervista: «È una grande sfida per i formatori. Sono sempre esistiti giovani che cercano il sostegno dell’istituzione. Succede anche nei seminari diocesani. Ci sono alcune congregazioni religiose, maschili e femminili, che ancora non si sono rese conto della necessità che c’è oggi di esaminare minuziosamente le vocazioni che si presentano e di fare una buona selezione delle vocazioni che arrivano […] Non si possono ammettere persone che non siano adatte, o persone con problemi abbastanza seri che credono di trovare sostegno agli stessi nella vita consacrata».

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Vita in comune

Vita in comune e celibato sono compatibili?

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Dopo gli scandali degli ultimi anni forse sarebbe meglio ripensare, e forse abolire, le comunità di persone “costrette” al celibato. O almeno stabilire dei requisiti psicologici minimi indispensabili. Un laico preoccupato   preti


Direi in modo sintetico: non si può fare un identikit di chi è “adatto”, però ci vuole senz’altro una maturità di base. Un pensiero diffuso è che sia la condizione di celibato a far fallire molte vocazioni, o addirittura a deviarle. Non è così. I due report voluti dalla Conferenza Episcopale Americana, in seguito allo scandalo degli abusi esploso negli Stati Uniti nel 2002, rilevano che in realtà l’antica pratica del celibato, risalente nella Chiesa Cattolica all’XI secolo, non ha nulla a che vedere con la corruzione sessuale che l’ha gravemente ferita, anche perché il picco degli abusi negli anni ’60-’70 e la decrescita a partire dalla fine degli anni ‘80 mostrano come essi siano indipendenti rispetto alla continuità della pratica celibataria. Tuttavia bisogna essere onesti e senza illusioni: vivere insieme non è facile, non basta la buona intenzione di vivere con altri perché questo funzioni e produca benefici. Quando manca una struttura psicologica minima o essa è molto fragile, lo stare insieme moltiplica i problemi, come una grande cassa di risonanza dove l’eco amplifica ogni suono… A riprova di quanto sto dicendo voglio condividere una delle ricerche riguardo all’efficacia dei gruppi di incontro (cf. Yalom, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo) sui cambiamenti personali: lo stare in gruppo è migliorativo sul comportamento e la personalità del singolo? 210 partecipanti a 16 gruppi esperienziali trimestrali, con leader provenienti da 10 Scuole diverse, furono confrontati a 69 soggetti non partecipanti ad alcun gruppo a cui vennero dati questionari da riempire. I risultati furono che, appena dopo il termine dell’esperienza, i primi espressero una valutazione molto positiva dei gruppi di incontro quanto a “piacevolezza”, “costruttività” e “istruttività”; già nel follow up dei 6 mesi seguenti l’entusiasmo era diminuito, ma comunque un terzo di essi (circa il 39%) continuava a percepire un cambiamento positivo moderato o addirittura considerevole, l’8% dei partecipanti invece aveva subito un disagio che si era addirittura protratto per i 6 mesi seguenti la conclusione del gruppo; infine i soggetti di controllo, valutati nelle stesse dimensioni degli altri, mostravano un cambiamento minore sia in positivo che in negativo. Dipendeva forse dalla bravura del leader? Sembrerebbe di no: sebbene il ruolo del leader ed il suo equilibrio – e non la sua scuola di provenienza – influenzino notevolmente l’andamento del gruppo (un leader troppo direttivo genera un gruppo che non riesce a sviluppare autonomia, aritmico, uno troppo liberale genera gruppi confusi), egli non aveva una efficacia diretta sull’individuo. Qual era dunque la nota distintiva rispetto al cambiamento personale e alla sua durata? Ecco il fulcro della risposta: chi aveva la capacità di attribuire significati, di integrare e trasferire in altre situazioni di vita l’esperienza vissuta. Con altro linguaggio: chi aveva capacità di “insight”. Utilizzando questa ricerca per il contesto della vita in comune potremmo dire quindi che affinché la vita insieme possa funzionare è importante il ruolo di chi funge da coach, se è previsto che ci sia, ma è soprattutto una adeguata base di maturità a fare la differenza sostanziale. Se questa manca, anche la migliore esperienza comunitaria avrà un forte impatto sul momento che però di lì a poco scolora…
Vita in comune

Vita in comune, social, famiglia: quali scenari in futuro?

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Mi rincuorano certi dati che rilevano più che una crisi, un cambiamento (meno religiosi ma più diaconi per esempio). Mi preoccupa la crisi dei religiosi in Europa, quindi in Italia. Quante scuole cattoliche stanno chiudendo l'una dopo l'altra per mancanza di vocazioni che portino avanti carismi meravigliosi? Alessandro Pernini

 

I social network non aiutano la comunità, ma incentivano l'individualismo e la propria autocelebrazione, però penso anche che possano essere usati in modo formativo ed edificante, come può essere il tuo articolo "twittato". Ho 28 anni, non sono sposata e non ho figli, ma sto vivendo il mio discernimento vocazionale, ho molti amici coetanei alcuni sposati, alcuni con figli, altri soli e dediti totalmente al lavoro o allo studio, e guardandoli con gli occhi dell'amicizia vedo tanto spaesamento, molta confusione, in pochi sanno ciò che conta veramente nella loro vita, pochi hanno una meta. Penso che oggi ci sia bisogno di puntare sulle famiglie, di sostenerle su tutti i fronti, di considerare tutti i figli come propri e di non lasciarle sole. Credo questa sia la strada per tornare ad apprezzare la vita comune, le comunità e farle essere un focolare di amore per tutti. Rosa   social  


Che siamo tutti protagonisti e non solo spettatori di un vero e proprio cambiamento antropologico è fuori di dubbio: sta mutando ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità, e di stare in relazione. Pensiamo al maschile e al femminile, la diade più antica dell’umanità: dimensioni che fino a poco tempo fa nessuno avrebbe messo seriamente in discussione, oggi vengono frantumate in una varietà di sfumature e sul profilo Facebook – per ora solo su quello USA – si dispone di parole stravaganti, ben 58, per poter identificare il proprio genere di appartenenza (ma forse mentre scrivo sono già aumentate le opzioni). E se ci spostiamo sui rapporti interpersonali, chi di noi può dire che una conversazione in chat non sia spesso più appetibile di una dal vivo…? Alla domanda se tutto questo sia opera dei social network la risposta è no, peraltro i social ormai fanno parte della nostra vita, anzi si può dire che siano il pianeta del terzo millennio e non ha senso ragionare in termini di demonizzazione. Però siamo onesti: non esiste la “neutralità”, per cui l’uso dei social ha necessariamente un’incidenza nella nostra giornata, nella nostra mente. Ad esempio, più di una Responsabile di comunità mi raccontava sconfortata che al momento della ricreazione, quando cioè ci si dovrebbe incontrare volentieri per stare insieme senza impegni di lavoro, tutte scappano nella loro camera, per navigare, usare skype... Allora diciamo che:
  1. i social non hanno creato, piuttosto hanno colto uno scontento relazionale già in atto e hanno offerto delle risposte che in nessun caso vanno subite per il solo fatto che ormai così va il mondo;
  2. se c’è una domanda, vuol dire che dietro c’è un bisogno. Se si cercano nuove forme relazionali significa che quelle precedenti non funzionavano bene.
Come ne usciamo? Potremmo osare alcune considerazioni come risposte possibili:
  • aver voglia di un’identità chiara, solida e ben costruita non vuol dire tornare ad essere rigidi e fuori tempo. Il ritmo ordinato della vita consacrata o le norme che una famiglia si dà, non sono da disdegnare, anzi sono una bella sfida in questa direzione;
  • i nostri spazi familiari, proprio quelli che a volte dovrebbero essere profezia di comunione, sono segnati da rabbia e risentimenti. È più facile tagliare che ricucire: processi, come quello del perdono, sono anti-economici ma hanno una potenza straordinaria individuale e relazionale, vale la pena scoprirlo o riscoprirlo;
  • se il momento ricreativo di una realtà comunitaria non va a nessuno, forse non sono più attuali le forme proposte per stare insieme, perché magari erano state pensate in un contesto storico ben differente. Oppure: se i pasti diventano un fuggi-fuggi di genitori e figli (nessuno escluso) forse è perché a tavola non si riesce a condividere qualcosa di sé, e andando a monte, non si ha niente da dire perché in fondo non ci si sente veramente famiglia. La vita in comune reclama una umanizzazione che significa: ascolto, dialogo autentico, presenza, tenerezza…
Concludendo: le forme di vita insieme non possono auto-giustificarsi, come mi pare accadesse un tempo, quando si davano per assodate e giuste per il solo fatto di esserci; è urgente recuperare attrattiva perché, come osserva Francesco, la gente arrivi a dire: “vogliamo venire con voi!”.
Vita in comune

Le comunità religiose hanno ancora un futuro?

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Vocazioni in calo, problemi affettivi e un senso di "fatica". Nella nostra società individualistica le forme di vita comunitaria sembrano quasi anacronistiche. O no?   suore


Ricordo un giorno speciale di fine liceo: in uno di quei campi scuola organizzati per far conoscere a ragazzi e ragazze le diverse strade vocazionali, ci portarono in un monastero di clausura. Fu un’occasione folgorante per noi adolescenti qualunque: nonostante l’abito, le grate e l’ingresso buio mettessero un che di soggezione, l’incontro con delle giovani così particolari rese quel pomeriggio indimenticabile. I numerosi volti, allegri e accoglienti, tutti under trenta, provenienti da varie regioni d’Italia, facevano un forte contrasto con l’ambiente austero nel quale ci accoglievano. I miei 17-18 anni non mi permisero di fare le domande giuste per arrivare alle radici della loro scelta di vita, radicale e apparentemente sganciata dalla realtà circostante; quasi certamente ci attenemmo ad un copione banale di curiosità del tipo: «Ma tu puoi fare questo…, puoi fare quello…?». Sta di fatto che da allora mi hanno incuriosito e affascinato, per svariate ragioni, non solo quelle stra-ordinarie realtà divine-umane racchiuse spesso in case monumentali, con prati ben curati dal verde invidiabile, ritmate da campane e preghiere raffinate, ma tutte le forme di vita in comune, fatte di un'umanità eterogenea che condivide la quotidianità, con le innumerevoli fatiche che qualunque convivenza comporta, e sotto la spinta di un medesimo progetto di fede, il “carisma”. I numeri da allora sono scesi: 15/20 giovani che si trovano insieme in un percorso del genere sarebbero eccezionali oggi, almeno in Italia. Dando un’occhiata alle statistiche ufficiali dell’Annuario Pontificio 2016 che riferisce vari report numerici riguardanti la Chiesa cattolica nel mondo, ho trovato dati molto interessanti, che rappresentano uno spaccato significativo del nostro tempo. Uno sguardo generale: nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). La presenza cattolica sale, pertanto, al 17,8% nel 2014, dal 17,3% del 2005. In termini assoluti si contano circa 1.272 milioni di cattolici nel 2014 a fronte dei 1.115 milioni del 2005. L’Europa è l’area meno dinamica in assoluto, al contrario dei due continenti emergenti di Asia e Africa. E fin qui forse niente di nuovo. Se proviamo a leggere nello specifico l’andamento delle vocazioni “particolari”, cioè quelle di impegno radicale, attivo ed esplicito nella Chiesa, inizia a delinearsi almeno il contorno di questo millennio, anche da un punto di vista geografico. Sono in aumento, a livello mondiale, (ma non in America del Nord ed in Europa dove invece sono in ribasso) i numeri del clero, cioè dei sacerdoti diocesani e religiosi, da 406.411 nel 2005 sono passati a 415.792 nel 2014, poi il numero grosso modo si stabilizza. Per essere più precisi però, i sacerdoti diocesani presentano un andamento nel complesso crescente rispetto ai sacerdoti del clero religioso che invece, a livello globale, sono piuttosto in calo. Un altro dato importante: meno sacerdoti abbandonano la loro strada; bene, si direbbe che l’attenzione formativa post-conciliare, nel discernimento e nell’accompagnamento, inizi a produrre i suoi frutti. Sono però in aumento i decessi per età avanzata, soprattutto in Europa dove l’indice di natalità è basso mentre quello di invecchiamento è elevato. Ancora un dato molto significativo: diminuiscono religiosi e suore nei tre continenti di America, Europa ed Oceania; in Africa ed in Asia, invece, l’incremento è decisamente sostenuto, intorno al 20% il primo e all’11% il secondo. In altre parole e a grandi linee, la vocazione sacerdotale diocesana ha ancora generalmente presa; sembra invece averne meno, almeno in America del Nord ed Europa, quella alla vita religiosa. Osserviamo allora che l’Europa chiaramente cessa di essere un modello di riferimento quanto a contributo demografico e vocazionale in senso stretto. Tuttavia proprio qui, e nelle regioni dove stanno venendo meno scelte di consacrazione, sta crescendo a ritmo sostenuto il numero dei diaconi permanenti, cioè di uomini sposati che coadiuvano i sacerdoti nell’azione pastorale sul territorio, e ciò «non è certamente riconducibile a motivazioni temporanee e contingenti, ma sembra esprimere nuove e differenti scelte nell’esplicazione dell’attività di diffusione della fede»; in Asia ed Africa questa vocazione invece è ancora poco conosciuta e forse meno “necessaria”. Qualche altra considerazione immediata: appare evidente che alcuni stili di vita hanno ancora appeal sull’uomo contemporaneo, altri invece ne hanno molto meno. Non sarà un caso se le vocazioni più “collettive”, cioè che richiedono il vivere insieme, non sono così numerose nei paesi del benessere materiale dove invece – scorriamo semplicemente i numeri – quelle di carattere più individuale attirano maggiormente. Mi pare inoltre, al di là delle statistiche ufficiali, che alcune forme di consacrazione laica che non richiedono necessariamente la vita comunitaria e forme più “moderne”, per quanto pur sempre di vita consacrata, di convivenza si stiano invece diversificando. Alla base di tutto, oltre alla vocazione personale che è la prima chiave di lettura, c’è probabilmente una fatica generalizzata a vivere insieme, complici i social che hanno potenziato modalità rapide e light di connessione più che di relazione, una moderna e magari giustificata intolleranza verso le strutture eccessivamente rigide, ma anche il bisogno lecito di rinnovare la vita comune che forse deve ritrovare forme più attuali e convincenti, rispetto a quelle del passato, che poi così perfette non erano. Per concludere: la condivisione di vita (religiosa e non) è una scelta controcorrente, ma ha ancora un futuro, secondo me, anzi proprio oggi rappresenta una scelta profetica.  
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