Passo la maggior parte del mio ascolto ad accogliere le osservazioni pungenti che giovani e meno giovani si fanno l’uno “contro” l’altro. È micidiale per il clima comunitario lo spirito critico esagerato e il parlare alle spalle che spesso arriva alla persona interessata e la ferisce al punto tale che poi ricucire la relazione col gruppo diventa complicatissimo. Vorrei che spendesse qualche parola su questo tema perché mi sembra un’emergenza del nostro tempo, trasversale alla cultura e alle generazioni. Da dove nasce? Come si può affrontare? Un formatore
Calunnie che uccidono
Non credo di riuscire a rispondere in un’unica puntata della rubrica. Direi, allora, che questa volta introduco gli aspetti psicologici-personali che alimentano le critiche distruttive (in fondo questa è la mormorazione). Nel numero successivo affronterò, invece, l’aspetto naturale dell’antipatia che alimenta la maldicenza (si può orientare diversamente? Se l’altro mi è antipatico che posso farci?), e quello dello stile comunitario (dalla tradizione gerarchica e verticalista ad un nuovo clima relazionale).
Inizio raccontando una bella esperienza vissuta in una comunità maschile, nella quale i membri hanno competenze e attività professionali diverse. Ho potuto constatare in prima persona i fatti che sto per condividere.
Andrea parla di Luca (nomi di fantasia, per rispetto della privacy) come di «una persona attenta e sensibile». Luca, nello stesso tempo, descrive l’attività che svolge Marcello come «qualcosa di grande livello, che merita di essere vista» e diffonde inviti a partecipare ai vari eventi che coinvolgono le sue opere (Marcello è un artista). Non solo, ma dopo l’evento Luca provvede anche ad inviare, per messaggio, brevi flash di come sono andate le serate del suo confratello.
In occasione di una tensione interna, Giorgio, che è parte di quella stessa realtà, riporta che a tavola la sua comunità ha deciso di affrontare apertamente il disagio che sta vivendo e aggiunge che «c’è stima e grande rispetto reciproco, per cui, nonostante le nostre diversità, devo dire che in genere riusciamo a tirar fuori le difficoltà che si creano nel vivere insieme».
Rimango colpita da queste che considero testimonianze decisamente positive di vita in comune e di un buon clima relazionale anti-mormorazione. Prima di tutto in quanto si tratta di una realtà maschile, in genere meno “dipendente” dal clima emotivo del gruppo, e più propensa a funzionare con individualità autonome.
E poi perché troppo spesso all’interno dei gruppi umani, come fa notare il formatore nelle sue osservazioni, si creano voci di corridoio e parole critiche che raramente vengono rivolte direttamente alla persona interessata, la quale ne viene a conoscenza in modo trasversale, e quindi senz’altro doloroso.
Papa Francesco insiste moltissimo sulla mormorazione, come piaga del vivere insieme, e sulla calunnia che uccide come un «cancro diabolico»; l’ultima volta ne ha parlato nella recente udienza del mercoledì 25 settembre. Cosa vuol dire mormorare o peggio calunniare? Tecnicamente il primo termine indica la maldicenza pettegola, il secondo, più pesante, l’attribuzione consapevolmente falsa di una colpa a qualcuno. Ma andiamo al di là di queste distinzioni linguistiche.
Mi piace riportare la voce della Comunità scientifica internazionale (DSM-5), che quando parla di personalità che non funzionano al meglio utilizza alcune espressioni che possono esserci di aiuto:
- carenza di autonomia e autostima fragile;
- senso di minaccia in caso di opinioni divergenti o punti di vista alternativi;
- attenzione ipervigile;
- sentimenti predominanti, spesso attribuiti ad altri, di odio, di aggressività, o di intenti distruttivi.
Dunque il punto di partenza della mormorazione è un’insufficiente pace interiore, il non vivere una condizione di benessere e di appagamento rispetto a me stesso. L’obiettivo: trovare una conferma del mio valore, avere rassicurazioni che sono importante e valgo, e nessuno mi può scavalcare.
L’occasione: finché l’altro sta dalla mia parte e io non vengo messo in discussione, bene, ma se mi sento minacciato da lui o da lei, perché la pensa diversamente da me, perché ha delle qualità che io non ho e che potrebbero risultare migliori delle mie, allora questo diventa un problema. Anzi, talvolta prima ancora che l’altro possa mettermi in ombra, magari perché è una persona brillante, l’ho già eletto a potenziale nemico.
I mezzi: a questo punto devo “passare all’attacco”, demolendo il partner, l’amico/l’amica, il confratello/la consorella, il parroco, quel catechista… cioè “eliminare” chi potrebbe non riconoscere il mio ruolo e la mia importanza in quel contesto (di lavoro o comunitario), oppure chi potrebbe superarmi quanto ad apprezzamento altrui, e quindi farmi sentire marginale.
La tecnica migliore per farlo è proprio quella del demolire la persona scomoda. Certo non posso farlo fisicamente, ma posso utilizzare delle tecniche molto più sottili e perverse, in quanto non sono immediatamente visibili e quindi sono ancora più dannose: creando alleanze a mio favore col parlare male dell’altro, mettendo in luce le sue debolezze, le sue contraddizioni (che sempre si possono trovare in ciascuno di noi), e svuotandolo pian piano della sua dignità.
Ad esempio: racconto e magari amplifico gli errori che ha commesso in quella determinata situazione, metto in giro alcuni pezzi della sua storia familiare (come dire: “pensa un po’ da dove viene”), diffondendo cose vere o non vere che riguardano suoi aspetti personali, ma manipolati, riadattati per l’occasione, e che in ogni caso non hanno motivo di essere diffusi.
È una forma di mormorazione, quindi, anche mettere in giro, estrapolati dal loro contesto, e messi insieme secondo la mia narrazione, pezzi della vita dell’altro che io so bene lo renderebbero meno credibile nell’ambiente in cui viviamo entrambi. Questa è una delle forme più gravi di violenza e di sabotaggio alla vita comunitaria.
Come si potrebbe ridurre il rischio che questo accada? Partendo dal dato che comunque chi mormora è una persona scontenta, indico alcuni suggerimenti pratici, che sono nelle nostre possibilità.
- Potremmo cercare di non accettare il semplice sfogo contro un altro quando questi non è presente – a meno che non abbiamo dei ruoli specifici –, altrimenti ci rendiamo inevitabilmente complici. Non rifiutando l’ascolto, ma magari chiedendo alla persona che ci racconta un fatto meno positivo, di dirlo al diretto interessato perché comunque è più utile. Ed è bene che un altro lo dica anche a noi quando ci troviamo nella stessa situazione. Fa male sentirselo dire, ma ci abitua ad una modalità più sana ed evangelica di comunicare e di affrontare le cose che non vanno.
E anche quando abbiamo degli incarichi di accompagnamento o formazione potremmo aiutare la persona a riflettere sul senso della “confidenza”, che se non attiva la ricerca di una soluzione o di una strategia nuova, forse serve a poco, quando non è dannosa perché lascia nell’aria parole amare.
- Dovremmo invece essere più diretti – «non è bene parlarne in corridoio», «non è bello che se ne parli in gruppo quando Francesca non c’è!» – quando ascoltiamo parole critiche che vengono spese in contesti allargati.
- Infine, dovremmo abituarci a valorizzarci reciprocamente. Siamo così abili a dirci le cose negative… Forse non ci viene spontaneo, perciò dobbiamo allenarci a parlare bene di chi ci vive accanto, perché un simile atteggiamento, inizialmente “forzato”, crea un po’ alla volta una forma mentis che consiste nel condividere le ricchezze altrui, come ci auspichiamo l’altro faccia con noi. Lo ripeto: non è immediato come modo di fare, ma può diventare uno stile di vivere insieme se non molliamo alla prima fatica. La testimonianza di quella comunità maschile ci conferma che questo è possibile.