Come dire alle persone cosa non va in loro? Come organizzare momenti di reciproco scambio sui problemi di convivenza? Un formatore
Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.
Come dire alle persone cosa non va in loro? Come organizzare momenti di reciproco scambio sui problemi di convivenza? Un formatore
Come ho anticipato nel precedente numero di questa rubrica riguardo alle calunnie e alla mormorazione ci sono ancora due aspetti da affrontare. Il primo riguarda la convivenza tra persone non scelte tra di loro e che umanamente spesso hanno poco in comune. Non dico una cosa nuova in quanto è un aspetto che mi sembra molto significativo nei processi vocazionali e sul quale, perciò, più volte ritorno.
La naturale antipatia può essere uno dei carburanti della maldicenza. È normale ritrovarsi in seminario, in diocesi, in comunità, con fratelli e sorelle che sul piano relazionale sentiamo addirittura “insopportabili”. E non potrebbe essere altrimenti proprio perché non si tratta necessariamente di contesti amicali dove ci sia, cioè, una comunanza di gusti e di sensibilità, ma di contesti innanzitutto trascendenti – suona altisonante, ma è così – e poi anche umani. O quanto meno umano-trascendenti.
La fede, infatti, è la prima motivazione dello stare insieme. Più concretamente è la passione per una stessa parola del Vangelo che quel carisma ha colto e ha declinato in una forma specifica. Ciò significa che se da una parte è naturale – non peccaminoso né patologico – che ci siano attrazioni e repulsioni tra fratelli e sorelle all’interno della vita in comune, dall’altra la gestione di sentimenti ed affetti non può fermarsi a quel livello orizzontale. In linea di massima è difficile cambiare gli istinti del mi piace/non mi piace – talvolta succede però! –, ma ciò non rende leciti gruppi esclusivi tra quanti «stanno bene tra di loro» né, tanto meno, chiacchiere distruttive verso quanti non mi piacciono, in modo che prima o poi se ne vadano!
Mario, Giorgio, Andrea, Laura, Caterina, Maria, per me possono essere umanamente pesanti ma se cerco di annientarli, parlandone male, mettendo voci negative su di loro, creando zizzania attorno alle loro persone…sto appiattendo paurosamente l’ideale. Un atteggiamento tipicamente infantile o al più adolescenziale, e perfino – mi si passi l’espressione – dal sapore un po’ mafioso. Si può stare insieme, nel percorso vocazionale, solo “spostando” la motivazione dal piano naturale della convivialità, a quello di un Ideale che accomuna. È l’unico vero fondamento della vita in comune.
Riguardo, invece, al clima comunitario, posso dire che la mia esperienza con uomini e donne in percorsi vocazionali è quella di una forte esigenza di rinnovamento soprattutto riguardo alla comunione fraterna.
Se fino ad un decennio fa l’autorità gerarchica tendeva ad essere il principale interlocutore e referente dei sacerdoti come dei consacrati, oggi questo non è più sufficiente. C’è un’urgenza di imparare a fare «comunità», anche da parte di chi non è dentro una comunità in senso stretto (ad esempio i sacerdoti diocesani). I giovani in particolare, ma non solo loro, non si accontentano più di un “a tu-per tu” con i superiori/le superiori. Hanno bisogno di rapporti sani anche tra di loro, chiedono di poter imparare a vivere l’amicizia, a vivere la relazione con l’altro sesso, a superare i conflitti, reclamano spazi dove possano esprimere anche le osservazioni critiche. Le comunità sono chiamate a prepararsi a queste sfide del nostro tempo.
E qualora, comprensibilmente, non si sentissero pronte o avessero dubbi su come favorire un interscambio prudente e adeguato – non è una terapia di gruppo, lo ripeto – possono in tutta serenità chiedere l’aiuto e il confronto con altre comunità o con esperti esterni, sensibili ai temi vocazionali.
Questo ha a che fare con la mormorazione? Credo proprio di sì, in quanto, la tendenza diffusa, in tempi non lontani, era quella di esprimere le cose che non andavano direttamente ed unicamente al responsabile di riferimento. Ho ascoltato molte volte utilizzare il termine «mi ha consegnato» tipicamente militare, per indicare il fratello o la sorella che andava a lamentarsi col superiore, piuttosto che dialogare con l’interessato. Il superiore doveva fare poi salti mortali per poter gestire la cosa senza che venisse fuori il mittente. Ambiguità su ambiguità.
Ecco, credo che queste abitudini stiano cambiando e debbano cambiare. Sono adulte le persone che compiono scelte vocazionali e in quanto tali dovrebbero essere messe in condizione di imparare a comunicare, ad esprimere difficoltà, tensioni… Altrimenti tutto questo si trasforma in critiche da corridoio, atteggiamenti divisivi che fanno malissimo al gruppo.
Non si tratta di fare terapia all’interno della comunità, proprio no! Anzi quelle realtà che ingenuamente ed in buona fede hanno percorso questa strada hanno avuto grosse difficoltà, successivamente, a ricomporre un clima sereno. Si tratta, invece, di educarsi reciprocamente ad una comunicazione interpersonale sana, assertiva, capace di esprimersi in modo diretto e senza ricorrere a canali subdoli.
Penso sia fondamentale, inoltre, considerare che l’obiettivo non è quello di farsi una psicoanalisi reciproca, né diventare censori gli uni degli altri, ma aiutarsi ad amare meglio, a crescere come uomini e donne sempre più disposti al dono di sé. Questo è l’orientamento che può dare senso e direzione agli spazi e ai tempi che ogni gruppo vocazionale, magari con nomi diversi, finalizza alla correzione fraterna in senso evangelico. Ogni comunità pensi seriamente a come farlo.
Le realtà che, fin dalla prima formazione, favoriscono un simile processo di confronto interpersonale, mi pare siano quelle più sane e autentiche. Al loro interno, cioè, si respira un clima sereno – pur con tutte le tensioni che ogni famiglia vive – non “mormorante”, né fondato su relazioni formali, come tra semplici «colleghi», o di facciata, come se i membri sfogliassero un galateo delle buone maniere (che non è da disdegnare, ma non basta per fare comunità). Lì non ci sono chiacchiere di corridoio, perché non ce n’è bisogno.
Sono convinta – per concludere – che si crei, allora, come un circolo virtuoso: lavorare per costruire fraternità autentiche aiuta la crescita dei singoli membri che, a loro volta, sostengono il processo di crescita della comunità stessa. Il “cambiamento d’epoca”, come direbbe il nostro Papa, lo richiede. La Grande Bellezza delle vocazioni di “speciale appartenenza al Signore” è il loro essere laboratori di comunione, di cui oggi c’è davvero bisogno.
A volte subentra il timore che nei rapporti interpersonali tra uomo e donna prevalga la componente “più umana” a scapito di quella soprannaturale. Come mantenere la propria specificità di genere e sviluppare quel “capolavoro” che è ciascuno personalmente nel Dono di sé all’altro, per il Bene della Comunità stessa? Un consacrato
Oggi la parola GIOVANI è una di quelle più pronunciate. Io sono giovane in comunità e lavoro nel mondo giovanile. Tanti giovani si sentono giudicati, criticati, svalutati dagli adulti. Abbiamo bisogno di figure di riferimento che ci ispirano sicurezza, sulle cui spalle possiamo piangere, figure che si abbassano al nostro livello per insegnarci qualcosa e aiutarci a diventare qualcuno. Abbiamo bisogno di NO ben motivati, di persone che riescano ad aprirci gli occhi. Abbiamo bisogno di alternative, di nuove proposte ed esperienze da vivere di fronte a certi divieti... Tante volte ci manca questo. Il mondo adulto chiede ai giovani ciò che non è capace di donare. Allora sorge la domanda: se gli adulti hanno ricevuto tanto, perché non sono capaci di trasmettere altrettanto? Perché non ci danno la possibilità di una crescita sana come l’hanno avuta loro? In cosa hanno sbagliato nel corso degli anni? Grazie della disponibilità. Una giovane suora
La ringrazio molto per la rubrica «L’identità di un carisma». Vorrei aggiungere alcune considerazioni. Penso che dobbiamo avere cura di non fare delle norme e delle regole «il nemico». Ritengo che le norme servano a far più bella la nostra consacrazione al Signore e mi sembra che oggi ci sia una facile tentazione di buttare via qualcosa che sicuramente è esigente e che richiede molta libertà interiore di vivere il nostro carisma nella sua totalità, senza paura. Un Rettore
In una settimana dove le buone pratiche sono al centro dell’attenzione, mi piacerebbe avere un esempio concreto di cosa questo voglia dire nella vita in comune.
La ringrazio per il suo servizio e il suo coraggio nell’approcciarsi alla Vita Consacrata. Questa Vita Consacrata femminile (che è molto diversa da quella maschile, se ancora possiamo usare questi due aggettivi), è una vita meravigliosa, ma oggi viene bersagliata e minacciata in mille modi, molto spesso non solo dal mondo nella sua mondanità, ma anche dagli stessi consacrati e dallo stesso mondo ecclesiale. Non è sempre così chiara la nostra identità, il nostro ruolo e il nostro posto in seno alla Chiesa. Non possiamo rischiare di diventare qualcosa di ibrido e indefinito, come donne non dobbiamo scimmiottare nessuno, occorre invece recuperare tutta la nostra femminilità per essere donne di Dio, madri, sorelle, amiche, cittadine di questo tempo. Mi rendo conto, come consacrata e anche come Madre Generale di una Congregazione religiosa, che dobbiamo trovare il coraggio di entrare e avviare in maniera più decisa e determinata un processo di rinnovamento e svecchiamento. Ma come gettarci dentro questo percorso di svecchiamento, per far risplendere tutto il bello della vita che abbiamo scelto, come non perdere lo spirito missionario ed evangelico? Come non tradire la nostra storia, il carisma, le tradizioni che ci hanno animato nel tempo, ma rimanendo donne felici? Come non diventare prigioniere delle nostre strutture, testardamente trincerate per difendere casa, opere, pastorali che forse vanno riviste, rivalutate, ripensate in modo nuovo. In tutto questo non vorrei solo trovare risposte, ma accendere desideri. Una Responsabile Generale
Giornali e tv sono pieni di notizie e polemiche sullo scandalo degli abusi nella Chiesa cattolica. Che ne pensa?