Seguo le sue interessanti rubriche, ma ho un dubbio di fondo, spero non offensivo: da duemila anni la formazione vocazionale viene fatta attraverso “educatori e padri spirituali”, formati a loro volta in modo univoco sul vangelo e la tradizione della chiesa. Ora la tendenza ad affidare tutto agli psicologi (ognuno che fa riferimento a una diversa teoria, di questo o quel “maestro”) non rischia di insidiare l’unità e la credibilità della Chiesa? Un formatore
La moda dello psicologo
Accolgo volentieri questa interessante provocazione, per nulla offensiva.
Lei ha ragione, la storia è come un pendolo per cui si assiste, spesso, a mode che oscillano ora in una direzione, ora in quella opposta. Qui, però, si tratta di ben altro: la psicologia, in quanto scienza, non fa riferimento a un “maestro”, né al trend del momento. Il suo intento, infatti, non è quello di condurre a sé, né di proporre il pensiero di un singolo, ma di aiutare l’essere umano a raggiungere un miglior grado di benessere, a fare ordine nella propria storia, a guardare il futuro con speranza e realismo, a rafforzare le proprie potenzialità e ridurre le fragilità, ad affrontare in maniera costruttiva le situazioni difficili, a comprendere il perché di alcune condizioni emotive…
Nell’ambito dei processi vocazionali la collaborazione con gli psicologi deve, però, necessariamente rispettare alcune condizioni. Toccherò due grandi temi, strettamente legati, il primo lo affronto subito, il secondo nel prossimo numero: a) serve la psicologia? b) “quale” psicologo? (a proposito della tradizione della Chiesa).
L’eccesso di intervento psicologico, come può immaginare, non mi trova d’accordo. Gli argomenti sono vasti, per cui cercherò di essere sintetica.
La prima considerazione, molto empirica, viene dal constatare che le comunità religiose del passato non sono “migliori” di quelle attuali, anzi diversi anziani hanno uno sguardo assai lucido sulle gravi carenze che hanno caratterizzato la loro formazione, dove non sono mai state affrontate (o molto poco) alcune questioni nodali, nell’uomo come nella donna: affettività, relazioni, amicizia, sessualità.
Le conseguenze di questo silenzio – tenendo conto che non c’è mai un rapporto diretto causa-effetto nei processi umani –, riguardano lo stile di vita fraterno non sempre ottimale, la scarsità di dialogo tra fratelli e sorelle e con i responsabili, la difficoltà a riconoscere in tempo una difficoltà affettiva, che a volte giunge sconcertando tutti.
Aggiungo un’altra considerazione, frutto di lunghi e autorevoli studi commissionati dalla Conferenza Episcopale Americana sugli abusi da parte dei sacerdoti cattolici (Nature and Scope e Cause and Context), in un arco temporale che va dal 1950 al 2010: la generazione (sexual offenders) maggiormente coinvolta in atti di abuso ha ricevuto la sua formazione prima degli anni ’70. Cosa vuol dire?
Non certo che il celibato sia all’origine delle devianze affettive, come i media hanno provato a far credere. Il picco maggiore di abusi, tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli ’80, non ha visto, infatti, alcuna variazione in merito alla scelta celibataria. Intendo dire che se il celibato è una costante rimasta invariata nella tradizione della Chiesa, certo non può essere questo aspetto “la causa” dell’aumento di abusi in un preciso arco temporale, e poi della sua ridiscesa (diminuzioni di abusi) a partire dal 1985 (vedi grafico). Bisogna evidentemente considerare altro.
Molto in sintesi si può concludere così: gli abusi sono diminuiti quando i programmi formativi (per i candidati al sacerdozio diocesano e di vita in comune) sono stati rinnovati con l’introduzione della formazione umana e non solo spirituale. La formazione spirituale da sola non è sufficiente. Se si offre l’una senza l’altra l’accompagnamento risulta parziale e inefficace.
Si tratta di strumenti entrambi necessari, che si integrano pur mantenendo una propria autonomia. È chiaro che un’adeguata formazione umana è solo una pre-condizione per la riuscita vocazionale, tuttavia, essa ha un notevole peso nell’andamento equilibrato del processo “specifico” di adesione a Cristo.
Concludendo: la scelta vocazionale non è una scelta privata e intimista, quindi la solidità affettiva è indispensabile: c’è una responsabilità sociale di cui occorre tener conto. Talvolta le comunità e i seminari rischiano di dimenticare questo aspetto. Oggi, però, chi accompagna spiritualmente i processi maturativi sa che la persona ha bisogno di entrambi gli strumenti: formazione umana e spirituale.
In una società complessa come la nostra, dove i ragazzi iniziano un percorso vocazionale avendo già fatto innumerevoli esperienze, anche in Rete, è quanto mai necessario che siano affiancati da persone competenti, che possano aiutarli a rileggere o integrare le vicende vissute. Più in generale, ho potuto constatare come in alcune fasce di età, quando l’uomo e la donna vanno incontro a cambiamenti psicofisici – ad esempio intorno ai 45/50 anni, e successivamente dopo i 60 –, sia particolarmente utile rivolgersi a una persona esterna al proprio ambito di vita, per affrontare il periodo che si sta attraversando.