Siamo una piccola fraternità sacerdotale. Mi piacerebbe riuscire a condividere di più tra di noi, ma ritengo che il tema della “fiducia” sia ancora molto critico. Questo è uno dei motivi che mi blocca nel chiedere un percorso di accompagnamento: temerei un giudizio ridicolizzante. Può dirmi qualcosa su questo argomento?
Meglio aprirsi o proteggersi dal giudizio dei fratelli?
Mi stimola molto la sua domanda. Ha ragione: in famiglia, nei seminari e nelle realtà comunitarie quello della fiducia è un argomento particolarmente sentito e discusso, proprio perché non è per nulla scontato riuscire a fidarsi gli uni degli altri.
Il timore è quello che quanto più ci si apra tanto più si diventi vulnerabili e questo è senza dubbio vero.
C.S. Lewis, autore de Le Cronache di Narnia, scriveva che «qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno ad un animale. […] Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi, […] diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile» (da: I quattro amori).
Voler bene agli altri, scommettere sulla vita insieme, è in un certo senso un rischio, perché si può rimanere feriti dalla sensibilità diversa dell’altro, dalla sua imprudenza, dalla possibilità che non riesca a cogliere esattamente il nostro mondo interiore e ci faccia del male. E viceversa.
Credo che sull’aspetto della fiducia abbia pesato parecchio uno stile gerarchico e di impronta militaresca che ha caratterizzato in passato le realtà vocazionali, dove, lo dico in modo semplicistico, c’era una sola mente pensante e tanti “sottoposti” all’autorità.
Si è dato poco spazio alle relazioni tra pari, che sono andate avanti per anni senza mai sperimentare il dialogo, il confronto, l’amicizia, tutti aspetti guardati con sospetto, quasi al limite di inevitabili derive immorali.
L’obbedienza verticale, certamente un valore apprezzabile con un profondo significato di fede, è stata la dimensione prevalente, quando non esclusiva, della formazione alla vita sacerdotale e in comune.
Oggi si sta scoprendo la necessità vitale che gli ambienti vocazionali siano ambienti adulti, dove innanzitutto ci sia la giusta prudenza da parte di superiori e formatori: infatti una condivisione globale e incondizionata dell’esperienza di ognuno con tutti, non è necessaria e neppure sana per vivere insieme.
Servono invece rapporti fraterni, non solo funzionali al lavoro, frettolosi, e formali, ma di conoscenza reciproca, di amicizia dove sia possibile, di condivisione degli obiettivi apostolici, come anche di momenti di svago. In ambienti simili la fiducia interpersonale cresce spontaneamente.
Le racconto un’esperienza recente: mi sono accorta che giovani provenienti dalla stessa comunità si raccontavano l’un l’altro l’esperienza durante un percorso terapeutico (con lo psicologo). Io stessa sono rimasta positivamente stupita dalla semplicità e freschezza del loro raccontarsi, un bel modo per sostenersi e non sentirsi soli. Un ambiente attento, che cerca di curare la familiarità del vivere insieme, favorisce in modo naturale la fiducia reciproca.
Questi giovani dimostrano che fidarsi è possibile. E i più adulti, meno abituati a una simile apertura, possono apprendere da loro la bellezza di avere fratelli/sorelle, piuttosto che “nemici” (mi passi l’espressione forte). Aggiungo, anzi, che è un’esperienza vitale nell’essere umano, senza la quale si diventa sospettosi, freddi, ostili, insomma si vive male.
Sono importanti però le condizioni ambientali alle quali ho fatto cenno prima, altrimenti raccontarsi e condividere diventa un’esaltazione emotiva superficiale e perfino dannosa per il vivere insieme.
Se avesse voglia di approfondirli, ho ripreso questi argomenti in un libro di recente uscita Per sempre o finché dura. Processi psicologici del cammino sacerdotale e di vita in comune.