Vorrei capire come distinguere la sofferenza legata al sacrificio, che qualunque vocazione richiede, da quella che invece può segnalare di non essere nel contesto giusto. Oggi si sfugge a qualunque impegno, ma “fin dove” Dio può chiedere la rinuncia a se stessi? Un consacrato
Il posto del dolore
È profondo e delicato l’interrogativo. Lei ha ragione, sia dal punto di vista psicologico che della fede: il limite e la fatica fanno parte del cammino di crescita dell’essere umano.
Un bellissimo studio di André Godin rilegge la vicenda di Saulo di Tarso, mettendo in evidenza come l’autenticità della sua vocazione sta nel totale stravolgimento di vita. Era un uomo colto, già profondamente credente e retto, che seguiva Dio, difendendolo però con violenza. A un certo punto succede qualcosa: Saulo scopre che quel Dio non era come lo aveva immaginato, non era forte e vendicatore, bensì si identificava totalmente con i poveri, gli ultimi, i perseguitati.
Deve essere stato sconvolgente! La caduta da cavallo, tramandata dalla tradizione, è l’immagine metaforica di un processo stra-ordinario di cambiamento dei propri orizzonti, verso altri fino a quel momento del tutto sconosciuti.
Saulo diventa perfino cieco, come a dire che perde la capacità di controllo e gestione della sua vita. Non si potevano trovare immagini più vivide per rappresentare la fatica di Saulo, ora Paolo, il quale non solo scopre che l’Altro ha un volto diverso da quello che finora si era figurato, ma dovrà anche ingegnarsi a trovare nuove strade per corrispondergli.
Si può dire, allora, che la vocazione religiosa da una parte è in linea col desiderio profondo del cuore umano, dall’altra però apre spazi nuovi e questo non avviene in modo “indolore”. Come potrebbe, del resto, un aggressore diventare “spontaneamente” apostolo dell’unità, senza alcuna resistenza interiore?
Qui mi sembra il punto nodale della domanda posta all’inizio. Immagino, infatti, che Paolo ogni giorno avrà dovuto rinnovare la propria adesione a Colui che da poco aveva ri-conosciuto, ma immagino pure che questa lotta non abbia significato per lui la fatica immane di ricominciare ogni giorno e ogni momento da zero, perché una vita del genere sarebbe insopportabile. Dunque una vocazione autentica non è una continua salita.
Paolo sente che quel Dio-uno-con i piccoli è degno di credibilità e questo gli dà energia, volontà, senso totale di vita. Paolo è più felice del vecchio Saulo di Tarso e si spende senza misura per essere come Colui che ha messo al centro della propria esistenza, vivendo secondo l’intuizione ricevuta.
Credo che questi siano i segni di una vocazione autentica: espande l’umanità, non la rattrappisce, non rende la persona più cupa e meno generosa. Ciò non ha nulla a che vedere con il carattere, più aperto o più riservato, né con le difficoltà, maggiori o minori, che ciascuno affronta a causa dei propri tratti personali e della propria storia.
Ha piuttosto a che vedere con il senso di appartenenza: fare mia quella realtà scelta, e darmi tutta ad essa. Come è stato per Paolo. Quali sono i segni concreti per capire che l’appartenenza non si è sviluppata? Chi è sempre molto critico rispetto al proprio ambiente di vita, o ha un umore fuori partitura, perché raramente riesce a sintonizzarsi con l’atmosfera emotiva del gruppo, o chi conteggia il dare e il ricevere. Queste persone forse non sono ancora “cadute da cavallo”, e ciò non ha nulla di moralistico, né di patologico.
Non si tratta di diventare esaltati rispetto alla propria vocazione, né degli iperattivi (anche Saulo lo era), ma di sentire una corrispondenza – “attiva” la chiama Godin – tra i desideri personali e quelli della realtà scelta.
Perciò il soffrire non è necessariamente indice di vocazione realizzata – vedo tante persone che stanno male, convintissime (sbagliando) che il dolore sia proprio il segno della volontà di Dio. Allo stesso tempo, la fatica che si impiega quotidianamente non è indice di una vocazione imperfetta.
C’è un altro segno, a mio parere significativo, per leggere una vocazione e il suo essere autentica: il discernimento comunitario. Ma ne parleremo un’altra volta.