Ci viene detto spesso che è importante “formare il cuore” e la coscienza per diventare sempre più responsabili della nostra vocazione, ma di fatto mi sembra che la persona che fa parte di una comunità religiosa non abbia poi molta autonomia di decisione. Un consacrato
Posso decidere da solo, anche se vivo in comunità?
Quanto è delicato l’argomento! Poco tempo fa leggevo una riflessione molto intensa di Luigino Bruni sulla chiamata di Samuele e sulla presenza di Eli che lo aiuta a riconoscere la provenienza di quella voce. È uno scenario psicologico, non solo di fede, che, come un quadro ricco di dettagli, richiede di sostare ad osservarlo con un po’ di calma, senza fretta.
Eli non ha poteri speciali, è un essere umano che ha bisogno «di tre “chiamate” per riconoscere la natura della voce. Forse, conoscendo molto bene Samuele, aveva riconosciuto i sintomi della sua chiamata profetica già nel primo risveglio, ma ha voluto attendere» (da: Meraviglioso mestiere è vivere).
Sulla scena tra Dio e la persona chiamata c’è dunque un terzo indispensabile, perché da solo il giovane Samuele non ce l’avrebbe fatta. Questo è l’aspetto più immediato che salta all’occhio.
Vorrei provare, ora, ad allargare lo scenario con alcune questioni concrete: se sia proprio necessario il confronto tra la persona e il/la formatore/formatrice o responsabile, e fino a quando. Quale sia il peso del parere o della decisione di un formatore, di un superiore, o della stessa comunità, rispetto all’autonomia personale.
Se poi la persona e chi l’accompagna hanno pareri diversi, tutto diventa ancora più difficile. Questo vale sia per le questioni ordinarie, sia per la grande domanda che riguarda la scelta esistenziale.
Ho incontrato giovani determinati a proseguire nel percorso vocazionale, convinti di essere sulla strada giusta mentre invece la comunità, attraverso i formatori, aveva valutato diversamente quel percorso.
Può accadere dunque che il giovane o la giovane insiste di sentirsi bene e di essere contento/a, ma chi accompagna da fuori non è dello stesso parere. Succede anche il contrario: la persona ha molti dubbi sulla propria vita, ma riceve invece conferme di essere nella giusta direzione. «Pochissime manipolazioni, più o meno in buona fede, sono più devastanti di quelle vocazionali» (ib.).
Non credo esista una soluzione univoca, tuttavia, riprendendo l’osservazione iniziale sull’«autonomia di decisione», condivido alcune convinzioni maturate attraverso l’esperienza.
Innanzitutto è vero che le realtà comunitarie, soprattutto quelle femminili, non sempre hanno sostenuto il divenire adulti dei consacrati e l’assunzione di responsabilità personali. La famiglia sana, invece, favorisce e incoraggia la crescita dei propri membri.
Tuttavia è vero anche un altro aspetto: la scelta di una vita insieme significa che parte integrante della vocazione diventa la comunità.
Non che “io” scompaio nel “noi”, ma senza dubbio quel noi ha un valore molto significativo, entra nell’esistenza della persona, come sua parte, e diventa per lei un criterio fondamentale di valutazione. In qualunque momento della vita, quindi non solo nelle prime tappe formative, la comunità di appartenenza rimane un interlocutore fondamentale, pur con i suoi tempi ed i suoi limiti. Procedere da soli significa in qualche modo tradire la scelta di vivere in comunità.
C’è da considerare anche un altro aspetto, che riguarda chi accompagna i percorsi di formazione o chi è responsabile di una realtà di vita in comune. Non sono compiti che può sostenere chiunque, nel senso che occorre una formazione personale che non si può improvvisare, né lasciare semplicemente al buon senso. Diversi consacrati, ormai anziani, raccontano di aver fatto i formatori o i superiori grazie al loro “buon carattere”, ma senza alcuna competenza specifica.
Dunque, per concludere: il pericolo di fanatismi e totalitarismi per cui il gruppo lascia ad un stadio infantile chi ne fa parte, o lo assorbe completamente, è reale.
Sarebbe un peccato, però, anche voler decidere da soli, rendendo solo formale una vocazione comunitaria che, come ho già detto spesso, è la grande profezia del nostro millennio, così solitario.