Ho riflettuto su uno dei suoi recenti articoli di questa rubrica: Giovani consacrate: speranze e delusioni. Qualche considerazione: si parla tanto di giovani nella vita consacrata […], ma è mai possibile che siano le nostre sorelle più grandi a sentire la necessità di mettere a tema qualcosa di grosso per le giovani e non loro stesse a “dare fastidio” con richieste, proposte, fosse anche con proteste? Guardo alle nostre giovani e ho in mente nomi e cognomi, nazionalità ed età.
Non vedo tutta questa proposta di rivoluzione, questa grinta, questa passione! Vedo gente molto allineata, molto paurosa, rassegnata, molto ripiegata su se stessa, sui propri mali, sui propri studi, sui propri interessi, sulle proprie amicizie, sul lamento per non vedere adulti di riferimento, sul «lei non mi guarda, lei ce l’ha con me», sul «mi sento sola, vorrei un’amica», con pochi interessi veri, sempre aggiornate sui gossip, ma con poco pensiero creativo e costruttivo, che non sanno dire “no” alle grandi ingiustizie sociali perché credono che tanto nulla possa cambiare…
Cosa possiamo fare per favorire nelle più giovani cammini che nascano dal di dentro, senza sostituirci a loro? Cosa possiamo fare per essere un riferimento senza la pretesa da nessuna delle due parti di essere/trovare le sostitute delle mamme? Una Vicaria Generale
I suoi interrogativi sono impegnativi e anche molto concreti, grazie. Il suo scritto, ben più ampio, approfondisce anche l’aspetto dell’incontentabilità dei giovani, nonostante le nuove opportunità.
Immagino che ormai possiamo concordare sulla fragilità emotiva e relazionale dell’umanità del nostro tempo, perché tutti risentiamo di un clima sociale e culturale veramente complesso. Se, però, questo si declina nello specifico della vita consacrata, i risvolti sono enormi.
Credo che i giovani, nonostante facciano loro stessi la scelta di intraprendere un percorso vocazionale (magari in passato erano le famiglie, o la cultura del tempo a spingerli verso strade simili), abbiano innanzitutto bisogno di maturare, perché, come ricorda il Papa nell’Amoris Letitia, «a volte le persone hanno bisogno di realizzare a quarant’anni una maturazione arretrata che avrebbero dovuto raggiungere alla fine dell’adolescenza» (n. 239).
Non bisogna scandalizzarsi, perciò, se, nonostante l’età cronologica non più giovanissima, chi entra nella vita consacrata, o si avvicina al matrimonio, affettivamente viva ancora «un amore egocentrico proprio del bambino, fissato in una fase in cui la realtà si distorce e si vive il capriccio che tutto debba girare intorno al proprio io» (ib.).
È indispensabile, allora, un accompagnamento che non si limiti all’ingresso in comunità, perché i processi di maturazione sono lunghi e articolati, e non bastano uno o due anni. La Chiesa deve necessariamente dare indicazioni canoniche minime per le diverse tappe formative, ma nel concreto della vita spesso i tempi di maturazione sono più ampi. Come lei saprà per esperienza, occorre tempo, pazienza, e attesa che la persona entri in contatto con se stessa e prenda coscienza di ciò che c’è da migliorare.
Un altro aspetto che mi sembra molto importante è che oggi le persone giovani (soprattutto), ma spesso anche le meno giovani, hanno bisogno di essere continuamente motivate.
Il concetto di obbedienza, ad esempio, che un tempo rendeva indiscutibili tutta una serie di regole e comportamenti, oggi manca proprio come categoria interiore. E questo, penso, abbia una ragione: i giovani sono su un’altra lunghezza d’onda rispetto alle generazioni precedenti, si portano dentro una complessità che viene sia da un ambiente familiare (e sociale) molte volte frammentato, conflittuale e diviso, sia dalla loro personale vulnerabilità emotiva ed affettiva. Questo non li rende peggiori, semplicemente sono diversi, più emotivi, più bisognosi di riscontri e di incoraggiamento.
Come ha spiegato un autorevole rappresentante della Congregazione per la Vita Consacrata in un recente incontro, oggi chi abbandona la vita in comune non lo fa perché la sente troppo impegnativa, né perché ha problemi comunitari, ma perché non ha trovato lì la propria felicità. È un aspetto estremamente serio. So che il concetto di felicità andrebbe declinato meglio e mi ripropongo di farlo in un altro numero.
Può apparire pesante e fastidioso per un formatore sentirsi addosso l’onere di dover sostenere le motivazioni altrui, eppure oggi è indispensabile. I giovani hanno bisogno di potersi esprimere, come lei giustamente dice nel corso del suo scritto, di avere la possibilità di parlare, di confrontarsi, di dialogare, di incontrare degli “attivatori di senso”, dei testimoni appassionati. Non c’è nulla di scontato per loro e con loro.
Lei ha anche ragione ad evidenziare che spesso appaiono indolenti rispetto alle responsabilità. Anche questo purtroppo è parte della generazione attuale, poco fiduciosa in se stessa, poco allenata all’impegno in prima persona. È importante, quindi, che fin dai primi passi i giovani abbiano la possibilità di sperimentare dei compiti dentro e fuori la comunità, che possano però portare avanti con un margine di autonomia. Essi spesso lamentano che la fiducia è solo apparente perché non appena provano a mettere in gioco un po’ di creatività personale vengono “richiamati all’ordine”. Certo, non ogni iniziativa originale è giusta, ma osiamo un po’ più di fiducia.
Perciò, a conclusione, comprendo bene le sue preoccupazioni. E siccome il carico è gravoso, non rimanga da sola a portarlo: se possibile formi un’équipe di formatori/educatori. Confrontarsi in uno scambio continuo di esperienze, anche tra realtà carismatiche diverse, potrà aiutarla a sviluppare nuove proposte, a confrontare e trovare insieme nuove strategie di accompagnamento e motivazione.