In una settimana dove le buone pratiche sono al centro dell’attenzione, mi piacerebbe avere un esempio concreto di cosa questo voglia dire nella vita in comune.
Vita in comune è contaminarsi
La richiesta mi piace molto. Un numero questo di oggi un po’ diverso dallo stile consueto. In estrema sintesi direi: “contaminarsi” è la sfida dei nostri tempi: mantenere un’identità solida e chiara, ma saperla confrontare, senza timore di perdersi.
Detto così può sembrare vago e teorico. Perciò riporto fresca fresca un’esperienza recente. Nella cornice di S. Croce in Gerusalemme, in un sabato pomeriggio qualunque, un gruppo di giovani che fanno esperienza di vita comunitaria, uomini e donne, in formazione o già con una scelta “per sempre”, si sono aperti a dire qualcosa della loro vocazione. Si sono resi disponibili – di fronte a un pubblico di un centinaio di persone, composto di altri giovani, consacrati e laici, famiglie, formatori e superiori –, a dialogare con tutta l’emozione che si può immaginare.
Questo per dire cosa?
Siamo nel tempo dove solo insieme si può “lasciare un segno” convincente e pieno di significato in un millennio affamato di relazioni, e insieme fragilissimo proprio nel costruirle e mantenerle.
Nessuno di questi 6 giovani era lì a titolo personale, ma come comunità di fratelli e sorelle che condividono un carisma: Legionari di Cristo, Pie Discepole, Focolarine, Cistercensi della carità. Nomi e volti concreti, che raccontano di una famiglia di appartenenza e si dispongono a riflettere con altri: che stiamo facendo? Dove stiamo andando? Cosa possiamo migliorare?
E il pubblico ha partecipato, intervenendo direttamente, più e più volte con tante voci diverse. Da quella, solo per citarne qualcuna, di Simonetta, psichiatra, direttrice dell’Opera don Guanella, a chi conosce anche per missione e impegno la vita consacrata, come p. Donato e p. Ignazio, a Maria, che vive e accompagna la realtà formativa, a Francesco, seminarista in cammino. In una parola, il pomeriggio è stata un’esperienza di comunione. L’unica testimonianza che rimane oltre i contenuti, come più di qualcuno ha notato. Nessun eroe, nessuna esperienza “perfetta” o già compiuta, persone “ordinarie”, ma con la voglia di realizzare un Grande Ideale di vita in un’esperienza di vita in comune.
Messaggio di fondo: la felicità nella vita consacrata, è possibile, ma va costruita giorno per giorno. La parola “felicità” di solito suscita sguardi perplessi, perché troppo corrosa.
Va bene, allora e proviamo a dirlo in un altro modo: disegno di Dio, pienezza e realizzazione umana coincidono. Dicono la stessa cosa! Dio vuole un’umanità piena. L’umano pieno è chi sa donare se stesso e sa far felici gli altri, come accade tra gli sposi.
Penso anche alla squadra dietro e oltre il momento finale di un pomeriggio così. Nomi concreti e insieme discreti, anche in questo caso, Luca, Aurora, Giulio, Elena, Sara, che fanno squadra per rendere possibile un momento simile. Dietro le quinte, o sul campo. Insieme. Nuovamente. Il segno, l’unico credibile del nostro tempo.
Un happy end? Perché no?
La profezia del terzo millennio è la voce dei giovani che tra tante possibili strade scelgono di cercare Cristo con altri, in comunità. Si lasciano aiutare perché questo sia possibile. Si raccontano perché chi accompagna legga con loro i segni della vocazione, qui o altrove.
Ci sono aspetti da ripensare, è vero, i giovani di oggi ormai hanno complessità nuove rispetto a qualche anno fa. Alcune categorie di ieri, non sono più efficaci. Ma le nuove generazioni hanno sete di autenticità. Di Ideali solidi. Di coerenza delle realtà nelle quali entrano. Sono portatori di speranza. Una bella provocazione che tocca tutti noi. E questa ricerca mette in gioco, per un aiuto reciproco, insieme, laici e consacrati, celibi e coppie.