Abbiamo una sorella che vorrebbe aprire una nuova forma di apostolato. La comunità le ha detto che per ora non ci sono risorse adeguate per sostenere il suo progetto, ma lei ha deciso di andare avanti ulteriormente, convinta di essere così nella volontà di Dio. Una formatrice
Io o noi?
Grazie per questa occasione di riflessione, mi dispiace aver dovuto sintetizzare le sue parole, comunque molto chiare e accorate. Mi pare che questo tema apra una sorta di voragine.
L’esperienza più frequente delle comunità, almeno in un recente passato, è quello di chiarire subito con la persona che quando si intraprende un’esperienza di vita in comune, l’io diventa gradualmente e definitivamente un “noi”, per cui non ci sono più margini per i carismi personali, se non nella misura in cui rientrino nel progetto comunitario.
Le stesse anziane ed anziani raccontano, oggi con simpatia, che una volta fin dall’inizio del percorso le formatrici/i formatori si premuravano di affidare loro compiti che andavano nella direzione opposta delle attitudini personali di gusto e di carattere, magari anche apertamente esplicitate, con l’intento, senza dubbio in buona fede, di non assecondare la natura, considerata quasi un limite anti-vocazionale e di aprire nuovi spazi a Dio.
Per cui se c’era una predisposizione a lavorare la terra, la persona veniva mandata a studiare, con tutta la fatica ed il sacrificio immaginabili; e se viceversa ella aveva attitudini più intellettuali, queste venivano “santamente mortificate” in nome di una presunta maggior gloria di Dio.
Ora, non credo che questo atteggiamento sia del tutto sbagliato, ma vorrei spiegarmi per non essere fraintesa.
Che la comunità diventi il criterio per valutare le intuizioni personali credo sia un aspetto molto bello del vivere insieme, un po’ come in famiglia il marito o la moglie cercano di scegliere, accettare o meno un lavoro, intraprendere o meno un progetto, valutando le esigenze di tutti e confrontandosi l’uno con l’altro, almeno in coppia.
Perché lo stesso non dovrebbe accadere nella comunità? Questo aspetto dell’essere “come una famiglia” mi pare che venga spesso messo da parte.
Ciò non vuol dire assolutamente che allora l’individuo diventi un numero qualunque in una grande macchina produci-lavoro, ma neppure che perda del tutto il confronto con la sua realtà di appartenenza, e che la comunità debba adeguarsi a “quelle” specifiche esigenze, anche legittime, se per varie ragioni, non è ancora pronta per questo. La vita in comune è anti-economica dal punto di vista della -velocità!
È una delle ragioni per cui penso che la comunità non sia per tutti. Non c’è dunque una soluzione o una ricetta esatta, che valga una volta per tutte. Credo con forza però che la vita in comune, se prevista da quella realtà carismatica, diventi parte integrante e non solo ornamentale della scelta individuale, e oggi questa prospettiva è la più a rischio.
Ciò d’altra parte significa anche che la comunità, nell’accogliere un membro, si fa responsabilmente carico della sua storia e della sua sensibilità, continuandone a riconoscere sempre l’identità adulta ed autonoma, sforzandosi di essere attenta a ciò che la persona dice, alle idee e ai progetti che ella propone, avendo cura della sua unicità.
Il dialogo continuo, paziente, fiducioso, e il coraggio di non chiudersi mai l’uno all’altro, anche quando ciò dovesse creare scontri e non solo confronti, penso siano la strada per trovare di volta in volta delle risposte, senza perdersi – la comunità isola la persona perché “strana” o troppo esigente, e la persona si distacca con rancore dal gruppo, perché non si sente capita – con i tempi sicuramente rallentati dal procedere… insieme e non da soli.