I bambini possiedono già il senso religioso? Non sarebbe bene educarli alla fede quando sono grandi ed in grado di comprendere? Angela (Parma)
Sin dall’antichità l’uomo possedeva un senso del sacro e del religioso molto forte, che si manifestava mediante i simboli, che diventavano cosi veicoli, segni, di questa profonda realtà, quasi testimoni destinati a perdurare nel tempo. Ma allora la religiosità è connaturale all’uomo? E se sì, come trovarne le tracce? A quale età possiamo identificare in modo chiaro queste orme della religiosità?
Maria Montessori propende decisamente per una
religiosità connaturata nell’uomo, quindi
innata. Nel suo progetto educativo, infatti, molto spazio è dato alla formazione religiosa a partire dai 3 anni.
Possiamo, quindi, parlare di religiosità infantile? Alcuni studiosi come
Rizzuto e
Aletti, si pongono in un’ottica dinamica e confermano la connaturalità religiosa del bambino. Aletti, infatti, afferma: «Il bambino si pone dei problemi di carattere essenziale, sproporzionati al suo momento di sviluppo: le risposte religiose sono inizialmente correlate in modo evidente a questi problemi. Sono, cioè, meccanismi di superamento e di adattamento di alcuni modi essenziali dell’esperienza infantile; proprio per questo contengono già un’
intenzionalità trascendente, che si specifica a livello simbolico come una tendenza al superamento incessante di una visione meramente egocentrica dell’Io, verso la scoperta, l’accettazione e la relazione con l’altro».
Certamente nel bambino non è ancora evidente una pura intenzionalità di rapporto col trascendente, essa è probabilmente ambivalente, perché condizionata in egual misura sia dai problemi di adattamento della prima infanzia, sia da fattori di apprendimento manipolati dall’esterno.
Leggendo alcune testimonianze di ricercatori sulla religiosità del bambino, colpisce vedere come
fanciulli che non hanno ricevuto nessuna educazione religiosa manifestino comunque un senso di Dio. Il bambino, infatti, vive dapprima in modo discontinuo alcune esperienze, emozioni, intuizioni trascendentali ricche di significato, già presenti in lui, che solo gradualmente e attraverso l’aiuto dell’ambiente diventeranno col tempo
habitus costante.
Ha ragione A. Fossard quando, parlando del bambino, dice che si muove a suo agio nel mondo del trascendente e gode sereno al contatto con Dio.
Nell’aiutare la vita religiosa del bambino, dunque, non si impone qualcosa che gli estraneo, ma si risponde a una richiesta silenziosa: «Aiutami ad avvicinarmi a Dio».
Anche se l’esperienza del trascendente è già presente nel bambino, è necessario comunque che venga accompagnata da
relazioni umane significative che gli facciano comprendere la bellezza della vita e la grandezza del dono dell’amore. Sono molteplici gli studiosi che hanno approfondito i primi rapporti fra la madre e il bambino come prototipi dei futuri rapporti tra il bambino e il trascendente.
Aiutare il bambino a conoscere la sua religiosità significa aiutarlo a crescere e a sviluppare tutto quello che la fede contiene:
l’amore gratuito, la speranza nella vita e la gioia di donarsi agli altri.