Qual è la vera vita consacrata, quella che si viveva prima o quella di oggi? Sr. Maria
Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.
Qual è la vera vita consacrata, quella che si viveva prima o quella di oggi? Sr. Maria
Vorrei risponderle ribaltando la domanda…cosa vuol dire “vera vita consacrata”, ma poi si direbbe che gli psicologi rispondono domandando! Prevengo il rischio…
Una questione non da poco. Se per “prima” intende una realtà più numerosa, più strutturata e più disciplinata, le rispondo semplicemente: meglio ora, senza dubbio. Nonostante sembri che prima tutto funzionasse meglio, credo – non solo per innato ottimismo – che oggi siamo in un momento importantissimo della storia umana. Di fronte a cambiamenti epocali, amplificati come ben sappiamo dalla potenza straordinaria della Rete, le coppie, le famiglie, le realtà di vita in comune, i sacerdoti, si trovano a dover ri-motivare le proprie scelte, per capire come renderle più vere – parola che lei usa sr. Maria – cioè autentiche.
Essere autentico/a significa avere il coraggio di capire quali sono le cose essenziali nelle quali credo, per poi cercare di viverle. I tempi sono cambiati? Bene! È il momento giusto per ripensare cosa ritengo valido e come incarnarlo nell’oggi.
Immaginiamo che una coppia giovane o meno giovane si ponga in questa ottica di lavorare sull’autenticità: le domande riguarderebbero COSA si cerca stando insieme, CHE TIPO DI COPPIA si vuol essere, QUALI MEZZI si utilizzano per realizzare le precedenti risposte.
Lo stesso vale per la vita sacerdotale, religiosa e per qualunque scelta di vita in comune: PERCHE’ quella forma e non un’altra? QUALE MODELLO di riferimento ho in mente? QUALI strumenti uso per cercare di realizzarlo? Sono COERENTI al progetto di vita?
Suggerimenti verso la costruzione di scelte sempre più autentiche mi vengono da un convegno appena concluso, su Formazione e Prevenzione (organizzato dall’Arcidiocesi di Firenze, in collaborazione con la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e la Pontificia Università Gregoriana).
Un primo suggerimento riguarda la qualità relazionale: complici anche approcci psicologici che hanno favorito una logica individualistica «innanzitutto devo star bene io e di conseguenza staranno bene gli altri», questa può essere carente anche laddove ci sia un preciso obiettivo vocazionale. Uno dei relatori, mons. Dal Molin, ricordava le parole del papa in un discorso tenuto alla Cei lo scorso anno: «Il nostro primo compito è quello di costruire comunità, l’attitudine alla relazione è quindi un criterio decisivo di discernimento vocazionale».
E un altro autorevole intervento faceva notare – lo dico con parole mie – come invece il messaggio implicito degli ambienti formativi (in senso ampio, e non solo seminariali) è: guai a venir meno ad un esame, mentre pazienza se si manca ad un pasto assieme, o ad un momento di festa. In altre parole nelle persone si fa inconsapevolmente strada l’idea che la formazione accademica e la capacità intellettuale abbiano più valore della competenza umana-relazionale. L’autenticità si gioca invece su questa attenzione a non creare grandi teste, ma piccoli cuori.
Infine, sr. Maria, sono state di grande impatto le parole di un sacerdote formatore nel seminario di Milano, valide anche per altri contesti. Le riporto più o meno letteralmente: la formazione può “favorire il congelamento” dei compiti evolutivi (S. Guarinelli), lasciando le persone ad uno stadio infantile e non responsabilizzante.
Una vita diventa invece vera quando le persone sono aiutate ad “adultizzarsi”, ad assumere quella scelta di vita come propria fino in fondo. E in questo processo di verità oggi abbiamo più consapevolezza di ieri e quindi maggiori opportunità di diventare autentici.
Nell’accompagnare i giovani faccio un’esperienza che non sempre riesco a gestire al meglio: mi rendo conto che il ragazzo si porta dietro tutta la sua storia familiare che poi fa “pagare” a quelli che gli stanno intorno, a me in particolare perché rappresento l’autorità. Un formatore Non posso farci nulla: quando vedo la responsabile di comunità, mi assale letteralmente l’immagine imperiosa e invadente di mia madre che voleva imporre la propria autorità e non c’era verso di farle cambiare idea. Rimango così mal disposta che non so cosa farci. Questa sensazione poi compromette la mia relazione con lei. Una consacrata
Voglio raccontarle l’esperienza che ho fatto durante l’estate. Sono una giovane consacrata, è già il secondo anno che la mia Congregazione organizza sia la settimana di formazione, che quella di apostolato missionario, con i giovani religiosi della nostra stessa realtà carismatica. Era la prima volta che partecipavo, sia alla prima settimana che alla seconda esperienza. Sono stata contentissima di questa opportunità, trovarsi tutti insieme uomini e donne accomunati dallo stesso cammino e dallo stesso carisma, è stato coinvolgente e anche originale. Nello stesso tempo, però, sono rimasta veramente impressionata dalla differenza che ho potuto constatare nella “gestione” di noi giovani da parte dei nostri responsabili. Anzi, dal modo in cui noi stessi, giovani consacrate e giovani consacrati, ci rapportiamo sia tra di noi, che con l’autorità. Penso che noi donne siamo ancora un passo indietro. Una giovane consacrata
Da anni vivo col mio parroco, una persona senza beni materiali, ma chiusa ed egoista. Mi perdoni se sembra un giudizio, non mi vergogno di dirlo. Allora è vero che noi cinquantenni a volte abbiamo nuovi grilli per la testa: dal telefono, alla macchina, al pizzetto ricercato, e sicuramente non siamo di esempio, ma non basta la povertà in quanto tale. Non vuole essere una giustificazione badi bene. Grazie per questo prezioso servizio. Un religioso (e prete)
Sono un giovane che si sta preparando per diventare un sacerdote religioso. Sono felice della strada che sto percorrendo, però talvolta, nel confronto con i miei confratelli, coetanei o più grandi, sperimento cose che non mi vanno proprio. Le faccio qualche esempio molto concreto: l’acquisto di macchine costose, un abbigliamento ricercato, la pretesa di avere sempre qualcuno che provveda alle cose domestiche… Tutto questo mi infastidisce. Anzi, arriva a farmi mettere in dubbio che siano vere le cose che ci insegnano e che noi apprendiamo durante la formazione. Un domani vorrei essere un prete che la gente riconosca come proprio fratello, non come un principe. Un giovane in cammino
Non so Lei cosa ne pensa, ma ho timore di diventare anche io, negli anni, un prete dal viso cupo. Sono entrato in seminario perché vedevo un sacerdote della mia parrocchia sempre sorridente e ho pensato che volevo essere come lui, un prete che comunica speranza. Poi però l’esperienza che sto facendo in questi anni mi mostra che quella non dico sia un’eccezione, ma quasi. Un seminarista La nostra comunità è piccola, ma affiatata. Una sorella sta a casa e il resto di noi lavora fuori parecchie ore al giorno. C’è anche una giovane che studia e porta una bella freschezza in casa. A dirLe il vero, però, non si può dire che siamo una realtà “viva”. C’è un’aria stanca, quasi depressa. Quando abbiamo incontri allargati con altre nostre consacrate, dopo la gioia iniziale di ritrovarsi, sembra che prevalga un senso critico che, a mio parere, non ci fa per niente bene. Una consacrata
Sono sposato con Marta e abbiamo due bambini di 8 e 4 anni. Sono responsabile di un laboratorio di produzione di farmaci in una grande azienda multinazionale, mi piace e sono orgoglioso di quello che faccio, cerco di vivere anche lì la mia vocazione di volontario. Da un paio di anni ho assunto questo ruolo […]. È un gruppo piccolo di persone che nel tempo – anche prima del mio arrivo – ha sviluppato una scarsa fiducia nell’azienda e nei dirigenti, compreso il mio responsabile. Anche le possibilità di crescita individuale e gli investimenti fatti nel laboratorio sono spesso giudicati con il dubbio del secondo fine... insomma manca totalmente la fiducia. Ultimamente, anche da parte del mio responsabile, è stata adottata una posizione di sfiducia verso questo gruppo e – se anche non direttamente su di me – verso alcune mie scelte o 'mancanza di polso' nel far rispettare certe richieste. […] Io ho spiegato che […] la fiducia è l'unico modo con cui collaborare e che dobbiamo invece trovare il modo per accrescere la fiducia nei confronti delle decisioni dei vertici aziendali. Andrea