Una provocazione. Perché la vita consacrata non esercita più il suo appeal alle nostre latitudini? Colpa del benessere, della maggiore istruzione e di migliori condizioni di vita? Sr. Enza
Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.
Una provocazione. Perché la vita consacrata non esercita più il suo appeal alle nostre latitudini? Colpa del benessere, della maggiore istruzione e di migliori condizioni di vita? Sr. Enza
Interessante la provocazione di sr. Enza. La raccolgo e provo a rispondere.
La diminuzione dell’appeal della vita in comune, specie quella religiosa, credo sia dovuta innanzitutto al grosso cambiamento avvenuto col Vaticano II. La Lumen Gentium infatti ha aperto una prospettiva nuovissima: la santità alla portata di tutti, e non solo di quelle vocazioni di speciale appartenenza al Signore. È come dire che la vita consacrata non è più l’unica o almeno la “migliore” strada per vivere il vangelo, religiosi e sposi acquistano la stessa dignità.
Colpo di scena quindi. Le vie si diversificano e se vivo quella che ho scelto dando tutta me stessa, l’Amore diventa possibile anche per me.
Non basta. C’è poi la questione ancora aperta dell’urgenza di un rinnovamento di forme di vita nate in altri contesti storici e sociali, e quella femminile più di quella maschile risente di antichi retaggi culturali. Alcune esperienze di vita religiosa non sembrano attraenti, perché hanno un serio bisogno di aggiornamento, con tutta la fatica che questo richiede, tenendo conto che ci sono generazioni nostalgiche dei “tempi che furono”, a fianco delle nuove che invece scalpitano (e per nuove intendo anche la fascia dei/delle 40enni), e che il processo comunque è articolato.
Prendiamo il carisma: diversi religiosi si sentono allo stretto nel dover leggere la vita e le regole date dal Fondatore/dalla Fondatrice vissuti in un altro secolo e che hanno quindi un “linguaggio” ormai superato, non solo perché la lingua si è evoluta, ma anche perché lo stile che propongono non è più attuabile. Il modo di pregare ad esempio: le pratiche devozionali, che molte Congregazioni mantengono in vita in modo massiccio, e che pure in origine avevano il loro senso, risultano oggi poco sopportabili, alla luce di tutto il rinnovamento liturgico iniziato col Concilio.
E così per altri aspetti della vita in comune, come l’obbedienza. Come incarnarla in questo terzo millennio in cui i ragazzi iniziano a respirare autonomia praticamente da quando vengono al mondo? Come formare persone adulte e responsabili della propria vocazione?
Non è più abbastanza attraente neppure per i suoi membri un’esperienza di cui non si comprendano pienamente il significato ed il valore, perché sganciata dalla realtà locale e dai bisogni dell’umanità circostante. Difficile dunque che possa contagiare altri.
Infine, e qui vado un po’ fuori dal mio campo di competenza, da credente penso che si sia pure infiacchito il senso profondo delle nostre scelte di fede, che riguardino il matrimonio, come la vita religiosa. In fondo: cosa stiamo cercando?
Sr. Enza ha ragione: il benessere e il mito della libertà hanno indebolito la nostra capacità di dono, per cui la coppia può scivolare verso forme di individualismo a due, e la vita consacrata verso forme di agio e comodità, depotenziando così la sua forza profetica.
Ferma restando quindi la necessità innegabile che le forme di vita in comune ripensino ciò che di vero e valido possa rimanere in piedi delle proprie consuetudini, e quello che invece urge cambiare, dovremmo rianimarci tutti a mettere fuoco nelle nostre strade. L’ideale deve rimanere forte, “la profezia del Regno non è negoziabile”, tuonerebbe il nostro Papa! Le scelte ibride non sanno di un bel niente.
Negli ultimi anni ormai non facciamo che parlare delle relazioni fraterne. Partecipiamo a incontri, riempiano questionari di valutazione, ma le pecche di fondo rimangono sempre le stesse. Serve veramente parlarne? Negli incontri di clero i rapporti interpersonali da qualche tempo sono al centro dei ritiri e della formazione. Sinceramente, ma che noia, sempre le stesse cose per poi non cambiare una virgola.
Giorni fa ho richiamato un giovane che, durante un momento di gruppo, ha espresso alcuni sentimenti personali. Il mio richiamo è nato dalla preoccupazione che fratelli più anziani e maturità diverse avrebbero potuto travisare quell’espressione di sé. E infatti, dopo pochi giorni, qualche fratello è venuto a discutere con me non avendo capito cosa Marco [nome di fantasia] volesse dire. Torna, allora, un nostro “campo di battaglia” sull’essere gruppo: cosa significhi e quali sono le accortezze da mantenere. Un formatore
Siamo alcuni formatori e formatrici che si sono incontrati in una recente giornata di studio, e lavorando nei gruppi è emersa una problematica comune: come mediare tra le esigenze che realisticamente le nostre comunità, i nostri Istituti oggi hanno, e le esigenze e spesso le richieste dei singoli fratelli e sorelle? Il percorso comunitario può essere inadeguato al singolo, ma anche il percorso del singolo può diventare “scomodo” per ciò che invece si attende la comunità. Talvolta, per non dire spesso, si creano tensioni, si tira da una parte e dall’altra la questione, da cui divisioni e parteggiamenti. Capiamo che la cosa detta così è generica, ma ci sarebbe utile qualche pista percorribile per venir fuori o non cadere in queste “trappole” conflittive e divisive. Come fare?
Sono un sacerdote formatore in un Istituto a vita comune e uno dei giovani che seguo mi ha fatto conoscere la vostra rubrica. Ho cercato e trovato anche il tema che oggi vorrei evidenziare, quello dell’orientamento omosessuale. È entrato in comunità un ragazzo trentenne, laureato in Ingegneria, con esperienze lavorative proficue (un ragazzo in gamba), il quale mi ha manifestato fin dai primi incontri la propria omosessualità, e qualche pregressa esperienza affettiva con ragazzi. Questa esplicitazione mi ha spiazzato perché in genere, semmai, una simile apertura avviene molto in là nel tempo e quasi mai in maniera spontanea. Ho letto i numeri della rubrica che hanno riguardato l’argomento, ma quando poi tocca in prima persona il servizio che si porta avanti gli interrogativi si fanno concreti. La nostra realtà comunitaria sta cercando di formarsi meglio sull’argomento, quindi la mia è una richiesta di qualche suggerimento su come procedere. Non ci sono ricette, ma sicuramente sarà importante avere alcune indicazioni di massima per non far del male a nessuno. Grazie, p. Roberto
Sono una responsabile di comunità, giovane per età e per esperienza in questo ruolo. Sono stata preparata, dal punto di vista accademico, per assumere l’incarico che mi è stato assegnato, ma la domanda che mi porto da tempo è cosa favorisca veramente un cammino dei nostri fratelli, delle nostre sorelle. Nella mia esperienza, con altre della mia età, non ha funzionato, come avrebbe dovuto, l’averle mandate fuori a studiare, ma talvolta anche l’averle trattenute in apostolati interni ha avuto effetti da pre-pensionamento e deresponsabilizzanti. Qualcuna ha avuto poco a mio parere, qualcuna fin troppo, ma sembra che nulla dia garanzia assoluta di “riuscita” formativa e vocazionale.
Nella convivenza emergono situazioni che vanno oltre le difficoltà di carattere o di periodi particolari di crescita, di crisi o di prove. A volte ci troviamo con persone che minano profondamente i rapporti, la fiducia e l’amore che sono alla base della nostra vita e la ragione dello stare insieme. Fuori della comunità nessuno, neanche la famiglia, lo avverte, giacché custodiscono moltissimo l’immagine esterna di sé. Inoltre, nelle nostre comunità gli spostamenti frequenti non contribuiscono all’identificazione e all’accertamento di questi problemi. Purtroppo, tali casi sembrano non avere possibilità di cura perché la persona problematica nega la realtà vista e vissuta da tutte le altre. Anche se si parla chiaramente con lei, con esempi, dando la possibilità di una correzione, o di essere aiutata da un professionista esterno, in genere ella non accetta. Come comportarsi? Un consacrato É vero che ora si sta molto più attenti al profilo delle candidate, ma ci troviamo con alcune situazioni molto difficili e ci tocca affrontarle in modo che ci sia anzitutto la carità verso queste sorelle, ma senza trascurare nemmeno la salute e “l’esaurimento” delle altre. Le decisioni che prendiamo ora determinano in qualche modo il panorama futuro che lasciamo alle sorelle più giovani. Credo che la nostra generazione adulta abbia una grandissima responsabilità in questo senso. Avrebbe qualcosa da dirci al riguardo? Come si possono affrontare situazioni in cui la persona ha difese così alte che non riconosce niente di se stessa? Una consacrata