Quale “tipo” di comunità dovremmo offrire ai nostri giovani? Un formatore
Le mie consorelle si lamentano che non ho abbastanza attenzioni per loro. In fin dei conti mi pare che si parli di “famiglia” solo quando fa comodo. Una responsabile generale
Psicologa e Psicoterapeuta EMDR, Consultore del Dicastero per il Clero, Perito della Rota Romana e dei Tribunali del Vicariato di Roma, ho studiato presso la Pontificia Università Gregoriana e poi mi sono specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. Mi occupo in particolare di formazione e accompagnamento psicoterapeutico della vita sacerdotale e consacrata e di problematiche di coppia. Collaboro nella ricerca e nella docenza con l’Istituto di Studi Superiori sulla Donna. Con l’editrice Città Nuova ho pubblicato tre libri: La pietra della follia, Per sempre o finché dura e Percorsi vocazionali e omosessualità.
Quale “tipo” di comunità dovremmo offrire ai nostri giovani? Un formatore
Le mie consorelle si lamentano che non ho abbastanza attenzioni per loro. In fin dei conti mi pare che si parli di “famiglia” solo quando fa comodo. Una responsabile generale
Voi avete ragione a riproporre la questione, anzi grazie perché in poche battute si rischia di ridurre ai minimi termini un tema affascinante e complicato.
Alla domanda su che “tipo” di comunità, ne aggiungo un’altra: che cosa potrebbero dire di significativo le realtà di vita in comune al terzo millennio? Un giovane in ricerca cosa si aspetta da una comunità religiosa?
Penso che quello che colpisce veramente tutti noi sia trovare degli spazi di vita che siano nello stesso tempo “adulti” ed affettuosi. Cerco di spiegarmi.
Innanzitutto, usiamo pure l’espressione “famiglia” purché ci intendiamo bene. La famiglia sana è quella in cui i figli crescono, acquistando la giusta autonomia rispetto sia ai genitori, che agli altri membri, fratelli, sorelle… Allora partiamo da qui.
In comunità non si prendono distanze fisiche perché spesso si sta insieme per anni ed anni, se non per tutta la vita (una delle “anomalie” che rendono unica l’esperienza di vita insieme verso lo stesso Ideale), ma è comunque necessaria una vicinanza adulta e non adolescenziale o peggio ancora infantile. C’è un obiettivo, Qualcuno che motiva e dà senso al vivere con altri. Non è una combriccola di amici, non è un’azienda e neppure un campo-scuola.
È piuttosto un percorso insieme, che ha un altissimo valore in se stesso, ma che non rappresenta propriamente la meta finale. Per questo – mi rivolgo alla responsabile – ha ragione, sono disfunzionali quelle realtà dove ci sono eterni genitori accudenti ed eterni figli, piuttosto che persone con una maturità di base già sviluppata che, in tappe diverse, camminano cercando di portare avanti con altri lo stesso carisma.
Ciò che aiuta e consolida questa “alleanza”… ben venga: dalla preghiera comune, ad un’uscita, allo sport condiviso, ai momenti di festa, ad una gita, ad una birra, a momenti per ritrovarsi a due…ma avendo chiaro che c’è qualcosa che sta oltre l’alleanza umana e che quindi dà forma al modo di stare insieme.
Manca ancora un pezzo importante. Il Card. Joao Braz De Aviz – in uno dei suoi magnifici ed umanissimi interventi – riferiva allarmato la grande solitudine che aveva riscontrato in diverse realtà vocazionali. Un religioso lamentava tempo fa che c’era stato un grave incidente nella sua famiglia ma, passato il primo momento, nessuno si era preoccupato di domandargli notizie, e questo è triste. Accade anche nelle famiglie naturali e non ci si deve scandalizzare, oggi siamo tutti freneticamente orientati sempre in un altrove.
Molte persone lasciano, anche geograficamente, i propri affetti naturali e se non trovano il rispetto, l’ascolto, la stima, la gioia, il sincero interesse reciproco, dentro le proprie case di fede, dubito che possano “sopravvivere”, a meno di soddisfare in altro modo questi sacrosanti bisogni. La rabbia continua, l’abuso di alcol, la pornografia, l’esagerazione apostolica, l’intransigenza, il distacco…sono indici di qualche squilibrio affettivo che spesso è favorito da ambienti dove è basso il livello relazionale, perché c’è molto individualismo e si trascura l’attenzione personale.
Allora mi sta bene la metafora della famiglia per le realtà di vita in comune, se però la usiamo come modello di rapporti sani, non “appiccicosi”, che aiutano le persone a crescere, ad assumersi la responsabilità della vocazione e del suo carisma e come modello di un clima affettuoso dove si sta volentieri, perché ci si sente “a casa”.
Sono un presbitero di mezza età di una grande diocesi, e seguo fedelmente la vostra rubrica. Ho deciso di offrire anche io una breve riflessione, sperando che possa contribuire in qualche modo in questo tempo non facile. Ho l’impressione che tra noi preti prevalga un senso di competizione come se dovessimo fare i primi della classe rispetto alla gente o allo stesso Vescovo; insomma alla fine l’impressione è che siamo più colleghi di lavoro (da cui un certo carrierismo) che pastori di una stessa realtà territoriale. Mi permetto di aggiungere che non mi considero un ingenuo, anche a motivo degli anni di esperienza, ma mi rendo conto che ormai il prete è piuttosto un funzionario, quasi un burocrate piuttosto che un uomo “per la gente”.
Vedevo da tempo un mio confratello sempre più giù di morale, sempre più isolato e meno disposto a partecipare agli incontri di presbiterio. Gli ho chiesto se andava tutto bene e lui mi ha detto che era solo molto stanco. Gli ho creduto. Invece ha iniziato a bere, e nessuno di noi si è accorto che la cosa era ben più grave di quanto lui riuscisse ad ammettere. Oggi la sua condizione di salute è peggiorata molto. Questo mi genera forti sensi di colpa e l’angoscia che ciascuno di noi possa cadere vittima della solitudine. Ho pensato di condividerle questa triste esperienza. Un giovane sacerdote diocesano
Dovrò prendermi in carico un gruppo di suore anziane (18) ultraottantenni di cui sarei responsabile. Vorrei poter iniziare bene questa esperienza, per questo gradirei qualche suggerimento circa il tipo di relazione impostare con loro e la formazione da intraprendere. Sicuramente sarà un gruppo eterogeneo come formazione culturale, un po’ stanche, ripiegate sui loro disturbi legati all’età. Come aiutarle ad accettarsi ed accettare il loro corpo a questa età, che sicuramente non risponde più come vorrebbero? Grazie infinite, seguo le sue risposte, ma sono poche sull’anzianità tra le religiose. Sr Angela
Ho letto le sue ultime 3 risposte. Ma come si collocano le norme e i criteri di discernimento che la Chiesa ha stabilito da tempo in questo campo, vedi Ratio fundamentalis, approvata anche da papa Francesco? Non si ha il coraggio di prendere posizione e assumerli o contestarli? Il papa emerito Benedetto ultimamente ci ha parlato di “club omosessuali”. Lei cosa ne pensa? Un consacrato Perché non parla anche del tema abusi? Un formatore
Ho letto i precedenti numeri di questa rubrica in merito all’orientamento omosessuale in seminario o nella vita comune. Il papa ha detto che “è meglio che non entrino” persone con questo orientamento. E mi sembra che da una parte dica qualcosa di importante, ma dall’altra lasci aperta la porta ad altre possibilità o riflessioni. Lei cosa ne pensa? Un Rettore
Ho letto la sua precedente rubrica e sono curioso di vedere come tratterà l’aspetto pratico. Perché le sue riflessioni, a mio parere assolutamente necessarie oggi, non rimangano solo su un piano teorico mi dovrebbe aiutare a capire come affrontare concretamente la domanda se e come accettare uomini e donne omosessuali in seminario o in comunità. Non si può far finta che sia un argomento secondario, e neppure si può sottovalutare che siamo spesso disturbati quando veniamo a conoscenza che un confratello o una consorella (che magari fa già parte della comunità) ha un orientamento omosessuale. Mi sento spaesato su questi temi e chiedo a lei qualche chiarimento. Un formatore